BREVI SAGGI SULLE FILASTROCCHE.

di Bruno Tognolini


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L'UCCELLO CON TRE ALI
Breve saggio pubblicato in quattro puntate sulla rivista "Scuola dell'Infanzia", GIUNTI SCUOLA,
nei Dossier dei numeri 3/2005, 6/2005, 11/2006, 14/2006.

1 . IL SUONO: RIMA. IL GIOCO DEL CALCIO

2 . IL SUONO: RITMO. IL TAMBURO DEI VERSI
Parole con un cuore di tamburo
Tamburi e violini
Tamburi lontani
Tamburi del corpo
Tamburi, timpani e bongos
Tamburi della nostra voce

3 . IL SENSO. L'UCCELLO CON TRE ALI
Le due ali
Ala del Senso più lunga dell'ala del Suono
Ala del Suono più lunga dell'ala del Senso
Parole che puliscono parole
La terza ala

4 . LA BELLEZZA. IL GIARDINO NELL'ORTO
La Rosa Guardata
Per le Rose ci vuole un Giardino
Nel Giardino ci vogliono le Rose
Lo sguardo e la mano del Giardiniere
Il Giardino nell'Orto
Commiato

5 . FILASTROCCHE

6 . APPENDICE. "Per favore, non scrivetevele voi!" - Una piccola discussione con le maestre





IL GIOCATTOLO POETICO

Relazione dell'intervento tenuto il 10 febbraio 2006 al convegno in omaggio a Gianni Rodari promosso dal Centro di documentazione "Gianni Rodari" di Pontedera



L'UCCELLO CON TRE ALI

Breve saggio pubblicato in quattro puntate sulla rivista
"Scuola dell'Infanzia", GIUNTI SCUOLA,
nei Dossier dei numneri 3/2005, 6/2005, 11/2006, 14/2006





1 . Il Suono: RIMA
IL GIOCO DEL CALCIO



Scrivere filastrocche assomiglia al gioco del calcio.
Giocando a calcio si corre col pallone al piede, ma più spesso lo si "allunga", cioè lo si calcia avanti - anche lontano - e lo si insegue per raggiungerlo, e calciarlo avanti ancora.
Scrivendo filastrocche si fa qualcosa di simile: si pensa il primo verso, che finisce con una parola; si cerca un'altra parola che fa rima con questa, la si lancia avanti come una palla fino in fondo al secondo verso, che è ancora vuoto; e poi si procede riempiendo di parole questo vuoto fino a raggiungere quella palla. Ed ecco il secondo verso che fa rima col primo.
Una filastrocca mia incomincia così:

    Apro la bocca e dico la rima...

Una filastrocca popolare, della serie delle "canzoni alla rovescia", incomincia così:

    Il marito che avevo era piccino...

Bene. Cerchiamo le rime, le parole-palla da lanciare avanti e poi inseguire per fare il secondo verso. Io trovo la parola "prima", che fa rima con "rima", e l'ignoto autore della filastrocca popolare trova la parola "vino", che fa rima con "piccino". Lanciamo avanti queste parole. La strada che dobbiamo fare per raggiungerle potremmo figurarla così.

    Apro la bocca e dico la rima
    
... ... ... ... ... ... ... prima

    Il marito che avevo era piccino
    
... ... ... ... ... ... ... ... vino

Però, attenzione: chi gioca al calcio sa bene che non si tratta di calciare avanti la palla a caso e correrle dietro. C'è ben di più: si va in una direzione precisa, che corrisponde a un'intenzione precisa. Io posso voler andare verso la rete avversaria per tentare di segnare, o verso il centrocampo per costruire gioco, o addirittura indietro per alleggerire...
Allora, muoviamoci per raggiungere la parola che abbiamo lanciato avanti, in modo però da dirigerci non dove capita, ma "dove vogliamo noi": verso ciò che vogliamo dire, il Senso che vogliamo dare alla filastrocca. Il Senso, che è una delle due ali con cui volano, se volano, le poesie.
Al mio secondo verso io non riesco ancora a dare proprio il Senso che volevo, perché il Suono - che è l'altra ala - mi fa i dispetti. Quella parola-palla che ho lanciato avanti è difficile, dispettosa: che verso si può fare che finisca con la parola "prima"? "Non viene dopo e non viene prima"?
Sì, suonerebbe bene, ma... non c'entra molto con ciò che volevo dire. Allora rifletto, vediamo: "prima"... Cosa accade "prima"? Apro la bocca e dico la rima. Prima che io dicessi la rima, prima che io parlassi, cosa c'era? C'era silenzio. E se io parlo, non c'è più. Fugge, perché io parlo. Ecco!

    Apro la bocca e dico la rima
    Fugge il silenzio che c'era prima

Sì, questo può funzionare, c'entra abbastanza col Senso che volevo dare alla filastrocca.
Però attenzione: qui accade una cosa bellissima, che è il cuore della poesia: quel cuore che è proprio a mezza via fra le due ali, fra Senso e Suono. State a vedere.
Questi due versi suonano bene insieme. Ma possono suonare ancora meglio. Un modo per fare suonare meglio i versi è metterci dentro parole sorelle, che si assomigliano, parole assonanti che suonano simili, che si richiamano e suonano bene. Vediamo: "Apro la bocca e dico la rima / fugge il silenzio che c'era prima". Ho due parole vicine: "rima/fugge", una in coda al primo verso e una in testa al secondo. Se al posto di "fugge" trovassi una parola migliore...
Eccola: "RIDE"! "Rima/ride" son parole sorelle, si assomigliano e suonano bene.

    Apro la bocca e dico la rima
    Ride il silenzio che c'era prima

E guardate cos'è successo al Senso, a danzare col Suono! Il Silenzio ora non "fugge" più, ma "ride"! E questo è MOLTO più bello. Vi immaginate "il Silenzio che c'era prima" che ride contento per la rima che è stata detta? Non è molto più bello? E io non volevo dirlo, questo Senso, o non sapevo di volerlo dire: è il Suono che me l'ha suggerito! Proprio questo succede, lanciando le parole avanti e poi rincorrendole coi piedi dei versi: che saltano fuori cose diverse, e spesso molto più belle di quelle che volevo dire io.
Insomma, così i miei primi due versi camminano bene, e vanno proprio dove volevo andare io.
Vediamo ora dove voleva andare quell'altra filastrocca.

    Il marito che avevo era piccino
    
... ... ... ... ... ... ... ... vino

Lo sa benissimo dove vuole andare. Vuole raccontare una di quelle belle e buffe storie "a rovescio", dove tutto va al contrario di come deve, e in questo caso la storia di un marito piccolissimo.
Allora vediamo: cosa c'entra un marito col vino? Semplice: nell'esperienza quotidiana di tante mogli filastrocchiere popolari, il marito beve il vino. Ma se è un marito piccino? Allora:

    Il marito che avevo era piccino
    E in un ditale ci beveva il vino

Il gioco è fatto. Siamo quasi nella bellissima saga degli "Sgraffignoli" di Mary Norton. Si tratta di raccontare in versi un uomo minuscolo che si serve di oggetti minuscoli e impropri.

    Il marito che avevo era piccino
    E in un ditale ci beveva il vino
    Metteva dentro l'acqua una ciabatta
    E andava a remi come fosse in barca
    Con quattro morsi mangiava un marrone
    Faceva quattro passi per mattone
    Lo mandai a far legna in un boschetto
    E lui me ne tornò con uno stecco
    Andò nell'orto a coglier l'insalata
    Si mise a litigar con la lumaca
    L'ho mandai in cantina a prender vino
    Si mise a litigar col moscerino
    Lo mandai a letto per dormire
    Lo morse una pulce e lo fece morire

Pace all'anima sua: molte filastrocche popolari hanno queste fini buffe e crudeli. E molte delle loro rime, come vedete, non sono proprio rime ma "assonanze", cioè parole che hanno un suono simile ma non identico: "ciabatta/barca", "insalata/lumaca", "boschetto/stecco". Sono molto usate, in poesia, e non sono sbagliate. Niente è "sbagliato" in poesia: tutt'al più è brutto, o meno bello, a seconda dei gusti e dello stile del maestro filastrocchiere. Io, per esempio, non uso mai assonanze, ma solo rime pure. La mia filastrocca infatti continua e finisce così.

