Sommario

La Risveglia


n°2 Settembre - Dicembre 1999
quadrimestrale di varia umanità

Follonica 1856

Un incidente in fonderia
crolla il forno di S.Ferdinando

Nella campagna 1855 - 1856 l'Azienda cointeressata di Pietro Bastogi dispone, a Follonica, di tre forni fusori e di una ferriera.
I forni sono quello di San Ferdinando, costruito nella prima metà del 1818 ( ai tempi del Biagini, del Silicani, di Giovan Batista Gelli... ), quello di San Leopoldo, edificato verso la metà degli anni Trenta, e quello di Maria Antonia, tirato su al principio degli anni Quaranta. I forni di San Ferdinando e di San Leopoldo producono per lo più ghisa bigia, quello di Maria Antonia è generalmente adibito alla fabbricazione di getti.

Lo stabilimento è diretto da un ingegnere fiorentino, Pietro Benini, da poco assunto dal Bastogi con un onorario annuo di seimila lire e il tre per cento sugli utili, " che si sarebbero ogni anno riscontrati ". La ferriera è affidata al capomastro Pietro Cecchi, della fonderia si occupa il capofonditore Pietro Parigini, il capo dei falegnami è Sebastiano Gelli, che nella primavera del 1818 procedé, insieme al capotornitore Andrea Cosimini, al montaggio della grande macchina soffiante.
La squadra dei fabbri è guidata dal francese Jean Fontain e quella dei tornitori dallo svizzero Jacques ( o Giacomo ) Broghly, che è qui con la famiglia. Le carte ricordano, fra le altre maestranze dello stabilimento, il valente capomastro Giovanni Bellini, il segnasome Giovanni Baldini, il falegname Angiolo Magrini ( vecchia famiglia di pistoiesi, la sua: il padre e il nonno hanno lavorato nei forni magonali a partire dal Settecento ), il computista Giovanni Gabbrielli e il magazziniere Angiolo Tori.

Giovan Battista Guastini ha preso il posto di Dionisio Signorini e all'inizio di ogni campagna mette i tagliatori e i carbonai nelle macchie di Val Lombarda, di Valle del Lupo, del Vallino dei Gorgoni, del Fosso dei Gineprai e del Poggio della Civetta.
Ogni tanto lo chiamano a Cecina e in altre località per perizie di bosco e "stimi" di danni. Al pontile di Marina lavora Tommaso Gori, il "famoso" capofacchino, che scende qui, a Follonica, da 35 anni ( alla fine del 1821 sostituì il defunto Giuseppe Garbati ) e che facilmente passa dalle parole ai fatti, come hanno spiacevolmente constatato, in qualche occasione, i "famigli" di Massa e quelli di Gavorrano. Qualcuno ricorda ancora che nel febbraio del 1826, insieme al Maccioni e al "legniaiolo" Severino Guastini ( due teste calde, quelli! ), il Gori prese energicamente le difese del bufalaio "Bugher", che si rifiutava di seguire i gendarmi di Gavorrano, incaricati di tradurlo davanti al Tribunale criminale di Pistoia.

Accanto ai forni c'è la sede delle Regie Possessioni, l'azienda forestale a conduzione pubblica, dove si sta facendo le ossa un tecnico di valore, Alessandro Gigli. Originario di Carmignano, il giovane ingegnere ha da poco affiancato Francesco Pelleschi, l'ispettore forestale, che cerca di risolvere pacificamente la disputa sull'affrancazione dei pascoli, che oppone gli scarlinesi ai Franceschi e allo Stato. Tra i collaboratori del Pelleschi e dell'ing. Gigli ci sono il fattore Giuseppe Pecorai, che da novembre a giugno abita, quasi sempre, a Montioni, e il sottofattore Cosimo Cappellini, figlio di Francesco, l'antica guardia dei forni da ferro, morto vecchissimo, or non è tanto, in quel di Valli.

