Capitolo 74: L’avvento

 

I quattro Arvenauti correvano veloci lungo il giardino reale. “Dove si trova l’entrata, Argos?”, domandò dopo alcuni minuti Pandora, che avanzava insieme ai tre compagni fra rose, tulipani ed altri bellissimi fiori, “Ormai è poco distante”, rispose prontamente l’ex semidio, prima di fermarsi, “C’è però qualcuno che ci attende”, avvisò, impugnando la propria arma.

Atanos, Eracles, Argos e Pandora avanzarono con passo deciso fino alle porte esterne del castello, lì trovarono ad attenderli Aristos, principe primogenito di Priaso.

Il guerriero dalle vestigia dorate li scrutò, contandoli, “Quattro su sei sono giunti fin qui, gli altri sono forse corsi ad attaccare le mie guarnigioni alle porte di Passis?”, domandò con tono deciso il figlio del monarca, “No, il Guerriero ed il Cacciatore sono rimasti indietro per proteggerci dai tuoi due generali, Principe, che già dinanzi a noi si erano posti”, replicò il Guardiano, sollevando il bastone dinanzi a se.

“Che cosa? Pirros ed Orpheus sapevano?”, esclamò sbalordito Aristos, incredulo a ciò che gli era stato detto. “Anche Acteon è intento a combattere?”, domandò stupito Eracles, rivolgendosi ad Atanos, “Certo, ragazzo, altrimenti non sarebbe rimasto indietro, se non per difenderci da attacchi a sorpresa”, spiegò subito l’Immortale, appoggiando la mano alla spada.

“No, Atanos, lascia a me il Principe di Lutibia, che sembra desideroso di combattere con noi, anziché salvare il suo regno da chi realmente lo minaccia”, esordì allora Argos, fermando con un gesto il compagno di viaggio, che subito allontanò le mani dalla spada.

“Io non vedrei la minaccia? Eppure riesco persino a contarvi qui dinanzi a me, invasori”, osservò Aristos, sollevando la lama luminosa, “Non siamo noi la minaccia, Principe di Lutibia, il tuo cuore ed i tuoi occhi non dovrebbero essere puntati contro di noi, bensì contro colui che da tempo ti inganna, colui che ha permesso al cuore di Orpheus di marcire e ha fatto in modo che Pirros si unisse a voi, due creature stregate dalla forza dell’Idra Nera, la stessa che sta tessendo un tetro piano intorno a queste terre”, avvisò in tutta risposta Argos, “Idre Nere! Tutti mi parlate di queste bestie oscure, ma non ne ho mai visto!”, tuonò infuriato il primogenito di Priaso, lanciandosi contro il Guardiano.

Con un veloce movimento della lama il Principe tentò di affondare nel ventre avversario, ma Argos, quasi avesse previsto la sua mosse, si spostò lateralmente e, roteando il bastone, deviò la spada avversa, costringendo poi il nemico a barcollare in avanti, colpito da una stoccata al ginocchio sinistro.

“Devi capire, Principe di Lutibia, noi non ti siamo nemici, non vogliamo il male per voi tutti”, spiegò l’ex semidio, “Non posso credere a queste parole, troppa gente del mio popolo è morta in questa guerra, troppe famiglie reclamano giustizia ed io, primogenito di Lutibia, devo ascoltare le loro richieste di giustizia e fare di tutto per impedire altre sofferenze, anche se dovessi caricare sulle mie sole spalle tutto il peso di mille battaglie”, replicò deciso Aristos, voltandosi di scatto.

“Sei un uomo pieno di onore, Principe”, si congratulò Argos, pronto a continuare la lotta, seppur a malincuore.

 

Poco lontano da questo campo di battaglia, nelle stanze di Priaso, giunse la guardia cui Aristos stesso aveva ordinato di avvisare padre e fratello. “Maestà”, esclamò il soldato entrando nelle stanze del sovrano e trovandolo intento a pregare il dio Porian, “vostro figlio Aristos chiede che vi allontaniate dalla città, poiché sembra che alcuni nemici vi siano penetrati, egli stesso si sta occupando di loro, mentre le milizie già si preparano svelte alla battaglia”, spiegò subito, inchinandosi dinanzi al suo Re.