    Apro la bocca e dico la rima
    Ride il silenzio che c'era prima
    Un filo brilla fra le parole
    Mare con mondo, luna con sole
    Un filo piccolo che tiene insieme
    Fiore con fiume, sole con seme
    E ora vicine le cose lontane
    Come le perle di belle collane
    Danzano in tondo, perché se tu vuoi
    Mondo fa rima con Noi

Ma allora le filastrocche "tengono insieme" le cose lontane?
Peccato, è finita l'ora. Ne parleremo nella prossima Lezione.


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2 . Il Suono: RITMO
IL TAMBURO DEI VERSI



Mi sono chiesto perché le filastrocche, le belle filastrocche fatte bene, impongono il loro speciale incanto a chi le ascolta, a chi le dice, a chi le gioca, a chi le legge e a chi le fa. Perché ci ricordano i primi ritmi del nostro corpo, il battito del cuore e l'onda del respiro? Perché echeggiano le prime parole che abbiamo udito in vita nostra, nella lallazione e nelle rime di culla? Perché riflettono le prime cadenze del mondo, il pendolo di giorno e notte, di stagioni e lunazioni, dei moti degli astri?
Tutte queste cose e anche altre. Nel libro"Il viaggiatore notturno" Maurizio Maggiani racconta di una festa in un villaggio tuareg sperduto nel Sahara, e di ragazze dalle unghie laccate di nero che suonano grandi e cupi tamburi di pelle di capra. La guida tuareg Jibril spiega che "... quei tamburi imitano la voce del cuore. Quei tamburi vengono suonati ogni volta che è necessario dare forza al cuore di qualcuno. Quando nasce un bambino, ad esempio, per il suo cuore e per il cuore della famiglia che lo crescerà. O quando un malato è così grave che il suo cuore non è più sufficiente a tenergli in petto la vita e gli è necessario un cuore esterno che lavori al posto del suo, troppo affaticato. Quando il tamburo suona per un bambino, dice ancora Jibril, al suo suono si abbeverano e traggono forza anche i cuori dei giovani che vogliono innamorarsi. ‘Abbeverarsi', ha usato proprio questa parola".
Così è anche per le filastrocche, che sono parole che hanno un cuore. Precisamente, un cuore di tamburo. Anche loro col loro battere incoraggiano, intonano, assecondano il battere dei cuori che ne hanno bisogno. Per questo - pur senza aver più il vigore diretto che conservano in culture lontane, e nella nostra in anni lontani - ancor oggi le parole col cuore di tamburo, se quel tamburo è suonato bene, danno un piacere a chi le ascolta che va oltre ogni analisi.
Nella prima chiacchierata abbiamo parlato della Rima. In questa seconda parleremo del Ritmo.

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Tamburi e violini

Traccio, prima di ararlo, i contorni del campo. Io qui ragiono di filastrocche, cioè di poesie per bambini basate su una forte componente di rima e ritmo. Ci sono altri modi e mode di far poesia, anche bellissimi, anche adattissimi ai bambini, che trattano con molta libertà o ignorano del tutto rima e ritmo. Di quelle poesie suonate con altri strumenti, pianoforti o violini o giradischi, questa rivista chiamerà forse altri a parlare: io sono un poeta tamburino, e parlo di ciò che so.
E purtroppo ecco subito il problema: pur parlando di ciò che so potrò dir poco, spiegare poco, e solo con l'aiuto di molti esempi. Come si fa, infatti, a imparare a suonare un tamburo? Pochi ragionamenti: si suona e si suona. E si sente suonare e suonare, e poi si risuona. E come si fa a imparare a sentirlo? A sentire e capire se il tamburo di una filastrocca è suonato bene, se ha forza e dà forza al cuore? E soprattutto come si fa a farlo sentire agli altri, per esempio ai propri alunni?
Vediamo. Anzi, sentiamo.

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Tamburi lontani

    Sotto il ponte di Baracca
    C'è Pierino che fa la cacca...

    Trenta quaranta
    La pecora canta...

    Stella stellina
    La notte si avvicina...

... E potremmo andare avanti per pagine, ma già molti libri lo fanno, quindi noi ci fermiamo.
I tamburi di questi versi ci paiono subito suonati bene, incoraggiano e danno forza col loro battito al nostro cuore. Ma forse ciò accade perché li abbiamo sentiti, o ci pare di averli sentiti, infinite volte e da infiniti anni. Sono come Tamburi Lontani, tamburi degli antenati, che hanno acquisito sulla lunga via fino a noi la forza della durata, del ricordo, della ripetizione, della lontananza, e tante altre forze che travalicano la loro reale qualità metrica. Suonino bene o no, fatto sta che dentro di noi echeggiano bene.
E allora merita usarli, quei tamburi, farli risuonare ancora nelle classi, in due modi: così come sono, nelle versioni originali, le cosiddette "filastrocche popolari", che devono andare avanti anche solo per il merito di essere arrivate fin qui (chi siamo noi, per decretare la loro fine?); e nelle molte riscritture e rifacimenti. Molte filastrocche attuali, infatti, citano e si rifanno a queste antiche rime, perché da esse traggono forza, come lanciate da una rincorsa che parte da molto lontano.
Ecco, per esempio, una filastrocca "remake" che ho scritto per la Melevisione.

    Sotto l'albero dei ricci
    C'è Tonino che fa i capricci
    Li fa lunghi, neri e brutti
    Sciupafiabe li mangia tutti
    Restano bucce, restano semi
    Restano corvi che fanno gli scemi
    Con un cartello che dice così:
    Tonio Cartonio, piantala lì!


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Tamburi del corpo

    Mano mano piazza
    Ci passò una lepre pazza...

    Cavallino arrò arrò
    Per la biada che ti do...

    Mi chiamo Renzo Lorenzo
    Asciugamano asciuga...


Altre filastrocche, antiche e recenti, hanno cuori di tamburo che paiono suonare bene, con forza e ricchezza, forse anch'essi al di là del loro effettivo rigore metrico, e certamente al di là della loro ricchezza e compiutezza di senso. Perché anche questi ritmi traggono la loro forza altrove: dall'esser suonati col corpo e sul corpo. Non solo dalla bocca che dice o dall'occhio che legge, ma dal corpo che fa. E che fa con piacere, in un rapporto fra corpi dolce e positivo: piacere dell'amore genitoriale, piacere del gioco fra eguali. I tamburi di questi versi sono scanditi sulle dita della mano, i tratti del viso, le parti del corpo, affettuosamente toccate e strapazzate; sono ritmati facendo saltare il bambino sulle ginocchia, o con altre esilaranti acrobazie; sono battuti dalle mani che battono le mani dei compagni di gioco, con virtuosismi acrobatici, incroci, rapidi raddoppi, scambi palmo-dorso...
Anche in questo caso, il "genere letterario" è (forse sempre sarà) florido e rigoglioso, e ben merita di essere coltivato in classe, leggendo e giocando le filastrocche "corporee", tradizionali e non.
E come? Ancora in due modi.
Il primo: eseguendole fisicamente, e facendole eseguire dai bambini, nelle loro forme specifiche e native: le conte come conte, le filastrocche del viso e del corpo eseguendo i dovuti gesti, e le filastrocche coi virtuosismi di battimani chiamando i due bambini, o meglio le due bambine più brave e chiedendo loro di eseguirle davanti a tutti. L'imbarazzo per giochi e comportamenti che riportano a età ancora troppo vicine, può essere superato facendo leva sul distacco della "ricerca letteraria sul campo" (il loro campo!), della scoperta e custodia di forme a rischio di estinzione, come lontre allegre e incoscienti in riva al lago.
E il secondo modo è un test per vedere se filastrocche "letterarie", nate non per il gioco ma per altri scopi, hanno dentro qualche residuo di questo cuore-tamburo del corpo. Sottoporre le filastrocche di Piumini, Tognolini, Rodari, Carminati, e qualsiasi altra si ritiene che si presti, alla "prova-conta", alla "prova-gioco": se funzionano come conta, come gioco di battimani (magari inventandosi gesti e figure sui singoli versi), vuol dire che qualche traccia di cuore-temburo del corpo-poeta in quelle poesie c'era, e questa scansione del corpo-lettore rivela, risveglia, riaccende quel ritmo sepolto.