Fuori dal recinto dello stabilimento ( il cancello artistico è stato montato da Giovanni Bellini, che ha appreso dal padre Tommaso tutti i segreti del mestiere ), tra i forni e la spiaggia, è cresciuto il villaggio. Al posto delle capanne di frasche, scorza e fango, che Onorato Canci e Domenico Bramanti osservarono scoraggiati alla fine del 1817, ci sono adesso molte " fabbriche di abitazione " in muratura, sorte - rispettando le linee del piano regolatore elaborato da Pietro Municchi - nei terreni donati dal granduca ai "manifattori", oltre alla sede della direzione del "buonificamento" ( il casello idraulico ), affidata dal 1848 a Pietro Passerini, un ingegnere, che, dopo essersi assai compromesso con i democratici ( diventando, fra l'altro, vicepresidente del Circolo popolare di Follonica nella primavera del 1849 ), ha rimosso gli " ardori rivoluzionari giovanili " e si precipita ora a rendere omaggio a Leopoldo IIº, ogni volta che il granduca giunge in Val di Pecora, con il suo seguito.

Nel villaggio sono aperti diversi esercizi: un caffè appartiene a un vecchio amico di "Giccamo", Severino Capponi, che si è mantenuto fedele alle idee di Mazzini. Anche Riccardo Billi, il figliastro di Giuseppe Gatti, possiede una bottega, Francesco Cecchini fa il calzolaro, Pietro Marchetti e l'elbano Rocco Palombo sono proprietari di due negozietti di alimentari, Domenico Bontempelli mette i ferri ai cavalli e il livornese Valentino Soldaini gestisce, insieme al fratello Antonio, una locanda, che tiene aperta anche d'estate. I Soldaini - la cosa è risaputa - sono contrari al restaurato Governo lorenese e agli austriaci, che hanno riportato "Canapone" sul trono con le loro baionette, e non lo nascondono affatto. Per gran parte dell'anno a Follonica ci si può rifornire di carne salubre nelle macellerie di Carminio Carmignani e di Esmeraldo Martellini. I tempi in cui la popolazione protestava vivacemente contro i proprietari delle macellerie sembrano dimenticati...

Della sanità pubblica si interessa con molta diligenza il dott. Giuseppe Bernardini, un medico che da molti anni presta servizio sul litorale. La cura delle anime è affidata invece a don Luigi Maggi, un parroco di idee conservatrici, originario di Castagneto, e al cappellano don Giovanni Grassini. Entrambi furono accusati - correva l'anno 1844 -, da alcuni "fogliettanti", di costumi poco conformi all'abito talare. Nel villaggio è aperta una farmacia: lo speziale si chiama Bernardino Chiti ed ha preso il posto del livornese Ottaviano Bazzani, che è fuggito da qui sei anni fa.

La dogana è affidata a Giuseppe Paolotti e ai suoi subalterni, che controllano le merci in arrivo e partenza dal pontile: si tratta di minerale, di pietre da forno e "da cannicchio", di ghisa, di getti, di ferri sodi, ed anche di semole, fave e biade... Della scuola di disegno ( installata in un locale dello stabilimento ) si occupa Amedeo Maraviglia e di quella di grammatica ( aperta in una "fabbrica" del villaggio ) la maestra Rosa Bastianelli. Se n'è andato invece un altro insegnante, don Ferdinando Rugiati.
Il religioso è trasmigrato altrove - raccontano in giro - perché troppo compromesso negli "affari politici" del 1849, perché legato a sovversivi temibili come il Guelfi, il Gatti e Fortunato Paci, perché contrario a piegarsi ai vincitori.

Nella località la vita rimane difficile e incerta. I turni dei lavoranti del ferro sono lunghissimi, la fatica è tanta, la malaria continua a falciare, impietosa... Nell'estate del 1855 i braccianti, i mignattai e i giuncai, trattenutisi a Follonica per le faccende dei campi o per quelle palustri, e, con loro, qualche locandiere, oste e caffettiere, hanno tremato, quando nella vallata è dilagata un'improvvisa e micidiale epidemia di colera. Il "morbo indiano" ha seminato strage in quel di Scarlino fino a settembre avanzato e i morti sono stati sotterrati in fretta e furia dentro l'antico castello aldobrandesco, poi tutto è passato e si è ritornati alla solita normalità, segnata dal paludismo.

