Appunti di Psicologia

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Etica come finzione?

Le cure palliative tra bioetica e psicologia

Dr.ssa S. Macchiarini - Dr. G. Tubere

I° Convegno "Bioetica in Psichiatria" - Imperia 11-13 novembre 1994


In questi ultimi cinque anni, in Italia come in Europa, si e' diffuso un nuovo concetto di medicina, la Medicina Palliativa, per affiancare, integrare e continuare la classica Medicina Curativa. L'obiettivo della medicina palliativa e' quello di dedicarsi alle ultime fasi delle malattie croniche, quando cioe' si raggiunge il momento in cui qualunque terapia causale risulta inefficace; e questo vale per malattie come il cancro, l'AIDS, l'Alzheimer, la sclerosi multipla, la demenza ecc... In altre parole, la medicina palliativa si inserisce in quello spazio temporale che va dalla dichiarazione del sanitario curante: "Non c'e' piu' niente da fare", fino alla morte.

Storicamente la medicina palliativa e' nata per i pazienti terminali di cancro con lo scopo di sconfiggere o controllare il dolore. Successivamente ci si e' accorti che, assieme al dolore, tante altre ancora erano le problematiche che intervenivano: altri sintomi come anoressia, stipsi, ilei, infezioni, emorragie, piaghe da decubito, vomito e, sopratutto, paura, ansia, angoscia e depressione; ed allora il discorso sulle finalita' della medicina palliativa si e' orientato nella direzione del miglioramento della qualita' di vita negli ultimi mesi di queste malattie croniche (tenendo sempre presente che il sintomo dolore risulta attivo nel 70% dei casi).

Dal 1990 dirigo un Centro di Cure Palliative per conto della Lega Tumori della provincia di Imperia; si tratta di un centro per le cure a domicilio in totale collaborazione con le famiglie dei pazienti e con l'obiettivo dichiarato di permettere a costoro di trascorrere gli ultimi giorni della loro esistenza nella propria casa, circondati dai propri cari e dalle cose della loro vita quotidiana. Il personale del centro e' composto da dieci medici e diciotto infermieri professionali, tutti volontari; a tutt'oggi sono stati seguiti ed accompagnati circa trecento pazienti e le loro famiglie.

Da due anni il lavoro del Centro prevede anche riunioni di supervisione ai casi clinici con cadenza trisettimanale e con uno spazio dedicato non solo all'aspetto tecnico ma anche a quello emotivo per esperire ed elaborare, in un assetto di gruppo autocentrato, le emozioni e le reazioni che il lavoro produce. Le supervisioni sono condotte dal responsabile del Centro e da un'analista. Nel corso della formazione permanente che garantiamo e richiediamo agli operatori, alcuni tra noi hanno partecipato a workshop su argomenti di bioetica e comunicazione nelle Cure Palliative. Le riflessioni su tali argomenti hanno portato nei momenti di incontro l'esigenza di evidenziare eventuali problemi etici nel nostro lavoro coi malati terminali di cancro.

E' stata fatta cosi' una revisione dei casi clinici portati in supervisione per valutare se fossero emerse problematiche di carattere etico eventualmente non riconosciute. Il tutto alla luce della domanda classica della bioetica clinica: "Cosa e' buono fare per il paziente in questo caso?" e in relazione ai principi etici. Vorrei ricordare ora quali sono i principi che regolano la bioetica clinica:

1) principio di autonomia inteso come rispetto dei valori personali che si coagulano intorno alla possibilita' di decidere liberamente, come rispetto del diritto di sapere e di dare il proprio consenso informato, come possibilita' di scegliere il modo in cui vivere i propri ultimi istanti optando per la forma piu' coerente alla vita passata;

2) principio di beneficenza o non maleficenza cioe' agire in modo da evitare, togliere o prevenire qualsiasi danno e in modo da produrre il massimo bene al malato con cui si stringe una relazione promuovendo la migliore qualita' di vita;

3) principio di giustizia cioe' tutti vanno trattati in modo eguale, a dispetto delle loro differenze, salvo che si dimostri che tali diffferenze siano moralmente rilevanti per il trattamento in questione; ed infine

4) principio di integrita' professionale che sottolinea la dignita' e l'indipendenza della professione medica.

In questo lavoro di revisione ci siamo accorti che il riferimento ai valori e ai principi morali non ci era sufficente per rispondere alle domande e ai dubbi della pratica clinica quotidiana. In particolar modo, secondo noi, il riferimento ad una problematica di carattere etico nascondeva sovente una profonda difficolta' di comprensione delle tematiche psicologiche del paziente e della sua famiglia ed anche la fatica degli operatori stessi nell'affrontare ed elaborare i vissuti complessi ed angoscianti connessi alla cura del malato terminale.

