VITTORIO ALFIERI
(1749-1803)
Candido cor, che in sul bel labro stai
Di quella schietta, che il mio tutto io chiamo;
Per te piú sempre che me stesso io l'amo,
Tu piú m'incendi che i suoi negri rai.
Chi di beltà, chi di lusinghe, e assai
Colti son d'arti e di menzogne a l'amo:
Non io; che, in prova, libertà non bramo;
E l'anno è il nono de' miei lacci omai.
Un dirmi ognor soavemente il vero,
Ancor che spiaccia; ed a vicenda, un breve
Sdegno in udirlo, indi un perdon sincero;
Un profondo sentire in sermon lieve;
Infra il lezzo del mondo animo intero:
Bei pregi; a cui servir, non fia mai greve.
Solo, fra i mesti pensieri, in riva
Al mar, là dove il tosco fiume ha foce,
Con Fido, il mio destrier, pian pian men giva:
E muggian l'onde irate, in suon feroce.
Quell'ermo lido, e il gran fragor, mi empiva
Il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
D'alta malinconia, ma grata, e priva
Di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.
Dolce oblio di mie pene e di me stesso
Ne la pacata fantasia piovea:
E, senza affanno, sospirava io spesso.
Quella ch'io sempre bramo, anco parea
Cavalcando venirne a me dappresso:
Nullo error mai felice al par mi fea.
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Alfieri da Asti - Conte di Cortemilia
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