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Tamburi, timpani e bongos

    Aspettami
    Come oggi aspetta domani, aspettami
    E come semi i tuoi giorni, piantali
    E quando torno vedrai che fiori...

    Alè! Alè! Alè!
    Vai più in alto, scimpanzé!
    Dài! Dài! Dài! Dài!
    Elefante, ce la fai!...

    (frammenti di filastrocche mie, da puntate di Melevisione)

    Dïgo pessïgo - de natte natïgo
    Rïo Rieu - diféndite beu
    Rocca roccagna - faxeu de semenàgna...

    (da una filastrocca popolare ligure)

    O you that are so strong and cold,
    O blower, are you young or old?
    Are you a beast of field and tree,
    Or just a stronger child than me?

    (da una filastrocca sul vento di Robert Louis Stevenson)

E anche qui ci fermiamo, perché ci sono già libri e libri che si sforzano, coi loro segnetti neri e senza voce, di far sentire i pignantamila tamburi diversi che possono essere suonati nel mondo dalle filastrocche. Come esistono rullanti, timpani, grancasse, bongos, e chissà quante altre fogge di tamburi, così, oltre le rime tradizionali e i loro rifacimenti e manierismi, oltre le rime del corpo e dei giochi, ci sono in giro infinite filastrocche, forse fin troppe, scritte e raccolte e offerte alle scuole in mille modi. Quali di esse fanno ballare davvero qualcosa nel cuore, anche se non sono antiche ma scritte oggi, anche se non son da giocare col corpo ma solo da dire e udire? Come fare a riconoscerle, a capirle?

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Tamburi della nostra voce

C'è un solo modo: con la voce. Tutti i poeti dicono che tutte le poesie sono fatte per la voce; ma fra tutte, le filastrocche sono quelle che senza la voce non possono proprio vivere, sono proprio - è il caso di dirlo - lettera morta.
Le filastrocche vanno lette e dette a voce alta, scandita, ritmata, la nostra voce alta che batte per cercare, cimentare, stuzzicare il loro tamburo, infila accenti e cesure dove le pare che vadano, strascina e accelera, sale e scende, si diverte e recita e gioca: e sente se funziona. La voce alta che dice a ritmo, non canta melodie ma scandisce ritmo, staccato e deciso e vivo come nel rap, come nelle conte e rime di gioco, è insieme la prova e la vita di ogni filastrocca.
Le maestre dicevano una volta ai bambini che ripetevano le poesie: non dirla con la cantilena.
E come dovrebbe dirla? Togliendo il Suono e rimarcando il Senso, come se fosse prosa?
Ma non è prosa! E non è neanche "poesia": è una filastrocca!
Filastrocca è canto di gioia, cantilena è canto di noia: se il bambino fa cantilena si sta annoiando.
Si annoia a dire a voce alta, "per dovere", la stessa filastrocca che magari, usata come conta con gli amici, suonerebbe ben viva e saltellante. Con questo non voglio dire che le poesie vadano tutte eseguite a scuola in conta e gioco, certo che no. Ma, paradossalmente, è meglio la cantilena che la "prosa", lo spegnimento totale di ogni ritmo. Dalla cantilena, che un suo tamburo di noia lo batte, si può risvegliare il tamburo di gioia: dalla prosa no.
Giuseppe Caliceti, un poeta che è anche maestro elementare, è stato l'unico a notarlo, e mentre assisteva a un mio incontro con una sua scuola, a un certo punto ha detto ai bambini: guardategli il piede. Io avevo sempre cercato di nasconderlo... Ma il cuore-tamburo delle filastrocche, per vivere tutta la sua forza e contagiarla al nostro cuore, deve battere nella voce e, almeno un po', almeno nella punta delle dita dei piedi, anche nel corpo.
I greci e i latini, del resto, i versi li chiamavano "piedi".
Maestre, se dicendo le filastrocche ai vostri bambini non battete un po' il piedino sotto la cattedra, ai vostri bambini non arriverà niente.
E se invece lo battete, e con esso batte il tamburo del ritmo nei versi, e fa battere per invito al ballo quello del cuore dei nostri bambini, questo ci basta? No, non basta ancora. Noi vogliamo che si alzi in piedi e danzi anche la loro mente. Ma di questo, la prossima volta.


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3 . Il Senso
L'UCCELLO CON TRE ALI



"FILASTROCCA: Composizione cadenzata con versi brevi, rimati o in assonanza, solitamente priva di senso compiuto, recitata o cantata spec. per divertire o far addormentare i bambini".
Così il De Mauro, Dizionario della lingua italiana. In altri dizionari la definizione varia di poco.
La filastrocca è "solitamente priva di senso", dunque, e serve per divertire o addormentare.
Bene, vediamo come addormentavano i loro bambini due donne sarde. Devo queste due filastrocche, e soprattutto la lettura che ne faremo, a Giacomo Mameli, illuminato giornalista sardo.


Riferita da Zia Consola Melis, di anni 87

1. Dormi pippiu   (Dormi bambino)
2. C'esti unu niu   (C'è un nido)
3. Asutt'e su steddu   (Sotto la stella)
4. Su pilgioneddu  (L'uccellino)
5. Boli pappai   (Vuole mangiare)
6. Ma nudda dinai  (Ma niente denaro)
7. Boli buffai  (Vuole bere)
8. Ma non proi mai  (Ma non piove mai)
9. Boli bolai  (Vuole volare)
10.Ma non podi pappai  (Ma non può mangiare)
11.Boli cantai  (Vuole cantare)
12.Ma non podi pappai   (Ma non può mangiare)
13.In custa terra  (In questa terra)
14.Fatta de guerra  (Fatta di guerra)
15.E non c'est trigu  (E non c'è grano)
16.In logu aprigu  (In luogo aprico)
17.Boli buffai  (Vuole bere)
18.Ma non proi mai  (Ma non piove mai)
19.Boli bolai  (Vuole volare)
20.Ma est troppu su entu  (Ma c'è troppo vento)
21.Su pilgioneddu  (L'uccellino)
22.No est prus cuntentu  (Non è più contento)
23.Ma custa mamma  (Ma questa mamma)
24.Fissa prangendi   (Che piange sempre)
25.Boli cantai  (Vuole cantare)
26.Celu scuriu  (Cielo scuro)
27.Non proi mai  (Non piove mai)
28.E su piu piu  (E il suo pio-pio)
29.Non podi fai  (Lui non può fare)

Riferita da Elena Carta, di anni 62

1. Dormi pippiu  (Dormi bambino)
2. C'esti unu niu   (C'è un nido)
3. Asutt'e su steddu   (Sotto la stella
4. Su pilgioneddu   (L'uccellino)
5. Boli bolai   (  (Vuole volare)
6. Ca oli castiai  (Perché vuol guardare)
7. Su mundu bellu  (Il mondo bello)
8. Fragu 'e gravellu  (Profumo di garofano
9. In custa terra  (In questa terra)
10.Finia sa guerra  (Finita la guerra)
11.Cun abba 'e funtana  (Con acqua di fonte)
12.Cun abba 'e s'erriu  (Con acqua di rivo)
13.Castiendu su campu  (Guardando un campo)
14.De frorisi spantu  (Meraviglia di fiori)
15.Su pilgioneddu  (L'uccellino)
16.Bidi unu steddu  (Vede una stella)
17.E su fradigeddu  (E il fratellino)
18.E totus imparis  (E tutti insieme)
19.Bolanta in celu  (Volano in cielo)
20.Contendu dinaris  (Contando danari)
21.Durci su entu  (Dolce il vento)
22.Pilgioni cuntentu  (Uccello contento)
23.Cuntentu su fradi  (Contento il fratello)
24.Poitta sa mamma   (Perché la mamma)
25.Basau d'adi  (Lo ha baciato)
26.Custu anninniu  (Questa ninna-nanna)
27.A possiu portai  (Ha potuto portare)
28.A su pilgioneddu  (All'uccellino)
29.Po d'anninniai  (Per poterlo ninnare)