“Ti ringrazio dell’avviso, nobile soldato, ma non posso lasciare la mia terra. Di questi luoghi io sono il Re e malgrado debba mandare i miei figli in battaglia, con sofferenza immensa del mio cuore di vecchio, non posso abbandonare nemmeno un granello della spiaggia al destino che gli si prospetterebbe se perdessimo. Preferirei morire per la mia terra anziché lasciarla a dei nemici capaci di uccidere ogni nostro messaggero”, spiegò con tono triste Priaso, sovrano di Lutibia. “Vai ad avvisare mio figlio Axides, che si salvi almeno lui, e poi corri dai tuoi cari, al fine di salvare anche loro, poiché non c’è dolore peggiore di veder morire chi si ama, credimi, ho provato tale sensazione con il mio piccolo Palion e temo ogni giorno di provarla di nuovo”, concluse il sovrano, con un triste sorriso verso il proprio soldato.

“Si, maestà”, riuscì appena a balbettare il militare, chinando il capo, prima di lasciare da solo il proprio Re, per dirigersi verso le stanze del principe Axides, secondogenito di Priaso.

 

Negli stessi minuti in cui il soldato parlava con il suo sovrano, nelle camere di Cassandra i cinque Custodi sentivano le urla disperate della loro Principessa. “Sono loro, i Peggiori, vengono per il nuovo fratello e per spazzarci via! Avvisate mio fratello, salvate il popolo tutto, ma non preoccupatevi di me”, urlava di continuo la giovane figlia di Priaso.

Myooh, il possente guardiano dai grandi muscoli, osservava perplesso Anhur, “Non ci muoveremo di qui, il nostro dovere è difendere Cassandra, qualunque sia il nemico che si sta avvicinando noi ci preoccuperemo solo della sua vita, anche se ciò ci dovesse costare le nostre”, sentenziò quello che un tempo era Colonnello dell’esercito di Lutibia.

 

Dinanzi all’entrata secondaria del giardino reale, Aristos era di nuovo in posizione di guardia contro Argos, uno degli Arvenauti.

Con un rapido movimento a falciare il Principe si avvicinò al suo avversario, tentando di colpirlo con furia guerriera, ma la lama andò ad affondare nel vuoto giacché il Guardiano riuscì a spostarsi in tempo e per poco non investì con il proprio bastone il nemico, che solo grazie alla copertura dell’avambraccio deviò l’assalto, obbligando l’arma avversaria ad un movimento innaturale, che fu subito seguito dal braccio dell’ex semidio.

Approfittando della posa presa dal Guardiano, il Principe cercò di raggiungerlo con un fendente al collo, al fine di decapitarlo, ma Argos appoggiò il piede destro al suolo e con un movimento improvviso roteò il tronco del corpo assieme alla gamba sinistra con cui raggiunse alla nuca l’avversario con un potente calcio, gettandolo al suolo.

“La lotta corpo a corpo non è il massimo per me, ma non sono di certo inferiore ad altri nell’usarla”, avvisò subito l’Arvenauta, “ora, però, Principe di Lutibia, ti prego di smetterla e riflettere su quante volte avrei già potuto ucciderti in questo scontro. Non desidero la tua morte, né quella di uno qualsiasi dei tuoi soldati, voglio solo che si faccia chiarezza su questa guerra, una guerra folle che né Priaso, né Ruganpos, volevano e di certo nemmeno gli dei che io stesso servo e servivo la desideravano”, spiegò il Guardiano, allontanandosi di qualche passo dall’avversario.

“Se nessuno di loro la desiderava, chi ha mosso per avere questa guerra? Quale uomo è stato tanto pazzo da arrivare a questo massacro?”, tuonò infuriato Aristos, rialzandosi in piedi, “Non un uomo, ma un essere con il cuore di un mostro, forse qualcuno che ti era così vicino e caro da non renderti nemmeno tu conto di quanto il suo animo fosse corrotto. Noi stessi abbiamo visto Anirva, un tempo saggia divinità dell’Est, diventare una delle Nove Teste dell’Idra solo per placare il suo terrore di essere ucciso, come accadde all’Eccelso Rahama. Spesso è il sentimento più stupido, quale il terrore, o l’avarizia, a portare alla corruzione dell’anima e del corpo”, spiegò Argos con tono cupo.

In quel momento, mentre l’ex semidio parlava, Atanos avvicinò la mano alla spada, “Che succede?”, chiese subito Eracles, notando il movimento, “Qualcosa si avvicina”, rispose Pandora, il cui volto sembrava adesso sofferente per un qualche dolore oscuro.

