Capitolo 80: Quarto Scontro – Il dovere del Primogenito

 

Nel giardino reale, mentre lo scontro fra Bram-Nur, i suoi Quattro Cavalieri e gli Arvenauti stava per iniziare, altri due guerrieri si studiavano con attenzione, pronti a combattere tra loro, questi erano Aristos, Primogenito dell’ormai defunto Priaso, ed Aklo, conosciuto dagli Avenui come Hadon, generale traditore del loro esercito.

 

“Ora sei pronto per il vero scontro, Principe, o forse ti dovrei definire Re?”, domandò divertito Aklo, lanciandosi in un nuovo colpo con le due spade che portava.

Con un movimento scattante, Aristos bloccò le due spade che calavano contro di lui come una gigantesca croce. Con la sola forza delle braccia e della sua lama dorata, il primogenito di Priaso bloccò le due lame, spingendo indietro il nemico.

“Non mi sento degno del titolo di Re che fu di mio padre, non sono ancora così pronto e saggio per ottenere quel dovere”, osservò Aristos, sollevandosi dinanzi al nemico con decisione, “ma sono abbastanza pronto da affrontarti ed ucciderti”, lo ammonì, sollevando la spada dorata contro di lui.

“Bene”, replicò il generale traditore lanciandosi contro il suo nemico.

Lo scontro fu violento, la lama dorata cozzò contro la prima delle due spade, costringendola ad indietreggiare, ma Aklo, appoggiando un piede al suolo, fece leva sulla gamba per colpire con un movimento a spazzare, cercando di investire il primogenito di Lutibia con l’altra sua spada, che però fu facilmente evitata con un balzo indietro.

Il salto, però, non impedì ad Aristos un nuovo assalto, infatti, facendo leva sui piedi appena appoggiati al suolo, il membro della famiglia reale si lanciò contro il suo avversario, che evitò con facilità la punta della lama avversa, cercando di calare le proprie spade contro il tronco del nemico, il quale, con incredibile prontezza di riflessi, appoggiò la mano libera al suolo, spingendo con i piedi il Generale traditore lontano da se, per poi fermarsi con una veloce capriola, voltando di nuovo la lama contro di lui.

“Sei veloce e preciso, complimenti, principino”, ridacchiò Aklo, guardando il nemico fermo dinanzi a se, “Ti ringrazio, anche le tue abilità sono considerevoli”, replicò Aristos, “Lo so, proprio per questo spero tu capisca che qui stiamo semplicemente giocando”, osservò il generale traditore. “Cosa intendi dire?”, sbottò dopo alcuni secondi il figlio primogenito di Priaso, “Che questa non è una lotta, ma il gioco di un leone con la sua preda ed indovina chi di noi è il leone e chi la preda”, osservò divertito Aklo, “ben presto ti mostrerò cosa so veramente fare ed in quel momento per te non ci sarà niente da fare, se non perdere la vita”, concluse con tono deciso il Generale traditore.

“Vedremo”, affermò con decisione Aristos, lanciandosi in un nuovo assalto.

Le due spade del nemico si scagliarono contro il membro della famiglia reale, il quale deviò la prima con un veloce movimento della corazza lucente, per poi spazzare via la seconda con il taglio della propria lama dorata, così da avvicinarsi pericolosamente al corpo del Generale, che però lo distanziò con un calcio, costringendolo ad appoggiarsi su ambo i piedi per roteare, con un piccolo salto, cercando di mozzargli la testa. Anche stavolta, però, le due spade si misero in mezzo, spingendo indietro il Primogenito di Lutibia, che si appoggiò al suolo con la mano libera, spingendosi di lato e rotolando al suolo per alcuni secondi.

“Forza, mostrami qualche altro trucco prima che ti uccida”, lo incoraggiò Aklo, “così raggiungerai tuo padre ed i tuoi due fratelli”, lo ammonì poi. “Ne io, né Cassandra, raggiungeremo nostro padre e Palion”, avvisò in tutta risposta Aristos, “Davvero? Mio figlio quando si mette d’impegno riesce a fare delle stragi davvero belle, da questo punto di vista ha delle doti innate migliori anche delle mie, penso”, spiegò il Generale Traditore.