Evidentemente, si tratta della stessa filastrocca reinterpretata da due prospettive diverse. Spesso nella poesia popolare i versi venivano riadattati all'estro o alle necessità del parlante (i bambini con le rime di gioco ancora lo fanno), variandoli all'interno di uno schema dato. Le due varianti di questa ninna-nanna costituiscono un esempio luminoso sia delle ondate degli apporti personali e sia della tenuta dello schema. Proviamo a leggerlo.
I numeri, quelli dei versi e quegli degli anni delle due mamme, sono rivelatori. Facciamo un semplice conto: la più vecchia, Zia Consola Melis di 87 anni, cantava la ninna-nanna al suo bambino - poniamo - a 25 anni, quindi più di 60 anni fa, quindi durante la guerra; e la giovane, Elena Carta, intonava la stessa filastrocca 20 anni dopo, in tempi di pieno miracolo economico.
Rileggiamole alla luce di questa notizia. Per i primi cinque versi le due filastrocche vanno insieme, perché la ninna-nanna è quella e "si canta così". Ma ben presto le urgenze di due scenari esistenziali così divergenti hanno la meglio: le due versioni al verso 6 si diramano come un fiume, che più avanti però tornerà a intrecciarsi. La mamma dei tempi di guerra cantava: "Vuole mangiare / Ma niente denaro / Vuole bere / Ma non piove mai / Vuole cantare / Ma non può mangiare...". L'altra, 20 anni dopo, negli anni '60, canterà: "Vuole volare / Perché vuol guardare / Il mondo bello / Profumo di garofano...". In due punti, sfasati di pochi versi (9-10 e 13-14), l'enunciato esce dalla metafora e si fa esplicito: "In custa terra / Fatta de gherra", "In custa terra / Finìa sa gherra"; pochi abili tocchi, e la struttura di metro e rima accoglie i due opposti enunciati. La mamma più fortunata prosegue nelle sue variazioni di senso: "Col fratellino" (nuove nascite, finalmente benvenute), "tutti insieme" (non più divisi dalla guerra), "Volano in cielo / Contando denari" (sembra una delle vignette miracolistiche di quegli anni di "boom").
Potemmo andare avanti, ma ci fermiamo qui.
Ora: può ben darsi che, a chi le abbia lette morte e puntate con uno spillo come farfalle sulla pagina di un libro, queste rime siano sembrate sinceramente "composizione (...) priva di senso compiuto".
Non è così.

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Le due ali


La scorsa puntata di questo piccolo saggio sulle filastrocche parlava del Suono, e finiva con una domanda: "Se batte il tamburo nel ritmo nei versi, e fa battere quello del cuore dei nostri bambini, questo ci basta? No, noi vogliamo che si alzi in piedi e danzi anche la loro mente".
Questa puntata tratterà di ciò che in una filastrocca fa danzare la mente: il Senso.
Come ho già scritto nelle puntate precedenti, e come dico ai bambini nei miei incontri, le filastrocche come gli uccelli hanno due ali: il Senso e il Suono. "Senso" e "Suono" sono parole lunghe uguali, cominciano entrambe per S e finiscono per O. Questo, nella cabala dei nomi, vorrà dire forse che le due ali devono essere uguali, ugualmente lunghe e forti?
Io preferisco che sia così, nelle mie filastrocche, ma in tante altre così non è.
Il Senso delle due ninna-nanne sarde, a dispetto di ciò che ne dicono i dizionari, è forte e chiaro: è il senso che esprimevano al loro mondo, e del loro mondo. Tanto forte e pressante da incastonarsi, diverso in diversi decenni, nello schema testuale della filastrocca, deformandolo ma senza spezzarlo, adattandolo per tenerlo in vita.
Il loro Suono, per noi ora arduo a comprendersi, era a sua volta probabilmente altrettanto potente: rima baciata, scandita o cantilenata a ninna-nanna.
In questa filastrocca, dunque, Senso e Suono paiono equilibrati. Ma ci sono altre filastrocche che hanno un'ala più lunga e una più corta: per esempio un Senso forte e un Suono debole.

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Ala del Senso più lunga dell'ala del Suono

Si vede subito che le filastrocche squilibrate su quell'ala "vogliono dire" qualcosa. Qualcosa che, per chi scrive, è importante dire: in genere si tratta di alti contenuti valoriali, pace, tolleranza, intercultura, ambiente, etc. Ma in molti casi si vede anche che chi scrive, fidando nella forza automatica di quei contenuti, non ha voluto o saputo far danzare questo potente Senso con un Suono di pari potenza. Non usa il tamburo gioioso del ritmo per far ballare il cuore di chi ascolta (come si dice nella seconda puntata del saggio); e non usa le rime per farsi suggerire (come si dice nella prima) cose che non voleva dire, o non sapeva di voler dire, sorprendendo se stesso e noi. Al contrario, le rime gli servono per dire ciò che proprio "vuole dire" lui; e le rime, che non sono abituate a servire, a fare le servette, si acquattano in coda ai versi opache e offese. E la mente comprende, ma non si alza per danzare.
È sempre antipatico andare alla lavagna a dividere buoni e cattivi, ma è anche vero che senza esempi non si capisce mai bene. Ecco dunque un esempio di filastrocca con l'ala del Senso più lunga di quella del Suono. È scritta da uno scrittore dilettante, di cui tacerò il nome: ma filastrocche come queste - le maestre lo sanno bene - girano a stormo fitto nelle scuole, con o senza firma, e ahimè non sono affatto rare neanche nei libri esposti in libreria.

    Arriva il Natale

    Arriva il Natale
    la festa speciale
    speciale davvero
    per il mondo intero.
    Per tutti i bambini:
    italiani, francesi o abissini
    e noi che siamo così piccini,
    non chiederemo dei regalini,
    ma solo la pace per tutti i bambini.


Dice, eccome se dice! Ma non canta. E non incanta.

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Ala del Suono più lunga dell'ala del Senso

Sentite invece come canta questa.

    Chi non fa non falla

    Chi non fa non falla,
    chi non ba non balla,
    chi non mo non molla
    e chi non co non colla;
    chi non cu non culla,
    chi non se non sella,
    chi non vi non villa
    e chi non zo non zolla;
    chi non ste non stella,
    chi non spi non spilla,
    chi non bo non bolla
    e chi non pa non palla.

    (S. Bordiglioni, Ambasciator non porta pena, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1998)

Canta, eccome se canta! E a suo modo incanta (è un po' una rima incantata): ma cosa dice?
Niente. E non perché non sappia: perché non vuole. Letteralmente, "non vuole dire niente".
Andando avanti in questo gioco un po' schematico, ora ci chiediamo: fra questa che canta ma non dice, e la precedente che dice ma non canta, quale preferiamo? Io questa, senza ombra di dubbio.
Allora possiamo concludere che in una filastrocca è più importante e necessario il Suono del Senso? Un attimo.
Prima di rispondere leggiamone un'altra, di un altro autore dilettante che m'ha spedito le sue rime.

    Nel corso del Carso

    In sogno mi è apparso
    e mi pareva assai scarso
    era il fiume Carso
    perlopiù laido ed arso.
    O, almeno, così mi era parso.
    Ero subito corso
    avrei bevuto un sorso
    perciò ero accorso
    ma invocai soccorso.
    Stava bevendo l'orso.

Anche di questa possiamo dire, come per quella di Bordiglioni, che l'ala del Suono è più lunga di quella del Senso. Ma ci piace?
Io la metterei nel paniere della filastrocca natalizia, piuttosto che in quello di Bordiglioni, anche se appartengono a "classi di ali" diverse. E poi, se è possibile, spingerei gentilmente lontano da me questo paniere, insieme con tutte le altre millanta filastrocche che fanno più Senso che Suono, ma anche quel Senso lo fanno male, o che fanno più Suono che Senso, ma anche quel Suono lo fanno male, e insomma non hanno capito che far filastrocche è difficile.

