Campanotto Editore

Còlor còlor Caterina Davinio  Còlor còlor 

Romanzo (Finalista al Premio Letterario Feronia 1999) Presentazione di Francesco Muzzioli: "I colori dello sperimentalismo narrativo" Per leggere un'altra recensione di Còlor còlor vai al sito di informazioni editoriali vai al sito di informazioni editoriali ALICE.IT Per leggere altre recensioni di Muzzioli: KARENINA.IT Experimental Net-zine Per leggere l'intervista a Francesco Muzzioli di Mediamente clicca qui: RAI - MEDIAMENTE

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L'amore di una dodicenne difficile per un  uomo di quarant'anni, in un piccolo paese di montagna, s'intreccia al destino di altri personaggi al di là del bene e del male, emarginati per vocazione alla deriva nella notte metropolitana: variopinte prostitute, spacciatori buoni, extracomunitari e comparse del bel mondo, una carrellata di irriducibili che si narrano, tra desiderio e senso della fine, in cinque capitoli-racconto dedicati al bianco, al rosso, al blu, al giallo e al bianco e nero. Una favola impietosa ed eccentrica sulla diversità, percorsa da una disposizione metalinguistica.

Caterina Davinio cura rassegne di scrittura e nuovi media e ha collaborato negli anni Novanta ai maggiori festival italiani di videoarte e di avanguardie letterarie. Ha realizzato partiture digitali di poesia, immagini e animazioni di computer art, esposte in numerose mostre internazionali. Promuove in Internet un progetto di net-art performativa.

Impresso nel maggio 98 da Grafiche Piratello - Pasian di Prato (Udine)

Campanotto Editore: tel.  0432 699390 - 0432 690155 Fax: 0432 644728

 

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CATERINA DAVINIO, Còlor còlor (Finalista al premio Feronia 99)

DI FRANCESCO MUZZIOLI

Il testo narrativo di Caterina Davinio Còlor còlor (Campanotto editore) possiede un carattere sperimentale che non emerge immediatamente alla lettura. L'impressione iniziale di trovarsi nell'ambiente di un racconto familiare, rievocativo e realistico, comincia ad essere posta in dubbio - e con non poca sorpresa - quando ci si accorge che la sede del narratore cambia di volta in volta da un brano all'altro, come nel colore metamorfico di un caleidoscopio. E non sono soltanto persone diverse, ma anche persona e non persona (la 1a, la 3a). Questo carattere di pluralità della prospettiva, di lente "multifocale", mette in crisi tutto l'impianto "realista" o "localista" che si era riscontrato all'inizio e che sembrava essere garantito al lettore, per contratto narrativo. Invece, il testo ci immerge, come dovuto da ogni modernità che si rispetti, nella problematicità del reale. I personaggi, con la tentazione di immedesimazione che essi comportano, perdono sicura consistenza anagrafica. Per giunta, in lunghi tratti, spariscono anche dall'intreccio; che poi alla fine si ritrovino è una ulteriore sorpresa: persa la speranza di leggere un romanzo, credevamo di leggere dei racconti staccati, invece leggevamo proprio un romanzo. Ma, a questo punto, bisogna ammetterlo, un ben strano romanzo...

C'è inoltre da riflettere, in merito a questa ri-congiunzione finale (che, per altro, è parziale e avviene rigorosamente fuori scena). Intendo riferirmi al termine "rappezzo" che è demandato a costituirne la chiave linguistica. Intanto "rappezzo" non può sostenere il peso di una totale conciliazione dialettica: indica piuttosto una unione "povera" che non nasconde la sua insicura giunzione. Inoltre "rappezzo" fa parte di quel "gioco delle parole" che sta nel cuore del racconto e che non basta - io credo - interpretare come un tema da attribuire alla psicologia dei personaggi (come effetto del disadattamento sociale o della caduta di ogni certezza). A me pare che quel "gioco" sia da addebitare al testo nel suo costituirsi, ne venga a rappresentare una figura-chiave e una sorta di motore interno. Non sto solo pensando che il libro sia stato scritto materialmente così, facendosi guidare da un dizionario aperto a caso, e che quindi la linearità della scrittura debba la sua esistenza stessa all'idea delle parole atomizzate nello spazio; ma anche che il fatto che la vicenda sia affidata alla riduzione del principio di selezione linguistica ad un gioco aleatorio diventa un'interessante allegoria del valore sociale dell'invenzione letteraria. Naturalmente qui si apre una ambivalenza logica inestricabile, perché la forza (non ci sarebbe racconto, se non poggiasse sul "caso") è al contempo una debolezza (perché l'idea costellativa del linguaggio non si esprime con mezzi propri - di poesia, magari visiva? Siamo forse sempre costretti in ultima istanza a raccontare storie? Non vince la linearità, allora?).