“Immagino sarai orgoglioso di quel pazzo piromane”, osservò infuriato Aristos, “Non si tratta di orgoglio, per quanto devo ammettere che mi ha sempre dato delle grandi soddisfazioni. Si tratta di restare nella storia”, spiegò in tutta risposta Aklo, “Che cosa?”, domandò perplesso il primogenito di Lutibia.

“Pensaci bene, principe, che cosa resterebbe di noi dopo la morte? Io sono già morto una volta e ti posso dire che di te, come creature cosciente resterà qualcosa, ma fuori da questo mondo, nessuno parlerà più di te se non sei famoso per qualche motivo. Ebbene, io, Aklo, comandante dei Mirnat, ero noto come l’invincibile ed ero famoso in tutto il mondo ed il mio mito, insieme a quelli di Odisseus e di pochi altri guerrieri è rimasto sulla bocca di tutti. Ora sarò ancora più famoso, una gloria ancora maggiore mi circonderà quando diventerò Aklo, il guerriero rinato dalla morte che distrusse il regno di Lutibia”, esclamò con tono gioioso.

“Per questo sei tornato dal regno dei Morti? Per la gloria? E che gloria c’è nell’essere Aklo, il guerriero ritornato dalla morte per diventare la pedina di nove demoni oscuri?”, tuonò infuriato Aristos.

“Le tue parole mi fanno capire la tua voglia di morire, vedrò di accontentarti, principino”, ringhiò offeso il Generale traditore sollevando le spade e puntandole orizzontalmente con l’avversario.

 

Con un deciso movimento della mano libera, Aristos evitò la spada sinistra, quindi, roteando sul piede, deviò la destra, per poi sfondare con decisione lo spazio difensivo del suo avversario, arrivando così all’altezza del suo tronco, che investì con un potente fendente della spada dorata.

Grande fu però la sorpresa sul volto del Primogenito di Lutibia quando vide che il corpo del suo nemico non sanguinava affatto.

“Sorpresa”, esordì divertito Aklo, conficcando una spada nella spalla destra del nemico, “Devi sapere che ero detto invincibile proprio per la mia potente corazza, un’armatura tanto forte da distruggere qualsiasi lama la incontrasse, dovettero infatti colpirmi al tallone, che i calzari lasciavano scoperto, per farmi cadere al suolo e poi, togliendomi l’armatura, uccidermi. Ora non ho più quella corazza con me, ma non perché non mi serva, anzi i poteri del grande Ceclon hanno fatto in modo che la corazza diventasse il mio corpo, per questo adesso non indosso alcuna armatura, ma tu non riesci comunque ad uccidermi”, ridacchiò contento il Generale, gettando al suolo il corpo ferito e dolorante di Aristos, “mentre io dovrò solo colpire dove quel metallo lucente non si trova”, concluse poi, alzando la spada non insanguinata contro l’avversario.

 

Le forze degli eserciti riuniti di Aven e Lutibia avanzavano decise, guidate da Ebhe, che stava ormai affrontando con facilità, dopo i primi avversari, i propri nemici, uccidendoli uno dopo l’altro, con forza e precisione.

“Dobbiamo muoverci soldati, forza”, tuonò la semidea, guardandosi intorno. Percepiva delle oscure forze agitarsi nel castello dinanzi a loro, forze terribili ed innaturali, forze a cui sapeva che gli Arvenauti si stavano opponendo, poi con una veloce occhiata notò anche il duello fra i tre guerrieri volanti che aveva lasciato sperando di vedere i suoi alleati vincitori, ma che ancora non aveva avuto fine.