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Parole che puliscono parole

Le parole dicono e dicono e "vogliono dire". Ma a dire si stancano, e noi ci stanchiamo a sentire.
La stanchezza del senso rende noi sordi e mute le parole. Parlano parlano, ma non "vogliono dire" più niente. Per far passare la stanchezza ci vuole riposo.
Il riposo che rigenera le parole è di due tipi: silenzio e poesia.
Del silenzio su queste pagine non parleremo.
Fra le poesie, ci sono certe filastrocche che hanno un bel Senso, che vogliono dire qualcosa. Quando son belle, questo qualcosa lo dicono con suoni, colori ed eco lontane che richiamano altre cose, che a loro volta richiamano altre cose, in una fuga di specchi dove il senso alla fine vuol dire quello ma anche altro, e molto e nulla e tutto. Questa nuvola sfocata e cotonosa di un senso che vuol dire nulla e tutto, per qualche misterioso meccanismo, pulisce e riposa la mente. Dopo aver detto e sentito queste poesie, la mente torna in piedi, acuta e trasparente, pronta a capire di nuovo il senso delle parole, che vogliono dire di nuovo ciascuna la sua cosa, forte e chiara.
Fra le poesie, poi, ci sono altre filastrocche che non vogliono dir niente, ma hanno un bel Suono. Quando son belle, funzionano come acqua fresca e pulita, incolore insapore inodore, che lava e sciacqua la mente. Dette e lette, passando nella mente, la fanno liscia, lucente, di nuovo in piedi pronta a sentire e capire tutto. Ma non solo la mente: con le loro paroline levigate come pietrine pomici, queste filastrocche scrostano e lisciano le altre parole, le nostre parole pesanti incrostate di senso; dopo esser venute in contatto con queste paroline smeriglio, le nostre parole sono di nuovo lucide e smaglianti, e di nuovo vogliono dire.

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La terza ala

Come abbiamo visto, filastrocche che hanno più Senso che Suono possono essere belle o brutte. E andare insieme a filastrocche belle o brutte che hanno più Suono che Senso. Le due ali di Senso e Suono sono importanti, ma evidentemente da sole non bastano a fare una filastrocca "bella", cioè una filastrocca che rigenera le parole stanche e fa alzare in piedi la mente e la fa danzare. Evidentemente occorre una terza cosa. Forse c'è una terza ala, invisibile. Forse è una coda, che fa da timone. E purtroppo si può nominare solo nella lingua del gran mago Signor de Lapalisse.
La terza ala invisibile delle filastrocche è la Bellezza. E di questa parleremo, o se non è possibile canteremo in versi e rima, nella prossima e ultima puntata di questo saggio.


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4 . La Bellezza
IL GIARDINO NELL'ORTO



La prima puntata di questo ragionamento sulle filastrocche parlava della Rima, la seconda del Suono, la terza del Senso. Avevo promesso che in questa ultima avrei parlato della Bellezza. E avevo premesso che l'avrei potuta nominare solo nella lingua del Signor de Lapalisse: la tautologia. Così sarà, purtroppo: potrò soltanto dire che "è bello ciò che piace".
Ma proverò a dirlo meglio, con qualche argomento più utile e qualche consiglio.
 

La Rosa Guardata

Il poeta Thomas Eliot, che è uno dei miei Spiriti Guida, descrivendo un giardino, nel primo dei suoi "Quattro quartetti", scriveva così: "E c'era lo sguardo non visto, perché le rose / avevano l'aspetto di fiori che sono guardati". L'aspetto delle rose forse cambia sotto lo sguardo dell'ammiratore? Sono diverse quando nessuno le vede? Se lo dice un Poeta Guida, è così.
La Rosa Guardata rifulge di vigore. Splendono di salute e di bellezza gli arti del corpo nella giusta fatica, e appassiscono nell'immobilità. Le filastrocche son fatte per essere usate, lette e dette e date con bellezza: questo le fa star bene, le fa belle. Ma basta? Tutte le filastrocche sono belle se sono "guardate", se sono usate con bellezza? Sono belle nella relazione? Vediamo se è così.

 

Per le Rose ci vuole un Giardino

I Giardini sono dispositivi di relazione: spazi progettati per orientare l'incontro estetico fra l'uomo e le piante. Nei giardini si gioca, si legge, si riposa, si guardano le belle rose. Che sono belle perché son state scelte fra altri fiori e coltivate dai giardinieri perché lo siano; e sono belle perché sono nel giardino, dove si trova anche lo sguardo che le rende belle. Per le rose ci vuole un giardino.
La scuola è uno spazio di relazione, progettato per orientare l'incontro fra i bambini e le cose Utili (come diremo) e Belle (come speriamo) che dovranno servirgli nella vita. Gli insegnanti, va da sé, sono i giardinieri.
Bene: come per le rose ci vuole un giardino, per le filastrocche ci vuole una scuola. Lì fioriscono con rigoglio, perché trovano giardinieri che le scelgono per la loro bellezza e le coltivano, e sguardi bambini che hanno grande capacità di proiettare bellezza.
Certo, bei fiori possono essere ammirati anche nei campi e nel bosco. E le filastrocche si trovano anche altrove. Dove? Nei libri a casa? Ahimé, temo poche, nelle case di pochi: meno che i fiori nei campi. Alle filastrocche è necessaria la scuola forse più che alle rose il giardino.

 

Nel Giardino ci vogliono le Rose

Ma il problema che avevamo creduto di eludere ci aspetta in agguato. La bellezza non può essere solo nello sguardo dell'ammiratore: deve essere anche nei fiori. Gli insegnanti giardinieri devono scegliere le filastrocche più belle da coltivare nel loro giardino. E dove si trovano, come si scelgono le filastrocche belle?
Si trovano ovunque. Come i bei fiori, è più facile in media trovarle nelle buone serre. Nei libri degli autori famosi ce ne sono parecchie: ma non tutte son belle, e non tutte le belle son lì. Nelle selezioni che le riviste per la scuola e le altre pubblicazioni di supporto offrono agli insegnanti se ne trovano molte, già colte da altri per loro: ma forse a loro sarebbero piaciute altre, che quel giardiniere ha scartato. Nelle raccolte di filastrocche popolari e tradizionali ce ne sono; nei fogli sciolti di rimatori dilettanti ce ne sono... Io stesso mi sono divertito a pescare e spargere su questo articolo una manciata di filastrocche che a me paiono belle, e che vengono da colture assai diverse.
La bellezza fra le rime non è rara, è solo ben nascosta. Le filastrocche belle ci sono, a centinaia, ma son sepolte da migliaia meno belle, o mediocri, o terribili, che vanno proliferando per qualche squilibrio d'ecologia "colturale" e creativa, dilagato a nostra insaputa in questi ultimi anni.
Allora: alle filastrocche serve il giardino della scuola, per vivere e fiorire. Alla scuola servono filastrocche belle, perché il giardino sia un vero giardino, e non un orto. E alle filastrocche belle, per essere davvero belle, è indispensabile lo sguardo e la mano amorosa del giardiniere, che le sappia scorgere e districare nella macchia sterminata delle troppe rime da nulla che le sommergono.

 

Lo sguardo e la mano del Giardiniere

Voi insegnanti dovete essere lo sguardo che dà alle rose "l'aspetto di fiori che sono guardati". Dovete fidarvi del vostro sguardo, e solo di quello. Le filastrocche che porgete ai vostri bambini devono semplicemente piacere a voi. Sembra una cosa scontata applicare con rigore delle scelte, ma in realtà è difficile; sembra una cosa difficile possedere un criterio di scelta, per esempio un gusto poetico, ma in realtà non lo è.
Il gusto non è un problema: cresce da sé, occorre solo pazienza e fiducia. La pazienza di cercare e cercare, finché si trova una filastrocca che si apre sotto i vostri occhi come una rosa superba; e la fiducia che quella rosa esiste, anche se vi fa aspettare: anche lei sta aspettando voi, e non vale la pena accontentarsi per stanchezza e portare ai bambini una qualunque, tanto son tutte uguali. Tutte uguali vi sembrano, finché non trovate "quella". E quella, quando la trovate, vi educa il gusto: il gusto fa un salto, si assesta su quella, e per tutte le altre seguenti vi dice "acqua" e "fuoco".
Ma non è solo l'occhio del giardiniere, che occorre nella cerca delle rime belle: è la sua mano. L'occhio le scorge, la mano le porge. I vostri bambini hanno bisogno di bellezza, ma non di bellezza qualunque: di bellezza scovata e coltivata e offerta con le vostre mani. Quelle filastrocche brilleranno tre volte: della bellezza intrinseca e loro, quanta ha saputo infonderne il loro poeta; della bellezza che il vostro sguardo e la vostra mano che le porge accende e accresce; e finalmente di quella che straborda e innaffia dallo sguardo potente, proiettore di bellezza, dei vostri bambini.
E che cosa bisogna fare per questo, cosa deve fare la mano? Resistere.

