NOTE SULLA TERAPIA DELL'AUTISMO

(questo commentario fu scritto da Laura Strocchi in risposta all'articolo "In che la psicoanalisi può contribuire alla terapia dell'autismo?" di Romeo Lucioni)

 

Ricevo l'ultimo bollettino dell'ANGSA e leggo con interesse i vari articoli che mi sembrano un punto di vista importante su cui riflettere a lungo.

Mi colpisce il fatto che perdura e si consolida l’atteggiamento di critica e di rifiuto da parte dei genitori di bambini autistici nei confronti della psicoanalisi. E vale la pena che ci fermiamo a considerare una posizione così intensamente sentita.

Si sono battuti strenuamente perché l’autismo fosse riconosciuto come handicap unicamente organico, e si battono per tutto ciò che offre una soluzione tecnico-scientifica, ben inquadrabile come una soluzione medica, educativa, comportamentale insomma. Si sentono rassicurati nel momento in cui hanno una diagnosi in mano con la speranza che ad essa si colleghi un determinato percorso riabilitativo, che produca un certo "funzionamento" del loro figliolo o figliola: certo è che il più delle volte restano i promotori (sic!) di questo funzionamento, assolutamente convinti e coinvolti, salvo poi confrontarsi con la disperazione quando si avventurano a parlare del "dopo di noi"…

Questa disperazione persiste tacita come un sottofondo e si trasmette inconsciamente al bambino, riproponendo la chiusura… e il circolo riprende a chiudersi, loro malgrado, su loro stessi…

E’ forse per fuggire da questo circolo chiuso che il bambino ha quelle sue terribili crisi di fuga? Che batte la testa contro il muro? E’ forse il muro di questa chiusura su se stessi, c’è qualcosa di una impotenza ad uscirne che li tocca tutti? E’ per non sentire questa ansia che circola, e non solo nei genitori certamente, che lui si chiude le orecchie ? Non dobbiamo dimenticare che genitori e bambino, nel loro drammatico quotidiano, sono presi nello stesso vortice, si trovano impossibilitati a contrapporsi: la distanza tra loro è minima, se non nulla.

Quante volte mi son posta queste domande, con la tensione di riuscire a dare una risposta … eppure, di fronte ad una disperazione tanto grande che unisce in una situazione di alta tensione continua due poli, ahimè, non opposti – genitori e figli autistici – sento che non è dando una spiegazione, o peggio ancora una interpretazione, che io potrò inserirmi a far da terzo tra quei due poli uniti da una corrente non alternata, per loro mortifera.

In realtà penso che quando un genitore di bambino autistico comincia a prender posizione "Sposiamo una teoria organicistica, troviamo un metodo…" in realtà lo vedo come uno che sta staccandosi da quella fusione-tensione.

Il punto delicato è che così il genitore si trova ad occupare la posizione di "colui che sa " sul bene del figlio, quindi uno che può condurlo… e il rischio è di ricadere in un legame nuovamente imprigionante, che però produce dei risultati.

E' possibile però che, a ben seguire questo percorso, il bambino acquisisca delle "tecniche" che man mano andranno a consolidare la sua opinione di se stesso e così lui acquisti più consapevolezza del suo posto nel mondo.

Potrà da lì accedere a quella che F. Dolto chiama "forza del desiderio di vivere"? Il narcisismo primordiale nella sua prorompente carica vitale? Potrà così sentirsi

capace di entrare in una relazione poiché vi sta portando qualcosa di suo ? Siamo qui al passaggio da schema corporeo a immagine inconscia del corpo.

E' importante , se il bambino arriva a questo punto, che i genitori abbiano coraggio e fermezza per farsi da parte e aspettare - e su questo punto, "dell'aspettare donando uno spazio vuoto", è importante che trovino la condivisione e il sostegno del mondo esterno, terapeuti inclusi.

Un posto vuoto! Eccomi qui a dire che, benché anch’io senta, e profondamente, il desiderio di riuscire ad appoggiarsi ad una teoria che finalmente porti un po’ di luce sulle incertezze, ho l’impressione che il messaggio di questi bambini sia proprio quello di sollecitarci a stare con loro, in uno spazio di accoglienza umana che si trova al di là delle teorie. Perché la distanza tra loro e noi sia fondata su una implicazione personale che si produce al di là del nostro sapere.

Provassimo magari ad esporci, come suggeriva Maud Mannoni quando scriveva che "l’essenza della clinica è sentire ciò che la teoria non dice" Ad un certo punto ella aveva indicato il carattere narcisistico della teoria e scriveva "La teoria non è troppo sovente quel bel corpo narcisistico che acceca l’analista per fargli dimenticare i suoi lutti? ".

Con questo non voglio dire che non si debba mai tentare una messa a punto teorica, però per quanto mi riguarda voglio dire ben chiaro qui che mi avvicino in punta di piedi, e con molta incertezza, ad ogni "messa a punto" teorica…

 

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Non risponderò in queste pagine al quesito "In che la psicoanalisi può contribuire alla cura dell’autismo?".

Piuttosto cercherò di dire cosa ho ricevuto io dalla psicoanalisi vista non come un bagaglio teorico, appreso sui libri, ma vista come esperienza vissuta nella fluttuante, fluida e fertile reciprocità della relazione psicoanalitica di transfert, perché oggi io possa pensare di portare un contributo che faccia da terzo tra quei due poli tragicamente uniti nell’autismo.