 

Nelle fognature Orpheus rifletteva in silenzio sulle parole di Iason, una tristezza senza pari lo aveva circondato molto tempo fa ed ora in quella nube di grigiore il Musico riusciva ad intravedere un piccolo bagliore di speranza, forse anche lui avrebbe trovato una sua via, un modo per placare le sofferenze del suo cuore. Quei pensieri, però, furono fermati da un’orribile sensazione, “Che cosa?”, riuscì appena a balbettare il discendente di Odisseus prima di comprendere. Sul volto di Orpheus un lampo di terrore si dipinse, misto ad odio e disgusto, “Non può essere. Questo era il motivo!”, tuonò stupito il Musico, cercando di rialzarsi, ma il dolore al petto era incessante, di certo il colpo di Iason gli aveva fratturato qualche costola ed ora non riusciva a muoversi al meglio, “Devo avvisarli, non possono morire adesso”, si disse, cercando di rimettersi in piedi.

 

Nella zona del giardino reale vicina al tombino fognario, il corpo di Pirros ancora si agitava fra le fiamme, lo stesso Generale si lamentava silenzioso, cercando di spegnere il proprio dolore, finché qualcosa non apparve sopra di lui, una figura possente in controluce, che non riuscì a distinguere bene.

“Smettila di lamentarti, non morto, il tuo padrone ti chiama, come il mio chiama me, è tempo che su questa terra scenda la fine”, ordinò la figura, mentre avvicinava a se un destriero informe che, soffiando sulle fiamme, le spense, permettendo a Pirros di rialzarsi.

“Chi diavolo sei?”, tuonò subito il Generale, “Sono al servizio di un pari del tuo padrone”, replicò con tono duro l’altro, “Chi sarebbe il mio padrone? Axides?”, domandò perplesso Pirros, “Non colui che deve ascendere, ma l’essere che ha fatto tornare in questo mondo te e tuo padre, il tuo primo padrone”, tagliò corto l’individuo, i cui movimenti, seguiti da clangore metallico, lasciavano intuire che indossasse una pesante e resistente armatura nera. “Ora andiamo, ben presto tutti saranno sulla scena, pronti per l’ultimo atto”, ordinò il misterioso essere, salendo sul proprio destriero e facendosi seguire dal Generale Fiammeggiante il cui corpo era per adesso nascosto dall’oscurità della notte, “Hai ragione, ormai siamo entrati nel quinto giorno, la prima ora della notte sta per giungere”, ridacchiò Pirros, salendo sulla strana cavalcatura.

 

Iason ed Acteon sentirono il cupo rumore di armi che si scontravano e poi delle parole, frasi che alle loro orecchie non erano ancora molto chiare, frasi pronunciate da una voce aliena e da Argos, l’ex semidio che li aveva accompagnati nel loro lungo viaggio.

Bastarono pochi minuti ai due per raggiungere i loro compagni e trovarli intenti a combattere con Aristos, principe di Lutibia.

“Iason, Acteon!”, esclamò Eracles, vedendoli sopraggiungere, l’uno ferito e l’altro solo un po’ stanco, all’apparenza.

“I due generali”, rifletté perplesso Aristos, capendo che, se i due nemici dovevano essere lì, coloro che li avevano fermati avevano fallito il loro intento. “Orpheus sta riposando, i colpi che gli ho inferto erano pesanti, ma non lo hanno ucciso, poiché non era questo che volevo”, avvisò subito il Guerriero di Aven, “L’altro, invece, è diventato una braciola, come meritava”, sentenziò il Cacciatore con un sorriso sofferente sul volto, per le ferite subite.

“Ho comunque scoperto come facevano a sapere di noi”, aggiunse poi Acteon, “Sembra che Pirros, sia stato resuscitato come i Naviganti di Lutibia e come le Axelie ed insieme a lui è stato resuscitato suo padre, che adesso combatte nell’esercito di Aven”, spiegò il Cacciatore.

“Quindi c’è una spia vicino a Ruganpos?”, domandò sorpreso Eracles, “Purtroppo si, e sono quasi sicuro che sia uno dei generali, dato che solo noi, il Re ed i tre generali sapevamo del piano”, rifletté Iason con tono preoccupato.