Dal 1851 lo stabilimento del ferro di Follonica è gestito dai Bastogi. Ma la Cointeressata, che è subentrata all' "Amministrazione delle miniere e fonderie" dello Stato toscano, non ha fatto molto per mettere in sicurezza gli impianti. Il forno tondo di San Ferdinando, che ha quasi quarant'anni, è, fra i tre "edifizj" fusori, quello più usurato e nel passato è stato precipitosamente spento in diverse occasioni per scongiurare inconvenienti più gravi alla struttura e agli addetti.
Accanto al forno continua a funzionare un mulino da grano, forse la fabbrica più antica fra quelle tirate su nella "Fellonica", che risalirebbe - sostengono certuni - alla fine del Quattrocento, quando qui non c'era traccia di vita stabile.

Ma seguiamo la cronaca. La mattina dell'otto gennaio del 1856 l'intero villaggio si ferma. Alle undici del mattino una detonazione tremenda getta tutti nel più grande spavento. Il rumore proviene - dicono i barrocciai e i facchini, che stanno facendosi un bicchiere di vino nel caffé del Capponi - dall'interno dello stabilimento. Locandieri, sarti, calzolai e vetturini, donne e ragazzetti corrono verso il grande portale di ghisa, ma la guardia non fa entrare nessuno, anche se il suo divieto non impedisce agli astanti di scorgere una grande nuvola di polvere e di fumo e di sentire le grida disperate, che si alzano, là in fondo, dal forno di San Ferdinando. Deve essere successa - commenta Riccardino Billi - una spaventosa disgrazia. "Il forno - riferisce Pietro Nenciarini, passando, impaurito e di corsa, a qualche metro dalla guardia - è crollato, anche il mulino è stato travolto, i "manifattori" stanno frugando tra le rovine, alla frenetica ricerca di qualche superstite".

Non è un lavoro facile, ci vuole molta cautela... Dopo due ore di intensa escavazione e rimozione dei calcinacci il tornitore Fontain lancia un grido: ha scoperto il corpo di Giovanni Neracci, un contadino originario di Modena, che faceva l'aiutante dei fonditori. Subito altri lavoranti si avvicinano e in breve tempo riescono a liberare il Neracci dalle pietre, che lo ricoprono, ma non c'è più nulla da fare: l'uomo è già morto, ucciso dal crollo. Poco più in là i muri divelti del molino nascondono il mugnaio Faustino Vannucci, che respira ancora, benché il suo volto sia ridotto a una maschera di sangue. Il Vannucci viene subito trasferito nello Spedaletto dello stabilimento dove il medico magonale Bernardini si affanna intorno a lui. Tra i "manifattori", che hanno portato il mugnaio fino al "ricovero" sanitario, c'è il falegname Sebastiano Gelli. " Se la caverà ? ", chiede al dottore. Il vecchio medico scuote la testa: " Le ferite sono troppo gravi... "

Tutti gli addetti - sostiene Giacomo Broghly accanto ai ruderi - erano scappati dal forno di San Ferdinando, prima che esplodesse. Ma Giovanni Bellini non è d'accordo con il tornitore svizzero e replica che là sotto c'è ancora Giuseppe Volpi. Lui lo conosce bene: più di una volta, dopo la chiusura dello stabilimento in giugno, sono tornati insieme a Pistoia. D'altronde nessuno ha più scorto il Volpi, dopo lo scoppio, e allora si torna a scavare con grande lena, nella speranza di poterlo salvare. E dopo un'altra ora di fatica, ecco che si profila fra le pietre il corpo del Volpi... L'uomo presenta numerose ferite al capo e agli arti, il torace è stato schiacciato dai mattoni e dal macigno, il respiro, affannoso, assomiglia a un rantolo. In quattro lo caricano su una specie di barella e vanno di corsa allo Spedaletto. Ma il dottor Bernardini - che qualche minuto prima ha constatato il decesso del Vannucci - dice che non si può far nulla per il Volpi: coricato su un lettino, il " manifattore " si spenge alle due del pomeriggio, senza aver ripreso conoscenza.