A scopo esemplificativo vengono riportati tre casi che ci sono sembrati particolarmente significativi a questo proposito.

A) Paziente di 69 anni affetto da carcinoma polmonare metastatizzato con buon Performance Status ma con aspettativa di vita valutata dai sanitari intorno a due mesi. I familiari si rivolgono a noi soprattutto per i problemi anoressici sopravvenuti. Le tematiche relative all'alimentazione sono molto frequenti nel nostro campo e chiaramente sono collegate al binomio cibo - salute e agli aspetti psicologici connesssi. Nella fattispecie viene fatta una richiesta di alimentazione parenterale e il caso viene portato in supervisione per una valutazione.

Nel corso della discussione il problema appare di primo acchito eminentemente di carattere clinico. I testi di medicina palliativa segnalano che, in questo stadio della malattia l'alimentazione forzata non crea benessere al corpo ma paradossalmente soccorre solamente le cellule cancerose aumentandone lo sviluppo (per via del loro metabolismo enormemente accelerato). Rispondere alla richiesta dei familiari con un intervento simile pone quindi in campo il principio etico di beneficenza o non maleficenza: seguendo i dettami dell'etica dovremmo astenerci da questa specifica risposta ma se seguiamo piu' generalmente l'idea di cosa e' buono fare per il paziente dando attenzione anche ad alcuni aspetti psicologici, si modifica in parte la prospettiva. Anche il paziente si affianca a tale richiesta mosso dall'idea che un maggior apporto calorico lo avrebbe "sostenuto" e "gli avrebbe dato piu' forza".

Il rifugiarsi in una motivazione scientifica (o etica?) non da' una risposta alle esigenze emotive del paziente anzi induce un grave stato di frustrazione negando l'esistenza reale di alcuni aspetti ancora validi presenti, come partecipare, seppur in misura ridotta, alle attivita' lavorative della famiglia. Pertanto, nel corso della discussione, e' emersa l'opinione di accettare le richieste del paziente e dei suoi familiari con la consapevolezza che cosi' facendo l'atto medico veniva giocato su altri livelli, rispondendo prevalentemente a bisogni di carattere psicologico ed emotivo. Forse eticamente non si e' scelto di seguire il principio di beneficenza ma quello della ricerca della migliore qualita' di vita del paziente, anche relativamente all'immagine di se', del proprio corpo e soprattutto del proprio essere in relazione agli altri.

Il paziente ha continuato a frequentare il suo ufficio personale, per qualche ora al giorno, fino a pochi giorni prima della morte.

B) Nel caso di una paziente donna di 63 anni affetta da carcinoma gastrico, la richiesta di assistenza da parte del nostro Centro viene fatta dal marito, medico odontoiatra. Questi, nel corso del primo colloquio con l'equipe curante, in cui avviene la presa in carico del caso, formula la precisa richiesta di cancellare dall'intestazione del ricettario del medico la dizione "specialista in cure palliative". Motivazione della richiesta e' che tale termine potrebbe evocare nella moglie la sensazione di terapie non realmente efficaci.

Ovviamente la paziente non e' informata adeguatamente ne' della diagnosi ne' della sua prognosi.

La richiesta formulata pone ad una prima e superficiale osservazione il problema etico del principio di integrita' professionale ma, ad una analisi piu' approfondita, rimanda alla questione etica del rispetto dell'autonomia del paziente: l'operatore si presenterebbe con qualifica "attenuata" (specialista in terapia del dolore) e la paziente non sarebbe realmente consapevole del tipo di intervento a cui viene sottoposta, non volto piu' alla guarigione ma al controllo della sintomatologia.

Il medico si trova di fronte a due possibilita', da una parte accettare la richiesta del marito ed avallare la "congiura" della famiglia, dall'altra rifiutare e rivendicare la propria qualifica, consapevole che cio' implica anche il farsi carico di una esplicitazione alla paziente del suo stato clinico. La scelta di questa seconda opzione determina anche l'entrata nelle dinamiche di coppia e il sostegno al partner.

Il medico sceglie l'alleanza coi familiari trovando numerose e valide ragioni per sostenere questa scelta. Ritiene di non venir meno alla propria professionalita' eliminando una riga dell'intestazione del proprio ricettario e di non contravvenire ai principi deontologici poiche' la qualita' del suo intervento non ne risulterebbe comunque modificata; tale scelta e' volta anche alla creazione di un buon clima di alleanza e collaborazione con la famiglia, positivo per poter svolgere un intervento efficace con la paziente senza rischiare conflittualita'.

