Piero Melograni
Quell'8 settembre, culla dei nostri mali
"Mondo economico"
11 settembre 1993

L'armistizio dell'8 settembre 1943 costituì, per l'Italia unita, una catastrofe senza eguali. Nemmeno la sconfitta di Caporetto, nell'ottobre 1917, può essere paragonata a quella dell'8 settembre, poiché nel 1917 l'Italia seppe ritrovare le forze per resistere sul Piave e più tardi per vincere, mentre nel 1943 l'esercito e perfino lo Stato si dissolsero. Gli eserciti stranieri invasero l'intera Penisola e i due uomini che dopo l'8 settembre continuarono a incarnare il potere, Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III di Savoia, apparvero svuotati di autorità: l'uno a vantaggio dei tedeschi in declino, ma pur sempre dotati di molte armi; l'altro a vantaggio degli anglo-americani in ascesa, capaci di imporre agli italiani un'umiliante resa senza condizioni.

Anche altre nazioni europee, a causa della seconda guerra mondiale, vissero esperienze tragiche e in parte simili a quelle dell'Italia. La Francia, nel 1940, fu travolta dalle armate di Hitler, che occuparono circa metà del Paese, mentre la zona non occupata fu amministrata dai governi del maresciallo Pétain, sotto stretta sorveglianza tedesca. La stessa Germania, nel 1945, fu invasa da anglo-americani e sovietici e infine spaccata in due Stati collocati in due mondi diversi. Eppure si direbbe che né per la Francia né per la Germania le catastrofi subite negli anni 40 comportassero uno smarrimento morale cosi' vasto e profondo come quello prodottosi in Italia in seguito all'armistizio dell'8 settembre. Uno smarrimento tale da far ritenere che perfino la grande crisi politica di oggi affondi le sue radici in quella terribile vicenda di mezzo secolo fa.

Non abbiamo dubbi sul fatto che il disastro dell'8 settembre abbia prodotto e continui ancor oggi a produrre serie conseguenze sulla psicologia collettiva degli italiani. Ma sappiamo pure che, nel trattare il grande tema della psicologia dei popoli, e' facile cadere nelle banalità, per non dir peggio. Cercheremo dunque di proporre qualche elemento di riflessione con tutte le riserve del caso. Diremo allora che molto probabilmente, nella storia dell'Italia unita, c'è sempre stata una notevole sproporzione tra le aspirazioni degli italiani e la limitata realtà del loro Stato. Nell'ultimo cinquantennio, dopo l'8 settembre, gli italiani non hanno quasi più avuto il coraggio di parlare di ''patria'', di glorie nazionali e di magnifici destini. Ma non è escluso che, nel loro inconscio, abbiano continuato a coltivare un oscuro desiderio di primeggiare. Sarà bene ricordare che alla fine del secolo scorso, subito dopo la raggiunta unità, molti credettero fermamente che si sarebbe presto affermata una ''terza Roma'', pari, se non superiore, alla Roma imperiale e a quella dei papi. E quando eressero il monumento destinato a simboleggiare la raggiunta unità nazionale, gli italiani lo situarono nella capitale, accanto al Campidoglio, al Colosseo, agli antichi Fori e tale, per le sue dimensioni, da sovrastarli, sfidando con la sua bianca mole perfino la basilica di San Pietro, simbolo della cristianità. E' vero che tra il 1918 e il 1920, in conseguenza della guerra, della sconfitta di Caporetto nonché della ''vittoria mutilata'', che li privava di Fiume e Dalmazia, molti italiani persero fiducia in loro stessi e cercarono conforto in miti esterni: nel mito americano (il presidente Wilson fu accolto a Milano come un grande eroe) e nel mito sovietico (la sinistra disse di voler "fare come in Russia"). Ma nel seguente ventennio tornò ad affermarsi un mito interno fortemente intriso di romanità. Mussolini fu paragonato ad Augusto. Adulti e bambini tesero il braccio nel ''saluto romano''. La festa del lavoro fu celebrata il 21 aprile, anniversario della fondazione di Roma. E il 9 maggio 1936, conquistata l'Etiopia, Mussolini proclamò: "Dopo quindici secoli, la riapparizione dell'impero sui colli fatali di Roma". La stragrande maggioranza degli italiani si credette erede degli antichi legionari.

Oggi sappiamo che si trattava di fumo, che l'Italia contava poco o nulla e che le regole del gioco venivano dettate da un ex imbianchino austriaco, salito al potere nel 1933 in una nazione molto più potente di quella italiana. Nel 1939 la guerra fu voluta da Berlino, non da Roma. Tanto è vero che nel 1940 gli italiani entrarono in guerra non per combatterla (credendola già finita), ma per conservare i territori conquistati e contenere in futuro la prepotenza hitleriana.

Forse la maggiore differenza tra gli italiani e tutti gli altri popoli belligeranti risiedette proprio in questo: che tutti combatterono per vincere, mentre gli italiani, Mussolini incluso, parteciparono alla guerra augurandosi che essa finisse con un ''pareggio'', più che con la vittoria di una delle due parti. L'8 settembre, insomma, prima che una disfatta militare, fu una disfatta politica e morale, nata da una posizione oltremodo equivoca, determinatasi fin dal giorno dell'intervento. In uno dei rari libri dedicati alla crisi morale del 1943, De Profundis (Adelphi), Salvatore Satta scrisse con molta chiarezza: "La nota dominante di questa guerra è che il popolo italiano, nella sua immensa maggioranza, ha voluto la propria sconfitta". Dopo l'8 settembre, bruciato dalle sue delusioni, questo popolo si rifugiò nuovamente nei suoi due miti esterni: quello americano e quello sovietico. E in più, come in epoche remote, moltissimi si chinarono reverenti verso la Chiesa di Roma, guidata da Pio XII. Le premesse dell'egemonia dei due partiti radicati all'esterno delle tradizioni unitarie, il democristiano e il comunista, furono in tal modo poste. Né ci furono terze forze in grado di imporre un ideale moderno, legato alla storia degli italiani, ai loro caratteri nazionali, e nello stesso tempo affrancate dagli anacronistici sogni di romanità e di primato italico.