Mi sembra che un analogo paradosso ci attenda se volgiamo lo sguardo alla "forma del contenuto". Infatti, il contenuto, nella sua stessa consistenza sembrerebbe dalla parte della linearità, anche se poi la "forma dell'espressione" lo costringe agli scarti del molteplice e ai sobbalzi della sorpresa che avrà modo di notare ogni lettore. Però: mi ha colpito il modo in cui non esistono gli strati sociali. Come si passa facilmente della ricchezza alla povertà, dal ruolo dirigenziale all'emarginazione e come - data anche l'importanza della figura del "cronista" - proprio questa figura sia segnata dal marchio dell'indifferenza con l'altro. A dispetto della retorica dell'alterità oggi imperante e di tanto pessimo neo-neorealismo (buonista o no che sia) lo sprofondamento nella degradazione appare privo di senso, vuoi rappresentativo, vuoi morale. Le differenze sociali prendono piuttosto la via del grottesco. Sicché, nella "forma del contenuto" troverei, in definitiva, un accordo proprio con il "caso" e la discontinuità di quel gioco col dizionario, che poi anch'esso ha un'ascendenza insieme sacra a profana, nobile e goliardica, da vaticinio però anche da procedimento dadaista.

Di quanto questi paradossi siano vicini o meno a certi paradossi postmoderni si potrebbe discutere all'infinito. A me però, più che il dilemma senza uscita, interessa la sottigliezza dell'operazione: il fatto, cioè, che il paradosso - invece di essere sbandierato, come sarebbe facile fare - viene incontro inaspettatamente: è imprevedibile. Ci sia, insomma, una deviazione - sottile, ma decisiva - dai prodotti del nostro postmodernismo conformista, standardizzato e in fondo modesto. E mi pare anche che il libro dia una risposta positiva al legittimo dubbio sulle possibilità di un uso sperimentale delle strutture narrative. Oggi che la ricerca sperimentale pare tutta concentrata nel campo "fuori mercato" della poesia, occorre far ripartire la riflessione anche sul modo di raccontare.

Per leggere l'intervista a Francesco Muzzioli di Mediamente clicca qui: RAI - MEDIAMENTE

Francesco Muzzioli lavora dal 1971 presso il Dipartimento di Italianistica dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha svolto attività didattica nell'ambito della Letteratura italiana moderna e contemporanea e della Teoria della letteratura. Ha partecipato all'organizzazione di numerose manifestazioni, letture, dibattiti e convegni sui temi della letteratura in corso e della critica "militante". È intervenuto con seminari presso l'Università di Århus (Danimarca) e a convegni promossi dall'UCLA (USA, California).

È autore di numerosi volumi di critica: monografie su Pasolini (Come leggere Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, Mursia, 1975), Éluard (Paul Éluard, La Nuova Italia, 1977), Malerba (Malerba, Roma, Bagatto libri, 1988); ricostruzioni della fortuna critica su Saba (La critica e Saba, Bologna, Cappelli, 1976) e Michelstaedter (Michelstaedter, Lecce, Milella, 1987); e soprattutto studi a largo raggio, come Teoria e critica della letteratura nelle avanguardie italiane degli anni Sessanta (Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1982) e La letteratura italiana del primo Novecento La letteratura italiana del primo Novecento (Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1986), scritto - quest'ultimo - in collaborazione con Marcello Carlino.

Ha curato l'edizione del Carteggio futurista tra Folgore e Marinetti (Roma, Officina, 1987) e l'antologia Gruppo '93 (Lecce, Manni, 1990, in collaborazione con Filippo Bettini). Nella collana "I nodi" - che dirige per l'editore Lithos insieme ad Aldo Mastropasqua - ha pubblicato il volume Pascoli e il simbolo (Roma, Lithos, 1993). Di recente, ha prodotto un manuale metodologico dal titolo Le teorie della critica letteraria (Roma, La Nuova Italia scientifica, 1994).

Ha collaborato a un programma di critica delle ideologie contemporanee e di rilancio del metodo materialistico, nel cui ambito rientrano soprattutto i saggi su Derrida (Contro Derrida, II. L'equivoca strategia della decostruzione, in "L'ombra d'Argo", n. 9, 1986), su Benjamin (Interpretazione e presa di posizione nella critica letteraria di Walter Benjamin, in "Allegoria" n. 4, 1990) e il contributo sull'allegoria in Campana (Il problema della allegoria in Campana, in "Allegoria" n. 10, 1992). Va collocata qui anche la partecipazione ai due convegni senesi Sull'interpretazione. Ermeneutica e testo letterario, (21-23 maggio 1987); e 1960-1990: la teoria letteraria, le metodologie critiche, il conflitto delle poetiche (10-12 maggio 1990).

Nel corso degli anni Ottanta è stato chiamato a collaborare in diverse riviste, come: "Alfabeta" e "Avanguardia".

 

 

 

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