 

Il Giardino nell'Orto

I giardini, abbiamo detto, sono dispositivi di relazione: spazi progettati per orientare l'incontro estetico fra l'uomo e le piante. Anche gli orti sono dispositivi di relazione, ma adibiti all'incontro economico fra l'uomo e le piante. Nei giardini si ozia e si guardano le belle rose: si cerca Bellezza. Negli orti si lavora e si producono frutti: cioè Utilità.
La Scuola è orto, più che giardino: si coltiva, si costruisce la "coltura", e si devono produrre frutti. Questo è giusto, legittimo e sacrosanto: nessuno vuole veder uscire dalle scuole Poeti Giardinieri. Però neanche Biologi Ingegneri: o non a dieci anni...
In certi orti di una volta l'ortolano aveva cura di serbare, fra lattughe e carciofi, un angolino di terra ai bei fiori, agli inutili e non commestibili fiori. Questo, senza togliere sostanziale Utilità, dava forse a quell'orto un tocco di Bellezza che lo rendeva più parente alla natura, la quale si compiace di mescolare Utile e Bello più liberamente, o più probabilmente ignora la distinzione. E la natura, grata, come la fata delle fiabe, benediceva di ricchi raccolti quell'orto coi fiori all'occhiello.
Questo dunque deve fare la mano: resistere con ostinazione alla forza di due correnti contrapposte.
Una che dice: qui non si fa letteratura per l'infanzia, i programmi non ne parlano nemmeno, e quindi tantomeno filastrocche; non siamo qui per imparare i "tattattìra", ma per fare punti di Pil (al di là della dichiarata caricatura: fonti ministeriali informano che i paesi che hanno anticipato l'ingresso a scuola ai cinque anni hanno visto crescere di un punto il loro Pil).
E l'altra, contraria, che dice: bisogna dargli filastrocche a più non posso, se ne trovano a manciate dappertutto; basta sia scritto in rima ed è creativo, puro, liberatorio, antidoto delle TV e del mercato.
No. L'una e l'altra via porta al deserto, dove nessuna rosa mai fiorirà rigogliosa, con "l'aspetto di fiori che sono guardati".
Ciò che invece bisogna fare è piantare un giardino nell'orto. Magari piccolo, in un angolino, ma che sia giardino vero. Con fiori veri, inutili effimeri e splendidi, non fiori di zucca anche lì.
Con filastrocche belle (vedi prima e seconda puntata di questo saggio), non utili (vedi terza puntata). Non filastrocche pacifiste interetniche ambientaliste; o anche quelle - magari, accidenti! - ma purché siano belle. Solo così saranno anche utili.

 

Commiato

Chiudo qui questo breve saggio, che è stato in parecchi punti, mi rendo ben conto, più predica che ragionamento. Ma del resto io faccio il poeta, non l'esperto, e non potevo perdere questa occasione che mi si dava per raccomandare agli insegnanti giardinieri i fiori preziosi e in pericolo della poesia.
Io faccio molti "incontri con l'autore", da molti anni, in scuole di tutta Italia. Dai confini con la Svizzera a Ragusa trovo insegnanti che resistono con sudore e sangue, e - come diceva Eliot - "in condizioni / che ora sembrano poco propizie". Non sarà un campione attendibile, mi rendo conto: ma ci sono, molti o pochi che siano, ci sono. Mostrano fieri allo scrittore le cose che fanno: ma prima ancora che cose belle, fanno una vita bella nelle loro classi, e le stelle negli occhi dei loro bambini ne parlano chiaro. Negli incontri, insegnanti e bambini aspettano da me un riflesso di specchio, una testimonianza, la conferma di un "autorevole autore" che anche loro esistono, che non stanno sognando, che un modo di far le cose bene ancora c'è. E non sanno quanto lo specchio abbia due facce: quanto a me serva e conforti sapere che anch'io non sto sognando le chimere, che i lettori golosi esistono, che sono intenditori di bellezza, che i giardinieri di lettori esistono, che hanno quegli occhi quando sentono le rime: e che quindi devo scriverne ancora.




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Filastrocche


Ecco un pugno di filastrocche, come esempio, prese da tipi e luoghi e autori più diversi.

Infine, come commiato di questo discorso sulle poesie destinato alle maestre, lascio una filastrocca che non parla di poesie, ma di maestre.
Non c'è un motivo, è un fiore del giardino.



    FILASTROCCA DELLE BUONE MAESTRE
    Bruno Tognolini, dal programma TV "La Melevisione", Rai3, Puntata del 17/11/2004.

    
Maestra, insegnami il fiore ed il frutto
    Col tempo, ti insegnerò tutto
    Insegnami fino al profondo dei mari
    - Ti insegno fin dove tu impari
    Insegnami il cielo, più su che si può
    - Ti insegno fin dove io so
    E dove non sai? - Da lì andiamo insieme
    Maestra e scolaro, un albero e un seme
    Insegno ed imparo, insieme perché
    Io insegno se imparo con te




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Appendice
PER FAVORE, NON SCRIVETELE VOI!



Uno scambio di lettere con insegnanti di scuola materna e telefonate con bibliotecarie "mediatrici" può essere utile come appendice di questo ragionamento sull'uso delle filastrocche nelle scuole.


Nel febbraio 2009, in una sala gremita di insegnanti di scuola materna, presso la Biblioteca Europea (Goethe Institut) di Roma, ho presentato, credo all'interno di un corso di aggiornamento, il discorso sulle filastrocche che è esposto in questo articolo, arricchito di altri esempi e approfondimenti.
Dopo qualche settimana ho ricevuto sul Libro degli Ospiti questo messaggio, che trascrivo testualmente (comprese le abbreviazioni):
sono un insegn della scuola d'infanzia di rm, l'ho incontrata all'auditorium goethe.
le mie colleghe ed io leggiamo molto ai nostri bambini e prima di iniziare recitiamo una formula:
zitto, zitto
quatto, quatto
in silenzio devo stare
rispettando questo patto
io seduto devo rimanere..
polverina magica passerà e una storia inizierà...

volevamo chiederle una formula da fine storia in cui i bambini erano invitati a sfogliare i libri e rispettarli riponendoli al loro posto...può aiutarci?





Ho risposto, via mail e sullo stesso Libro degli Ospiti, in questo modo forse troppo brusco e irritato.

Mi dispiace, non posso aiutarvi.
Nelle due ore in cui vi ho parlato, quel giorno a Roma, ho tentato di dire che ciò che va cercato nelle filastrocche è la rosa nascosta della Bellezza, che esiste, se la si cerca, e se la si trova può divenire anche Utilità: come dice Maurizio Maggiani, "Utile Bellezza".
Se invece si prende il cammino dall'altra parte e si cerca nelle rime l'Utilità - per esempio, in questo caso, la funzione disciplinare - la Bellezza è difficile incontrarla, ed è più facile pervenire al suo contrario. Le filastrocche non possono "servire" per far star fermi i bambini. Se le si costringe a quel "servizio" facilmente diventano brutte.
Mi perdoni, forse quel giorno non son riuscito a spiegarmi bene con tutti.