Dubbi e preoccupazioni riempirono la mente di Linnea, la semidea nascosta in un corpo mortale, “Da soli questi uomini non potranno mai farcela, nemmeno se gli Arvenauti sono con loro. Quei sei guerrieri hanno coraggio, è vero, e grandi poteri, ma questi essere sono troppo per loro e per me, abbiamo bisogno di qualche divinità che ci aiuti”, pensò fra se la Generalessa, continuando ad avanzare verso il castello.

 

Aristos evitò il colpo di spada spostandosi lateralmente sul terreno. “Bravo, principino, striscia come un verme, non ci sono altri modi per salvarsi dai miei colpi per te, ma ben presto ti fermerai, magari davanti al corpo di tuo padre, così morirete l’uno vicino all’altro. Io sono stato seppellito vicino a Pirros e devo dire che questo mi ha dato orgoglio, quando ci siamo risvegliati”, osservò soddisfatto Aklo.

“Se hai tutto questo affetto paterno, come puoi combattere per quei demoni?”, tuonò infuriato Aristos, “Come ti ho già detto, si tratta di gloria. Io e Pirros combattiamo per l’immortalità, lui dei corpi, mentre io mi accontento di essere immortale nella mente di tutti gli uomini della terra, che anche fra millenni, quando di me non resterà nemmeno il metallo, allora sarà il mio mito a sopravvivere in un mondo di oscurità e distruzione, quel mondo che creeranno le Nove Idre e chi li comanda”, spiegò il Generale traditore.

“Per questo hai rinunciato a tutto? Alla vita mortale, alla tua identità di uomo ed all’onore che ti aveva dato combattere contro i Tulakei? Per la gloria immortale hai rinunciato alla memoria di eroe, diventando un braccio del male?”, replicò disgustato Aristos.

“Bene e male sono concetti iniqui, dettati solo da chi vince le guerre, dovresti capirlo questo. Da quanto tempo combatti? Da due giorni? Non penso proprio”, ridacchiò divertito il nemico malefico, “Bene e male sono due concetti distinti e chiari alla coscienza di ogni uomo. Anche i bambini ne colgono la differenza! Sei tu che non capisci questi concetti, o forse li hai rimossi per vanità e troppo desiderio di fama, ma in ogni modo, sei tu che non conosci il vero esito delle guerre se pensi che si cambi così facilmente il concetto di giustizia ed ingiustizia!”, sentenziò deciso il Primogenito di Lutibia, rialzandosi in piedi.

Con un gesto deciso e disperato Aristos tentò un affondo che andò a cozzare contro la pelle d’acciaio del nemico, il quale, con un veloce movimento della mano destra, ferì il tronco del membro del casato reale, rigettandolo al suolo, sanguinante.

“Eppure dovresti saperlo. Quando la battaglia è persa, alla morte si può preferire solo la ritirata. Ti ho visto fare grandi strategie e non ricordi nemmeno questa base degli scontri?”, domandò divertito Aklo, osservando il corpo del nemico, che sembrava incosciente.

 

Un ricordo era intanto tornato alla mente di Aristos. Il Primogenito si trovava ancora nel giardino reale, in quello stesso punto, ma era giorno ed intorno a lui non vi erano dei nemici, bensì i suoi due fratellini, Axides e Palion, era un ricordo di diversi anni prima.

“Allora, fratelli, ripetiamo un po’ le basi della lotta”, aveva esordito Aristos, che si stava occupando di preparare alle battaglie i fratelli minori. “Cosa dovete fare quando la forza nemica è troppo superiore alla vostra?”, domandò il Primogenito, “Fuggire!”, rispose prontamente il secondogenito, “No, combattere fino allo stremo”, lo corresse con tono deciso il più piccolo dei tre.