“Tutto quello che dite è impossibile! Come si può fare questo? Resuscitare la gente è follia”, tuonò infuriato Aristos, il cui scontro era stato interrotto da queste nuove notizie, “Non follia, ma maleficio di una delle Nove Teste dell’Idra Nera”, lo ammonì Argos. “Tuo fratello Palion ed i suoi sei compagni di viaggio erano stati risvegliati in questo modo ed insieme a loro anche quel tuo generale. Pensi veramente che un uomo normale possa guidare il fuoco? No, egli era una creatura riportata alla vita da poteri malefici, come di certo lo sarà suo padre”, avvisò Iason, “Tu devi averla percepita la presenza di questa particolare Idra Nera, il suo odio invade tutto, circonda l’aria, disgusta uomini e bestie, quasi come se volesse spazzare via tutto, senza pietà alcuna”, raccontò Pandora con voce sofferente, “non puoi essere stato sordo a questa sensazione, è qualcosa che un uomo consacrato a Porian dovrebbe sentire con ribrezzo”, osservò la giovane Signora del Nero Sciame.

“Forse, Principe, non vuoi accettare che qualcuno, magari un tuo parente, possa essere stato capace di vendere la propria anima e tutte le vostre vite a creature così malvagie ed oscure? Temi di ammettere che nel tuo casato reale vi sia una serpe così oscura?”, domandò con voce fredda ed impassibile Atanos, “No! Non può esserci qualcuno così. Mio padre ha già sofferto abbastanza per la pazzia di mia sorella e la morte di Palion, non può avere anche una serpe del genere in seno”, tuonò infuriato Aristos, sollevando la spada, mentre calde lacrime rigavano il suo volto.

“Permettici di raggiungere tuo padre, prima che sia troppo tardi, te ne prego”, esordì dopo alcuni minuti Argos, abbassando la propria arma, “No, non posso farlo. Sono prima di tutto Principe e Generale di Lutibia, non lascerò mai passare degli invasori. Se qualcuno deve salvare questa terra lo farò io, che da tempo ho deciso di sacrificare la mia stessa esistenza per ognuno dei miei sudditi, come tutti loro farebbero per me”, spiegò con voce decisa Aristos, pronto a continuare la battaglia.

 

Nell’accampamento degli Avenui la notte passava lenta per Ebhe, Generalessa e semidea con il nome di Linnea. Qualcosa preoccupava quell’esile e bellissima figura bionda, costringendola a camminare con passi lenti nella sua tenda. Pochi minuti prima aveva persino sentito qualcuno, di certo uno degli altri due generali, uscire dalla propria tenda per dirigersi verso la zona più interna dell’accampamento, dove si trovavano gli alloggi dei due sovrani, “Di certo o l’Anies, o l’uomo, dovrà dire qualcosa al proprio Re, seppur l’orario non è dei migliori”, rifletté la giovane Generalessa.

Ricordava Ebhe come entrambi il giorno prima erano apparsi piuttosto perplessi dinanzi al piano degli Arvenauti, un piano pericoloso, anche a suo parere, ma lei aveva fin troppa fiducia in Argos, un semidio, come lei, un essere con cui aveva passato l’eternità e con cui adesso aveva vissuto momenti ancora più intensi in quelle spoglie mortali, nell’involucro di carne e materia dove entrambi erano confinati, seppur per motivi diversi.

I ricordi dei momenti passati assieme in quei giorni di guerra dipinsero un sorriso sul volto della Generalessa, prima che una sensazione, un orrido senso di morte la investisse, come un vento gelido, poi sentì solo delle urla di uomini ed un clangore metallico, seguito da un verso immondo.

Subito Ebhe corse fuori dalla sua tenda e vide sfrecciare qualcosa nel cielo, una bestia alata, quasi un cavallo, ma in qualche modo da questo differente, un animale su cui si trovavano tre figure indistinte nell’oscurità della notte.

“Presto, accorrete!”, sentì urlare da una guardia, “Ci sono dei soldati feriti e Re Nator è grave!”, tuonò un altro.

Con passo svelto la Generalessa fu vicina alle tende dei due sovrani che trovò distrutte e circondate da decine di cadaveri. Alcuni soldati stavano portando via i morti, mentre altri si occupavano di curare il sovrano di Tryo, Nator, che Ebhe vide al suolo, con lo stomaco aperto da parte a parte.

“Il Generale, è stato lui, ha preso Ruganpos, c’era anche un mostro, un essere oscuro con un’armatura”, sussurrò prima di spirare il vecchio sovrano.

