PIETRO BEMBO

(1470-1547)


Moderati desiri, immenso ardore,
Speme, voce, color cangiati spesso,
Veder, ove si miri, un volto impresso,
E viver pur del cibo, onde si more,

Mostrar a duo begli occhi aperto il core,
Far de le voglie altrui legge a se stesso,
Con la lingua e lo stil lunge e da presso
Gir procacciando a la sua donna onore,

Sdegni di vetro, adamantina fede,
Sofferenza lo schermo e di pensieri alti
Lo stral e 'l segno opra divina,

E meritar e non chieder mercede,
Fanno 'l mio stato, e son cagion ch'io speri
Grazie, ch'a pochi il ciel largo destina.


Viva mia neve, e caro e dolce foco,
Vedete com'io agghiaccio e com'io avampo,
Mentre, qual cera, ad or ad or mi stampo
Del vostro segno, e voi di ciò cal poco.

Se gite disdegnosa, tremo, e loco
Non trovo che m'asconda, e non ho scampo
Dal gelo interno; se benigno lampo
Degli occhi vostri ha seco pace e gioco,

Surge la speme, e per le vene un caldo
Mi corre al cor, e sì forte l'infiamma,
Come s'ei fosse pur di solfo e d'esca.

Né per questi contrari una sol dramma
Scema del penser mio tenace e saldo,
C'ha ben poi tanto, onde s'avanzi e cresca.


CAPITOLO I.

Amor è, donne care, un vano e fello,
Cercando nel suo danno util soggiorno,
Altrui fedele, a sé farsi rubello:

Un desiar, ch'in aspettando un giorno
Ne porta gli anni e poi fugge com'ombra;
Né lascia altro di se, che doglia e scorno;

Un falso imaginar, che sì ne ingombra
Or di tema or di speme e strugge e pasce,
Che del vero saper l'alma ne sgombra:

Un ben, che le più volte more in fasce;
Un mal, che vive sempre e, se per sorte
Tallor l'ancidi, più grave rinasce:

Un agli amici suoi chiuder le porte
Del cor, fidando al nemico la chiave,
E far i sensi a la ragione scorte;

Un cibo amaro, e sostegno aspro e grave;
Un digiun dolce, e peso molle e leve,
Un gioir duro, e tormentar soave:

Un dinanzi al suo foco esser di neve,
E tutto in fiamma andar sendo in disparte;
E pensar lungo, e parlar tronco e breve;

Un consumarsi dentro a parte a parte,
Mostrando altrui di for diletto e gioia,
E rider finto, e lagrimar senz'arte;

Un, perché mille volte il dì si moia,
Non cercar altra sorte e gir contento
A la sua ferma e disperata noia:

Un cacciar tigri a passo infermo e lento,
E dar semi a l'arena, e pur col mare
Prati rigar, e nutrir fiori al vento:

Le guerre spesse aver, le paci rare,
La vittoria dubbiosa, il perder certo;
La libertate a vil, le pregion care;

L'entrar precipitoso, e l'uscir erto,
Pigro il patti servar, pronto il fallire,
Di poco mel molto assenzio coperto,
E 'n altrui vivo, in se stesso morire.


Lasso me, che ad un tempo e taccio e grido,
E temo e spero, e mi rallegro e doglio:
Me stesso ad un Signor dono e ritoglio:
De' miei danni egualmente piango e rido.

Volo senz'ale e la mia scorta guido:
Non ho venti contrari, e rompo in scoglio,
Nemico d'umiltà non amo orgoglio:
Né d'altrui né di me molto mi fido.

Cerco fermar il Sole, arder la neve:
E bramo libertate, e corro al giogo,
Di fuor mi copro, e son dentro percosso.

Caggio, quand'io non ho chi mi rileve:
Quando non giova, le mie doglie sfogo:
E per più non poter fo quant'io posso.


Già vago, or sovr'ogni altro orrido colle;
Poi che 'l bel viso, in cui volse mostrarsi
Quanto ben qui fra noi potea trovarsi,
Luce ad altro paese, a te si tolle;

Dura quell'acqua e questa selce molle
Fia, prima ch'io non senta al cor girarsi
La memoria del dì, quando alsi ed arsi
Nel bel soggiorno tuo, come 'l ciel volle.