Qualche giorno dopo mi ha telefonato l'ottima Annamaria Di Giovanni, bibliotecaria della Biblioteca Centrale Ragazzi di Roma che cura i rapporti con le scuole, e che aveva organizzato quell'incontro sulle filastrocche. Con molto tatto Annamaria mi diceva che la maestra che aveva ricevuto da me quella risposta ne era rimasta delusa e un po' urtata. Le ho detto che ne aveva ben ragione, e che mi aspettavo qualche legittima rimostranza. Avevo anche pensato di scriverle preventivamente io, ma ancora non l'avevo fatto. Ben lungi dal propormi di ritrattare ciò che avevo scritto alla maestra, Annamaria mi ha chiesto se avessi una filastrocca mia da mandarle, per riparare in parte a quel malcontento. Malcontento che ben meritava d'essere riparato: dopo tanta fatica e investimenti spesi nei rapporti fra scuole e biblioteche, non è opportuno scontentare e respingere le insegnanti che si aprono alla lettura in classe, ai contatti con le biblioteche e con gli scrittori. Ero perfettamente d'accordo, e dopo due giorni ho scritto ad Annamaria di Giovanni questa lettera.





Cara Annamaria.
Ecco la "filastrocca per cominciare una storia", per la maestra che è rimasta delusa (e ben a ragione) della mia risposta. È una filastrocca inedita, o meglio è pubblicata solo su un muro: su una parete della casina Raffaello della vostra città, ad opera di quella grande seminatrice di bellezza che è Carla Ghisalberti.
Dice così:
FILASTROCCA INCANTATEMPO

Dalla puntata IL CANTASTORIE INCANTATEMPO della Melevisione


Il mondo sta fermo, il cuore si muove
È qui il cantastorie con le storie nuove
Il sole sta fermo e più non tramonta
È qui il cantastorie che adesso racconta
Il tempo sta fermo, e tutti i minuti
Si sono già messi seduti

Di' a quella maestra che perdoni il tono un po' troppo pedante di quella mia lettera.
Posso provare a spiegarmi, e spiegarle, quali possano esserne stati i motivi. Sono certo che capirà.
Ha presente il senso di irritazione e mortificazione che provano gli insegnanti quando tutti vengono a insegnargli il loro mestiere?
Negli incontri coi genitori accade che farmacisti, assicuratori, ingegneri, carrozzieri, bancari, insomma ogni genere di professionisti si ritengono in diritto di valutare se un insegnante fa bene o no il suo mestiere in relazione ai loro figli; e di esprimere queste loro valutazioni spesso con grande arroganza. Mentre se un insegnante si permettesse di andare nella loro farmacia, assicurazione, studio, carrozzeria, banca, a giudicare il loro operato sul lavoro, questi signori si sa bene come reagirebbero. Direbbero irritati: "Lei faccia il suo lavoro che io faccio il mio".
Ecco, il mestiere dello scrittore è un po' come quello dell'insegnante: tutti lo possono fare.
O così sembra.
Di' a quella maestra di scusarmi se sono stato un po' brusco, ma il motivo è quello.
L'elettricista andando via dopo il lavoro dice: signora, mi raccomando, se le serve qualcosa non metta le mani nei fili lei, chiami me.
Se si mettono le mani nei fili e non si è elettricisti c'è rischio di prendere una scossa e farsi anche molto male.
Se si scrivono filastrocche e non si è scrittori non c'è rischio di prendere nessuna scossa e non ci si fa male. O almeno così sembra lì per lì, sul momento. E invece forse si fa un danno silenzioso, a effetto lungo e ritardato, che si aggrava per accumulo come i raggi X...
Di questo danno silenzioso fatto di tedio e rassegnazione ho parlato forse un po' di volata quel giorno, e ne parlo invece bene e a fondo in un altro breve saggio che è reperibile su questo sito, quindi non giova ripetere.
Quella insegnante mi capirà. Lei ha fatto quello che di meglio poteva fare, con quelle rime. Ma io per tutto quel pomeriggio avevo detto un'altra cosa: cercate le rime più belle.
Ora aggiungo: non aggiustatevi l'impianto elettrico da soli, chiamate l'elettricista.
Le filastrocche non scrivetevele voi. Comprate un libro. O chiedete a uno scrittore...


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IL GIOCATTOLO POETICO

Relazione dell'intervento tenuto il 10 febbraio 2006 al convegno in omaggio a Gianni Rodari promosso dal Centro di documentazione "Gianni Rodari" di Pontedera

La poesia "fa" mondo

In molte cosmogonie l'origine del mondo è legata alla parola. Così è nella nostra Bibbia: "Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta".
Altre genesi sono legate più precisamente alla parola che canta, che crea nel e col canto. Quella degli Indios Makiritare del Venezuela, per esempio, come la racconta Edoardo Galeano nel libro "Memoria del fuoco": "La donna e l'uomo sognavano che Dio li stava sognando. Dio li sognava mentre cantava e agitava le sue maracas, avvolto in fumo di tabacco (...) e Dio, sognando, li creava, e cantando diceva: - Rompo quest'uovo e nasce la donna e nasce l'uomo".
Crea cantando, nella cosmogonia immaginaria di Tolkien ("Il Silmarillion"), il dio Iluvatar, che "creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero (...) e parlò loro, proponendo temi musicali, ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto. (...) Quindi parlò agli Ainur, li condusse con sé nel Vuoto, e disse loro: ‘Guardate la vostra musica!'. Ed essi scorsero un nuovo mondo reso visibile al loro cospetto".
Gli aborigeni australiani di cui racconta Bruce Chatwin ne "Le vie dei canti" credono che ogni cosa sia stata creata da un Antenato, che si svegliò, "aprì la bocca e gridò ‘Io sono!'.
(...) Ogni Uomo del tempo Antico mosse un passo col piede sinistro e gridò un secondo nome per il pozzo, un altro passo col piede destro e gridò un terzo nome per i canneti, un altro passo col piede sinistro e gridò un secondo nome per l'eucalipto; si voltò a destra e a sinistra, chiamò tutte le cose alla vita, e col loro nome intessé dei versi. L'Australia intera poteva essere letta come uno spartito. Non c'era roccia o ruscello che non fosse stato cantato, o che non potesse essere cantato. (...) Gli antenati che avevano creato il mondo cantandolo erano stati poeti nel significato originario di ‘poiesis', e cioè creazione".
E questa creazione perdurava fino a poco tempo fa, a quanto pare, perché ogni aborigeno che compiva il tradizionale walkabout, sterminato pellegrinaggio attraverso l'intero continente, "compiva un viaggio rituale: calcando le orme del suo Antenato, cantava le sue strofe senza cambiare una parola né una nota, e così ricreava il Creato. Certe volte mentre porto i ‘miei vecchi' in giro per il deserto, capita che si arrivi a una catena di dune e che d'improvviso tutti si mettono a cantare . ‘Che cosa state facendo?', domando, e loro rispondono: ‘Un canto che fa venir fuori il paese, capo. Lo fa venir fuori più in fretta'."
Con gli aborigeni di Chatwin il cerchio si compie: il mondo, che è stato creato dal dio con la parola ritmata e cantata, deve essere continuamente ricreato dall'uomo con le stesse parole.


La poesia "fa" bene

Le stesse parole ritmate e cantilenate che "fanno mondo", che agiscono sul mondo per crearlo e ricrearlo, agiscono anche sull'uomo. Le formule magiche che, associate a precisi atti e gesti, "fanno" passare o venire mali e malanni nella tradizione nuorese sono chiamate "berbos", verbi, parole.
Le parole in rima e ritmo agiscono sul corpo ma anche sull'anima. Stralcio il brano che segue da un mio breve saggio apparso in quattro puntate sulla rivista "Vita scolatica".