“Avete entrambi torto ed entrambi ragione”, replicò con tono deciso il Primogenito, guardando i volti contrariati dei suoi fratelli, “se il nemico è uno e la sua forza risulta più grande della vostra, o se siete alla guida del vostro esercito e vi trovate in minoranza per armi e forze, allora dovete ritirarvi insieme a chi vi è vicino, ma non lo dovrete mai fare per voi stessi, bensì per il vostro popolo. Ricordatelo sempre, voi siete principi di Lutibia, proprio come me, figli della sua terra, ma insieme padri, poiché tutto il popolo a noi ed a nostro padre fa riferimento. Ogni nostra azione deve essere compiuta per il bene della nostra gente e solo per quella, anche se sarà qualcosa di doloroso, che ci porterà a rischiare la vita. Proprio per questo dicevo che avevate entrambi ragione e torto, perché non potete valutare, rispetto al vostro guadagno, o alle vostre perdite, ciò che succede sul campo di battaglia, ma rispetto ai danni ed ai vantaggi che ne riceverà il nostro popolo. Se la ritirata salverà la gente di Lutibia, allora fatelo, ma se scappando rischierete che qualcuno s’impossessi anche solo di un granello di sabbia della città, allora dovrete combattere, perché non prenda anche tutto il resto. La vita del popolo è nelle nostre mani”, spiegò con voce decisa il Primogenito.

“Quindi dovremmo rischiare la vita per tutti gli altri? Dovremmo farci carico di un tale peso?”, domandò sbalordito Axides, “Certo questo è il dovere dei principi di Lutibia”, esclamò gioioso Palion.

“Hai ragione, figlio mio, questo è il vostro dovere, come lo fu per me ed i vostri zii”, spiegò allora la voce di Priaso, prima che il Re apparisse dinanzi ai suoi figli. “Questa lezione la diedi io stesso a vostro fratello. Gli spiegai quali erano i Doveri del Primogenito di Lutibia, fra cui dominava sovrano un solo dovere, vero?”, domandò con un sorriso gentile il sovrano, “Amare tutto di questa terra, dal primo granello di sabbia, all’ultimo degli uomini che ci vivono”, rispose Aristos, “proprio come fai tu, padre”, concluse, chinando il capo.

“Noi siamo principi di Lutibia, dobbiamo combattere per questa terra con tutto il cuore ed il corpo”, esclamò deciso Aristos, voltandosi verso i fratelli e vedendo la gioia negli occhi di Palion, “E tu, mio Primogenito, sarai Re di questa terra, quindi un peso ancora più grande sarà dato alle tue spalle, che so potenti e decise e su cui so di lasciare un regno che vivrà felice grazie a te”, concluse Priaso, dando una pacca sulla spalla del figlio.

 

“Addio, principino”, sentenziò Aklo, calando la spada sul nemico, che però si spostò appena in tempo, rialzandosi in piedi con movimenti decisi.

“Non è ancora il tempo di cantare vittoria, non morto, ben presto ritornerai nel luogo da cui sei fuggito bramoso di gloria e sarà questa spada consacrata al dio Porian a ricondurti lì”, esclamò deciso Aristos, sollevando la lama contro il nemico.

 

“Anhur, comandante”, esclamò una voce al capitano dei cinque Custodi di Cassandra, che subito si risvegliò, trovandosi stanco e ferito sul suolo dell’anticamera delle stanze della sua principessa.

Quando riprese conoscenza il giovane guerriero trovò intorno a se Myooh, appoggiato ad una parete, con il volto coperto da una fasciatura improvvisata, e vicino al potente combattente vi erano Anfitride e Cassandra.

“Mia principessa, compagni custodi, cosa succede?”, domandò perplesso Anhur, “Hai vinto colui che animava le fiamme, l’essere mandato ad uccidermi, per questo ti ringrazio, mio prode eroe”, sussurrò con un gentile sorriso Cassandra, avvicinando una mano al volto stanco del suo primo custode, “ma la battaglia all’esterno non è ancora finita. Sento due ombre maestose che qui combattono e quattro esseri del male che li aiutano oltre ad eserciti di anime disperse, dobbiamo fermarli, i Naviganti da soli non potranno esserci d’aiuto, dobbiamo indicare loro la via affinché sia aperto il passaggio del Sole”, spiegò con voce preoccupata la Principessa.