La Generalessa si chinò sul suo cadavere, “Che gli dei del cielo abbiano misericordia di te, che hai sofferto tanto nei tuoi ultimi anni di vita”, sussurrò Ebhe, prima di voltarsi verso uno dei soldati vicini. “Vai alle tende dei miei pari, se una sarà vuota, allora riterrete il suo proprietario un traditore, nell’altra troverete il mio parigrado che dorme, svegliatelo ed informatelo di preparare l’esercito, si parte subito per la Lutibia, qualcosa di oscuro sta accadendo lì e non possiamo lasciare che siano solo gli Arvenauti a rischiare la vita”, ordinò la semidea, correndo a chiamare le milizie più esterne, affinché si preparassero all’assalto.

 

Aristos osservava i suoi sei avversari, scrutava l’uno e poi l’altro, vedendo fra loro due feriti, un ragazzino, un uomo che non aveva alcun desiderio di continuare lo scontro, una donna sofferente ed un individuo dal viso pallido e gelido. “Principe di Lutibia, cerca di capire i nostri cuori, noi non ti siamo nemici, tutti vogliamo la stessa cosa, cioè la salvezza dei popoli di Aven e della Lutibia”, esordì nuovamente Argos, avvicinandosi disarmato, “Come posso credervi, dopo che siete entrati di nascosto nel nostro Regno?”, tuonò in tutta risposta il primogenito di Priaso. “Scruta nel tuo cuore, tu sai ben soppesare la giustizia e l’ingiustizia, ne siamo certi”, sentenziò il Guardiano con voce quieta.

In quel momento, però, accadde qualcosa di inaspettato, un brivido scosse i corpi di Argos ed Acteon, una sensazione passata, già vissuta su due isole durante il loro viaggio, lo stesso brivido, ma meno intenso fece vibrare anche Eracles, Iason ed Aristos, prima che Pandora si chinasse sulle ginocchia, iniziando ad urlare sofferente, per poi cadere in uno stato di apatia e silenzio. “Cosa succede?”, domandò perplesso il Principe di Lutibia.

“Si mostrano a noi, finalmente”, esclamò a quel punto Atanos, alzando il capo verso due colonne di marmo, sopra cui erano appena apparsi delle figure incappucciati, nere ed oscure come la notte più tetra.

“Voi chi siete?”, tuonò Aristos, sollevando la spada verso quelle creature lontane, ma nessuno rispose, anzi uno dei due scambiò uno sguardo con il Principe, osservando con occhi verdi pieni d’odio, un odio che fece inginocchiare il primogenito di Priaso terrorizzato.

“Il tempo è giunto, confratello”, sentenziò l’essere dagli occhi verdi, prima che le mani dei due apparissero dal nulla, strappando via le lunghe tuniche e lasciando che i loro volti si mostrassero agli Arvenauti.

 

Gli occhi verdi erano incastonati in un volto grigiastro il cui naso, schiacciato contro la bocca, ricordava più un malefico serpente che un vero e proprio essere umano, allo stesso tempo, però, i capelli, lunghi e sottili, di un nero più oscuro della notte, scendevano da quel capo malefico, arrivando fino al vestito, un esile abito marrone, che nascondeva perfettamente braccia, tronco e gambe, lasciando però una sicura abilità nei movimenti a chi lo indossava. Quest’essere sembrava quasi non avere orecchie e, come subito notarono coloro che lo osservavano, ogni volta che respirava si potevano intravedere delle oscure squame su tutta la fronte, quasi fossero quelle di un vero serpente.

L’altro aveva lunghi capelli riccioluti di un viola acceso, capelli che si confondevano con una barba riccia, simile quasi ad una criniera di leone nel suo insieme ed un leone era proprio disegnato sulla corazza che indossava sul corpo. Le braccia erano scoperte, ma gambe e tronco potevano dirsi coperti da una sottile corazza, non resistentissima, ma molto regale per il bellissimo disegno di un oscuro leone dalle zanne affilate e dagli artigli simili a serpenti. Questo individuo portava alla cinta una spada, lunga più di quelle normali dell’Oleampos, ma non simile alle spade costruite per i Senku di Tenkia, quasi una via di mezzo, in ogni suo particolare anche nell’impugnatura, simile alla testa di una tigre malefica, che ghignava contro i propri nemici.

“Salve, Arvenauti, così vi chiamate, giusto?”, domandò prontamente l’uomo dalla lunga criniera di capelli, “Io sono Bram-Nur e questi è Ceclon, ma voi avete sentito parlare di noi come i Confratelli Maggiori, le due Idre Nere più antiche”, si presentò l’essere oscuro, con un malefico sorriso soddisfatto.

Tutti, appena i loro nemici si rivelarono, capirono che la vera battaglia stava per iniziare nelle terre di Lutibia.