Nell'ambito della revisione/supervisione emerge chiaramente la fatica ed il disagio dell'operatore nel dover essere la prima persona ad affrontare con la paziente un tema cosi' angosciante come la comunicazione di una diagnosi di cancro. Il tutto senza un valido supporto familiare, anzi col rischio di mettere in crisi i sistemi difensivi e di negazione della famiglia stessa con la paura di non avere poi la capacita' di elaborarli e di sostenerli.

Le motivazioni addotte dal medico per giustificarsi la propria scelta sono in realta' delle finzioni, solo apparentemente indirizzate ad affrontare i dubbi etici. In realta' l'attenzione rivolta inizialmente alle tematiche morali serve ad allontanare maggiormente gli aspetti emotivi personali dell'operatore.

Al di la' di queste riflessioni avvenute successivamente, la scelta "non etica" operata del medico non ha inficiato il suo intervento; il lavoro di assistenza e' stato condotto con un buon livello e si sono avute interazioni positive con la paziente e la sua famiglia.

C) Nel caso di una paziente donna di 55 anni con carcinoma mammario e metastasi ossee, l'elemento problematico e' il rifiuto di assumere una terapia morfinica (non a dosi massicce) in presenza di dolore di una certa entita'. La paziente motiva il suo rifiuto all'infermiere con la frase: "se prendo la morfina, allora sono proprio alla fine".

Il medico, anche in conseguenza delle riflessioni di argomento bioetico svolte negli incontri di supervisione, aveva correttamente informato fin dall'inizio la malata della sua diagnosi, prognosi e modalita' di terapia con eventuali effetti collaterali. Ha quindi fatto di tutto per rispettare i valori etici di una relazione medico - paziente, soprattutto il principio di autonomia, ma si trova ad affrontare il problema di una scarsa compliance farmacologica e di una cattiva collaborazione della paziente. Se ne ha dimostrazione anche dal fatto che sia la malata che i suoi parenti contattano piu' frequentemente l'infermiera, anche per questioni che sono di competenza medica.

In corso di supervisione si evidenzia che il comportamento del medico e' stato perfetto dal punto di vista etico ma carente da quello psicologico, cioe' scarsamente empatico e attento ai reali bisogni e capacita' di tolleranza della paziente e della sua famiglia. Costoro in effetti si sono rivolti all'infermiera, figura piu' calda empaticamente e piu' disponibile sul piano della relazione e dell'ascolto.

L'attenzione ai problemi etici non deve fornire una giustificazione per sfuggire agli aspetti piu' complessi e faticosi che la relazione con l'Altro impone, bensi' puo' essere utile come spunto di riflessione per passare dal fare al pensare, soprattutto negli ambiti sanitari piu' prettamente organicistici.

Il riportare l'attenzione dell'equipe sulle dinamiche emotive consente di introdurre delle correzioni nell'ambito relazionale. Il rapporto medico - paziente se ne avvantaggia molto e successsivamente la paziente accetta la terapia proposta (anche quella morfinica) con buona risposta.

Questi ultimi due casi rimandano ad uno dei problemi principali della medicina palliativa e non solo, ovvero la comunicazione della diagnosi al paziente, correlato al principio etico di autonomia. Nella nostra esperienza questo e' il problema con cui ci misuriamo continuamente nella pratica clinica quotidiana.

Far riferimento esclusivamente a dei principi etici come direttivi nella propria condotta, puo' essere molto limitante e fittizio. In questa situazione l'informazione puo' diventare un modo per delegare al paziente l'intero carico di decisioni di tipo medico (come nell'ultimo caso descritto) limitando cosi' la responsabilita' del sanitario.

La verita' porta come conseguenza l'allargamento piuttosto che la diminuzione delle responsabilita' professionali, aprendo un impegnativo discorso ricco di implicazioni emotive sui due fronti.

Poiche' riteniamo che le persone ammalate percepiscono in qualche modo la verita', il miglior modo per rispettare i principi etici e la dignita' del paziente e' avere un atteggiamento di disponibilita' e di ascolto che consente al malato di sapere che non ci sono impedimenti alla comunicazione e all'apprendimento della verita'.

Ovviamente l'attenzione e la comprensione delle dinamiche psichiche proprie e dell'Altro situa il lavoro del medico su di un piano piu' strettamente psicologico ma, alla luce della nostra esperienza, ormai irrinunciabile.

Dr.ssa Sandra Macchiarini (Psichiatra e Psicoterapeuta Adleriana)

 Dr. Giorgio Tubere (Psicoterapeuta Adleriano)