Por si può ben nemica e dura sorte
Fra noi talora, e 'l nostro vital lume;
Romper no a l'alma il penser vivo e forte;

Che speri, o tema, o goda, o si consume,
Torna sempre a quel giorno; e le sue scorte
Sono due stelle, e gran desio le piume.


I chiari giorni miei passar volando,
Che fur sì pochi, e tosto aperser l'ale:
Poi piacque al ciel, cui contrastar non vale,
Pormi di pace, e di me stesso in bando.

Così molt'anni ho già varcato: e quando
Mancar devea la fiamma del tuo strale,
Amor, che questo incarco stanco e frale
Tutto dentro e di fuor si va lentando;

Sento un novo piacer possente e forte
Giugner ne l'alma al grave antico foco,
Talch'a doppio ardo, e par che non m'incresca.

Lasso ben son vicino alla mia morte:
Ché puote omai l'infermo durar poco,
In cui scema virtù, febbre rinfresca.


CANZONE XXVI

Poscia che 'l mio destin fallace ed empio
Nei dolci lumi dell'altrui pietade
Le mie speranze acerbamente ha spento;
Di pena in pena, e d'uno in altro scempio
Menando i giorni, e per aspre contrade
Morte chiamando a passo infermo e lento,
Nebbia e polvere al vento
Son fatto, e sotto 'l Sol falda di neve;
Ch'un volto segue l'alma, ov'ella il fugge;
E un penser la strugge
Cocente sì, ch'ogni altro danno è leve:
E gli occhi, che già fur di mirar vaghi,
Piangono e questo sol par che gli appaghi.

Or che mia stella più non m'assicura,
Scorgo le membra via di passo in passo
Per cammin duro e 'n penser tristo e rio:
Ch'io dico pien d'error e di paura,
Ove ne vo, dolente? e che pur lasso?
Chi mi t'invidia, o mio sommo desio?.
Così dicendo un rio
Verso dal cor di dolorosa pioggia,
Che può far lacrimar le petre istesse;
E perché sian più spesse
L'angoscie mie, con disusata foggia,
U' che 'l piè movo, u' che la vista giro,
Altro che la mia donna unqua non miro.

Co 'l piè pur meco, e co 'l cor con altrui
Vo camminando, e dell'eterna riva
Bagnando for per gli occhi ogni sentero,
Alor ch'i penso: ohimè, che son, che fui?
Del mio caro tesoro or chi mi priva;
E scorge in parte, onde tornar non spero?
Deh perché qui non pero,
Prima ch'io ne divenga più mendico?
Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,
Per vestirmi di doglia
Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico
Destin, a che mi trai, perché non sia
Vita dura mortal, quanto la mia?

Ove men porta il calle o 'l piede errante,
Cerco sbramar piangendo, anzi ch'io moia,
Le luci, che desio d'altro non hanno:
E grido, o disaventuroso amante,
Or se' tu al fin della tua breve gioia,
E nel principio del tuo lungo affanno.
E gli occhi, che mi stanno
Come due stelle fissi in mezzo a l'alma;
E 'l viso, che pur dianzi era 'l mio Sole;
E gli atti e le parole,
Che mi sgombrâr del petto ogni altra salma;
Fan di pensieri al cor sì dura schiera,
Che meraviglia è ben, com'io non pera.

Non pero già, ma non rimango vivo;
Anzi pur vivo al danno, alla speranza
Via più che morto d'ogni mia mercede.
Morto al diletto, a le mie pene vivo;
E, manco del gioir, nel duol s'avanza
Lo cor, ch'ognor più largo a pianger riede:
E pensa e ode e vede
Pur lei, che l'arse già sì dolcemente,
E or in tanto amaro lo distilla:
Né sol d'una favilla
Scema 'l gran foco de l'accesa mente:
E me fa gir gridando: o destin forte,
Come m'hai tu ben posto in dura sorte!

Canzon, omai lo tronco ne ven meno,
Ma non la doglia che mi strugge e sforza;
Ond'io ne vergherò quest'altra scorza.

 


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