Seguono le " formalità burocratiche e di legge " e il direttore dello stabilimento, l'ing. Benini, avverte le autorità. Il primo a giungere sul luogo del disastro è il caporale del picchetto dei carabinieri di stanza a Follonica, poi, l'indomani mattina, arrivano da Massa Marittima il commesso di vigilanza e il delegato di polizia. Il sinistro ha avuto luogo - spiegano l'ing. Benini al delegato - perché l'aria del forno si è infiammata " contro ogni previsione ", provocando l'esplosione della " macchina " e il crollo delle due " fabbriche ". Il danno - aggiunge - ammonterebbe, ad una prima valutazione, a 20 mila lire.
La magistratura non apre alcuna inchiesta ( o procedimento "economico" o "criminale" ) sull'accaduto.

Nelle ore successive hanno luogo le esequie dei caduti. Molti compagni di lavoro rendono l'estremo omaggio alle vittime. E' don Luigi Maggi a impartire la benedizione alle tre salme, è lo stesso pievano a registrare nel "libro dei morti" che Giovan Battista Neroni, originario di Missiano di Villa a Minucci, aveva appena venti anni, Giuseppe del fu Pietro Volpi, nativo di Gello, ne aveva 36 e Agostino di Giuseppe Vannucci trentatré. Tutti e tre - precisa l'uomo di chiesa - sono stati tumulati nel "Camposanto di questa Parrocchia".

La vicenda non è però conclusa. Pochi giorni più tardi la direzione dell'impianto di Follonica racconta, in un rapporto dettagliato sul "disastro avvenuto presso al Forno San Ferdinando il dì 8 corrente", che da "quanto deposto ( alla presenza dei signori Ingegner Martelli, e Ispettor Francesco Pelleschi ) Onorato Pierallini, ajutante in servizio al Forno stesso nel momento della esplosione resulta, che mentre si eseguivano il restauro della Conduttura, non fu ritirato il bocchetto dell'Ugello, e perciò causa involontaria di tale disastro fu il defunto Giuseppe Volpi, il quale per imprevidenza dimenticò di prendere le precauzioni che erano indispensabili al prevenire l'accaduto, ogni qual volta per eseguire il restauro alla conduttura si tappava la bocca al forno. In altri termini la mancanza di disciplina fu causa di tale sventura perché se le prescrizioni che erano state date dalla Direzione fossero state eseguite non doveva mettersi mano ad un restauro ( fosse pur creduto di lieve importanza ) senza che l'incaricato della Direzione fosse stato avvisato e il restauro stesso avesse approvato..."

E' un chiaro quanto ingeneroso tentativo di rovesciare le responsabilità su uno dei morti. Ma la causa del disastro sembra riconducibile piuttosto alle cattive condizioni del manufatto, sulle quali si sofferma, a qualche giorno di distanza, l'ing. Pietro Benini in una lettera, mediante la quale " porta a notizia di V.S. Ill.ma [ il Bastogi ] come lo stato delle macchine soffianti S. Ferdinando, e Maria Antonia sia tale da eccitare gravi timori ". La macchina Maria Antonia, " viziosa nella sua organizzazione ha poi tali imperfezioni da far temere da un momento all'altro, un qualche sinistro che la riduca incapace di sodisfare all'ufficio cui è destinata. D'altronde - si legge più avanti nella stessa lettera - i restauri che varrebbero ad assicurarla, non sono di tal natura da potersi eseguire mentre il forno è acceso, ed è mia necessità procedere su questo piede. Non risparmierò cosa alcuna che da me dipenda perché siano impediti i danni, che potrebbero derivare da una sospensione, ma è mio dovere annunziare una tale possibilità, sia perché la cosa mi sembra grave per la sua natura, sia perché io non vorrei essere tenuto responsabile per le conseguenze che derivassero...".

In una comunicazione successiva l'ing. Benini ritorna sullo stato dei forni di Follonica e fa sapere a Pietro Bastogi che non è affatto da escludersi la possibilità che " una rottura della macchina soffiante " del forno Maria Antonia " comprometta la sicurezza del macchinista ".


La Risveglia nuova serie on-line del giornale fondato nel 1872