“Che cosa?”, balbettò Anfitride, confusa dalle parole della figlia di Priaso, “Dovete togliere i sigilli che impediscono alla luce del nostro Celeste Osservatore di guardarci, dovete togliere ciò che il tessitore fece erigere dopo aver fatto il suo trattato con l’Ombra oscura”, spiegò disperatamente Cassandra.

La mano di Anhur toccò quella della Principessa, ridandole il sorriso, “So cosa vuoi dire, mia sovrana, sarò io stesso ad occuparmene”, esordì il guerriero, “Bene, ma verrò con te, poiché Egli deve essere richiamato da qualcuno”, sentenziò Cassandra sbalordendo i tre Custodi. “Ma voi non potete rischiare la vita”, balbettò appena Myooh, intromettendosi nella discussione, “Devo, è mio dovere compiere la mia parte in quest’impresa”, sentenziò la Principessa, avanzando verso la scalinata.

“Anfitride, resta qui e cura Myooh, io andrò con lei, so benissimo ciò che vuole fare ed in una situazione così assurda è forse l’unica soluzione”, spiegò con voce decisa Anhur, seguendo poi la sua Principessa.

 

Aristos osservava con volto deciso il suo nemico, che rideva di lui: “Come speri di battermi con quella spada?”, ridacchiava divertito Aklo.

“Tu forse non lo sai, essendo stato morto per così tanto tempo, ma la Lutibia è anche un luogo di abili guerrieri. Adoriamo un dio che ama l’arte e la musica, questo è vero, noi stessi siamo grandi amanti di questi diletti, ma l’uso della spada non ci è del tutto ignoto. Io so molto sui metalli, sul Tomatos, di cui è fatta la spada di quell’Arvenauta, sull’acciaio, su alcuni minerali dell’Asjar e sul altri oggetti sacri, come i Tre Tesori degli dei e tanto ancora. So ad esempio che anche l’acciaio più duro può essere spezzato ed il tuo è semplice acciaio vero, non è Tomatos?”, domandò soddisfatto Aristos.

“Anche se fosse, tu come speri di distruggerlo con quella spada d’oro?”, incalzò divertito Aklo, “Con la fede nel mio sovrano celeste, con la fede in me stesso e con lo spirito di tutti coloro che prima di me la impugnavano, tutti coloro che amavano questa terra seguendo i doveri di Primogeniti e seguendo la bontà del loro cuore!”, tuonò con decisione il membro della casata reale, lanciandosi all’assalto.

“Vuoi davvero fare questa prova di forza? Bene, allora vedremo a chi sorriderà il destino”, replicò con altrettanta fermezza il Generale Traditore.

Un bagliore sembrò in quel momento accecare Aklo, deviandone la lama, che non colpì il cuore del suo nemico, bensì gli perforò la spalla sinistra, ma in quel momento Aristos ebbe forza di resistere al dolore e con decisione mosse la propria spada, aprendo un profondo taglio sul ventre metallico, per poi spostarsi di lato al Generale avverso e perforargli il petto con la punta dell’arma.

“Come hai potuto?”, domandò sorpreso Aklo, guardando il sangue che colava mortale dalla ferita, “Con la fede della mia gente in me, con lo spirito che mi circonda e che mi dà la forza di seguire i doveri che furono degli altri primogeniti di Lutibia prima di me”, concluse Aristos estraendo la spada dalla ferita e lasciando che il corpo di Aklo cadesse al suolo, privo di vita.

 

Anche il Primogenito di Priaso sarebbe voluto cadere al suolo, ma sentì un rumore e poi vide aprirsi la porta che lui aveva difeso dagli Arvenauti. Due figure uscirono fuori veloci da quella porta e subito Aristos le riconobbe, “Cassandra, Anhur, che succede?”, domandò, mentre anche tutti gli altri combattenti nel campo di battagli si accorgevano dei due.