Mi sono chiesto perché le filastrocche, le belle filastrocche fatte bene, impongono il loro speciale incanto a chi le ascolta, a chi le dice, a chi le gioca, a chi le legge e a chi le fa. Perché ci ricordano i primi ritmi del nostro corpo, il battito del cuore e l'onda del respiro? Perché echeggiano le prime parole che abbiamo udito in vita nostra, nella lallazione e nelle rime di culla? Perché riflettono le prime cadenze del mondo, il pendolo di giorno e notte, di stagioni e lunazioni, dei moti degli astri?
Tutte queste cose e anche altre. Nel suo libro "Il viaggiatore notturno" Maurizio Maggiani racconta di una festa in un villaggio tuareg sperduto nel Sahara, e di ragazze dalle unghie laccate di nero che suonano grandi e cupi tamburi di pelle di capra. La guida tuareg Jibril spiega che "... quei tamburi imitano la voce del cuore. Quei tamburi vengono suonati ogni volta che è necessario dare forza al cuore di qualcuno. Quando nasce un bambino, ad esempio, per il suo cuore e per il cuore della famiglia che lo crescerà. O quando un malato è così grave che il suo cuore non è più sufficiente a tenergli in petto la vita e gli è necessario un cuore esterno che lavori al posto del suo, troppo affaticato. Quando il tamburo suona per un bambino, dice ancora Jibril, al suo suono si abbeverano e traggono forza anche i cuori dei giovani che vogliono innamorarsi. ‘Abbeverarsi', ha usato proprio questa parola".
Così è anche per le filastrocche, che sono parole che hanno un cuore. Precisamente, un cuore di tamburo. Anche loro col loro battere incoraggiano, intonano, assecondano il battere dei cuori che ne hanno bisogno. Per questo - pur senza aver più il vigore diretto che conservano in culture lontane, e nella nostra in anni lontani - ancor oggi le parole col cuore di tamburo, se quel tamburo è suonato bene, danno un piacere a chi le ascolta che va oltre ogni analisi.



La poesia "fa" fare

In molte saghe e leggende s'incontra la figura del mago apostata o rinnegato, che ha tradito la purezza originaria degli scopi ultimi della sua magia e l'ha messa al lavoro per scopi molto più pratici e meno puri al servizio di qualche re o signore. Lungi da me l'intenzione di applicare queste severe condanne ai valenti copywriter della pubblicità, che ovunque è redenta e lodata come ottava musa (o nona, ho perso il conto): è solo per scherzo che si potrebbero definire poeti transfughi, che hanno venduto le loro rime (e la loro firma) al "brand". Fatto sta però che filastrocche, formule verbali ritmate e simmetriche, reiterate ed eufoniche, spesso esplicitamente rimate, sono alla base di molti slogan pubblicitari. Nei giorni in cui si è tenuto il convegno a cui questi atti si riferiscono, nei manifesti della campagna elettorale per le politiche del 10 aprile 2006 (giorno in cui scrivo questo contributo) si potevano leggere due slogan proposti dai due opposti schieramenti: uno diceva "Italia, forza!" e l'altro "Non un contratto con gli italiani, ma gli italiani con un contratto".
Probabilmente i due poli si servivano da uno stesso poeta transfuga, forse molto in voga.
Saltano all'occhio le filastrocche dei contrari, le filastrocche speculari, ribaltate, "upside down" e le cento varianti del genere:

Un due tre
Il papa non è re
Il re non è papa
La pera non è rapa...
(tradizionale)

Povero mondo, tutto s'è rotto
Ciò che era sopra adesso sta sotto
Ciò che era dietro adesso è davanti
Ciò che era uno adesso son tanti..."
(mia, inedita)


E via così a far saltare i bambini, cioè noi, sulle ginocchia.
Le filastrocche "fanno". Fanno fare, fanno giocare, fanno comprare: fanno votare. Se così non fosse, i poeti transfughi nella pubblicità non le userebbero così tanto.


Sono solo canzonette?

Per questo mi è suonato strano sentir dire, nel corso del convegno, a difesa ed elogio di Gianni Rodari, che egli "non era solo uno scrittore di semplici filastrocche, ma anche giornalista, inviato speciale", etc. Bene, senza dubbio era così: ma perché Rodari viene ricordato in misura incomparabilmente maggiore per le sue "semplici filastrocche" che per i suoi articoli e servizi da inviato speciale? Perché le filastrocche, soprattutto quando son belle, non sono mai solo "semplici filastrocche".
La filastrocca della lettera "L", nel mio libro "Mammalingua. Ventuno filastrocche per neonati e per la voce delle mamme", è intitolata "Lingua", e dice così:

Mamma lingua batte e bacia parolina
Fa li-là e fa li-là tutta mattina
Ora sembra solo un tonto girotondo
Ma parolina dopo fa girare il mondo


Le filastrocche sono giocattoli, è vero. Stanno alle poesie come i giocattoli stanno agli oggetti: copie in sedicesimo, fatte per un uso ludico, simulato, non "vero" del mondo.
Ma i giocattoli sono in realtà dispositivi potentissimi. Nelle mani dei bambini sono modellini del mondo e dell'umano operare sul mondo. Sono modelli e progetti di futuro. Oggi sembrano solo "semplici" giocattoli ("solo un tonto girotondo", dice la filastrocca di cui sopra), per esempio, fuciletti o monòpoli: domani potrebbero essere Kalashnikov o scalate e fusioni societarie; oggi sembrano solo videogame di guerra "shoot-them-all", domani saranno quasi identici display e joystick ("bastoncino della gioia") sulla plancia di mezzi corazzati e caccia occidentali in medioriente.
Le "semplici filastrocche" sono giocattoli, ma possono essere giocattoli potenti: altrimenti quelle di Gianni Rodari non sarebbero state censurate o glorificate, anziché semplicemente scordate come i suoi articoli.
Come ogni cosa potente, le filastrocche possono essere depotenziate in due modi: azzerandole o moltiplicandole. Nella scuola, per esempio, esiliandole dai programmi come inezie poco costruttive; o al contrario sommergendo le classi di inondazioni di filastrocche di ogni tipo, belle e brutte, purché facciano rima. Purtroppo il mondo editoriale si presta a questa inflazione, soffocando di offerta la timida e incerta domanda, con effetto inevitabile di calo del potere d'acquisto. E allora che fare?


La rosa che vi aspetta

Se non ci aiuta il mercato, filtrando all'origine (editoria) il flusso esondante di filastrocche, e se non può venirci in soccorso Gianni Rodari, indicandoci quelle belle e quelle brutte, allora dovremo farlo noi. Dovranno farlo gli insegnanti. Concludo con un altro breve stralcio dal mio saggio citato sulla rivista "Vita scolatica" di Giunti Scuola.

Voi insegnanti dovete essere lo sguardo che dà alle rose "l'aspetto di fiori che sono guardati". Dovete fidarvi del vostro sguardo, e solo di quello. Le filastrocche che porgete ai vostri bambini devono semplicemente piacere a voi. Sembra una cosa scontata applicare con rigore delle scelte, ma in realtà è difficile; sembra una cosa difficile possedere un criterio di scelta, per esempio un gusto poetico, ma in realtà non lo è.
Il gusto non è un problema: cresce da sé, occorre solo pazienza e fiducia. La pazienza di cercare e cercare, finché si trova una filastrocca che si apre sotto i vostri occhi come una rosa superba; e la fiducia che quella rosa esiste, anche se vi fa aspettare: anche lei sta aspettando voi, e non vale la pena accontentarsi per stanchezza e portare ai bambini una qualunque, tanto son tutte uguali. Tutte uguali vi sembrano, finché non trovate "quella". E quella, quando la trovate, vi educa il gusto: il gusto fa un salto, si assesta su quella, e per tutte le altre seguenti vi dice "acqua" e "fuoco".
Ma non è solo l'occhio del giardiniere, che occorre nella cerca delle rime belle: è la sua mano. L'occhio le scorge, la mano le porge. I vostri bambini hanno bisogno di bellezza, ma non di bellezza qualunque: di bellezza scovata e coltivata e offerta con le vostre mani. Quelle filastrocche brilleranno tre volte: della bellezza intrinseca e loro, quanta ha saputo infonderne il loro poeta; della bellezza che il vostro sguardo e la vostra mano che le porge accende e accresce; e finalmente di quella che straborda e innaffia dallo sguardo potente, proiettore di bellezza, dei vostri bambini.





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Questa pagina è stata creata il 10 aprile 2006, e modificata l'ultima volta il 15 marzo 2009

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