Una esperienza, quella della relazione psicoanalitica, che ha improntato il mio modo di stare al mondo e che ora mi trattiene dall’intervenire come "una che sa", cioè una che interpreta o che offre spiegazioni o che sa trarre conclusioni… forse so essenzialmente porre e pormi delle domande, apprezzare il dubbio e con esso cercar di lavorare.

In realtà posso dire che, benché io sia stata formata da un’analisi personale, la mia preparazione teorica ha molto lentamente accompagnato la spontaneità della pratica che intanto fioriva, passando per l'attenzione, la vigilanza e per l’amore per quei bimbi prigionieri e per i loro genitori .

Per questo ho vissuto l'impegno di raccontare la mia esperienza ne "Il posto vuoto": un dovere di testimonianza di una possibilità che vedevo aprirsi, perché altri potessero riflettere e utilizzare, correggere e rinnovare …

"Il posto vuoto" vuole dire offrire al bambino stesso anche e soprattutto quel "vuoto di sapere" che fa di me una persona esposta, suscettibile a cambiare in seguito alla relazione evolutasi proprio con quel bambino lì.

Questo trasforma la relazione in un "luogo vero" perché mantenuto disponibile al cambiamento di entrambi. Potremmo anche chiamarlo un luogo di incontro da inconscio a inconscio, dove io, terapeuta, mi espongo per prima, e per lungo tempo mi trattengo ben bene dall’interpretare ciò che quel bimbo dice o non dice... piuttosto mi adopero per accogliere ogni segno, ogni "figura del reale", che lui lasci intravedere per rimandarglielo in una specie di continua costruzione speculare affinché lui riesca a riconoscersi nella nominazione e nello sguardo che gli fanno da specchio: ecco che così non ho saturato di un sapere mio, un sapere parlato nella sicurezza, ben esposto. Al contrario ho accettato che sia lui a condurre un'esperienza che consente una piccola distanza iniziale da quel sapere reale, pur indispensabile, a cui sono costretti i suoi genitori, nella loro continua tensione a sopravvivere.

Ed il mio cruccio è proprio lì: un intervento esclusivamente tecnico, educativo, di apprendimento funzionale non è sufficiente, va accompagnato da una apertura emotiva, affettiva, proposta con un dosaggio minimo… affinché il nascente soggetto possa incoraggiarsi, e sentire l'appello della relazione interpersonale.

E mi chiedo perché ascoltiamo in questi genitori un tale ripiegamento difensivo da non voler pensare altra origine che non sia quella fisiologica. Dobbiamo pensare che qualcosa di dolorosamente insopportabile sia stato e sia ancora veicolato dalle nostre parole, parole di professionisti, protetti dalla nostra posizione, certamente non così esposti e vulnerabili nella propria essenza di persona come si trova ad essere un genitore?

Leggiamo in "In che la psicoanalisi può contribuire alla cura dell'autismo?":

In tutta questa presenza del terapeuta vorrei che fosse inclusa quella porzione di vuoto, cioè di "non sapere", che è forse quella di cui il bambino ha più bisogno.

Bi-univocità, per me, vuol dire che l’analista mette a disposizione anche il fatto di non saper tutto, lui che nella sua esperienza personale della relazione di transfert ha già fatto i conti con lo scivolamento del suo desiderio…

Relazione di transfert vuol dire che il terapeuta non parla da una posizione protetta, ma si espone, vulnerabile e duttile nella propria essenza di persona, il suo atteggiamento non sarà sentito esterno, crudelmente "saputo" e giudicante…

Dunque è vero che si crea un "ponte" attraverso cui passa "una riapertura all’identificazione". Lasciarmi guidare da questo è il massimo che io possa concedere a me stessa. E se quel bambino avesse "solo" bisogno – senza saperlo - di ritrovare qualcosa che ha pur ricevuto ma che non sa riconoscere come suo, qualcosa - il desiderio di esistere - che "in siste" già in lui !

Allora se, nell’ambito della relazione psiconalitica, il mio atteggiamento è quello di una che si lascia "lavorare" dalle parole che la raggiungono, anche per il tramite di un bambino che non parla, ma per cui parlano i suoi genitori, ecco, se il mio atteggiamento è quello, allora preferisco che io, proprio in nome di quella formazione psicoanalitica, sia capace di attendere di essere trovata, di essere vista attraverso il lavoro. In questo modo forse codesti genitori disperati potrebbero sentirsi meno soli in quella loro posizione di "genitore presente" che occupano così concretamnete.

Forse in passato – ma attenzione che non sia anche oggi - c’è stata troppa precipitazione, e proprio da parte degli psicoanalisti, ad intervenire in questo legame già carico di tensione per proporre un legame diverso - ma altrettanto carico e magari anche escludente quella storia che è stata precedentemente scritta da loro, nella loro unione, per inglobante che essa sia stata - e questo senza pensare che i genitori non scattino subito in difesa di se stessi e del loro figliolo?

Nell'approccio con un bambino autistico sempre vediamo la distanza che corre tra le parole così incisive e determinate della teoria e quanto emerge dalla pratica, molto più fluttuante, per fortuna.

In realtà nella pratica dell'E.I.T. si passa per i veli, per i cerchi, per i movimenti del corpo, i bastoni, la musica, c’è sguardo e presenza: suggeriscono un’intenzione nascosta, da scoprire, lasciano qualcosa di non detto, di sottinteso…e perché mai se non perché il terapeuta sta facendo spazio e attendendo che il "tempo logico" di quel bimbo possa scorrere e si evolva.

Allora, ritornando ai tre tempi di Lacan, troveremo nell’ordine:

Il terapeuta in attesa vigile, capace di tenersi in un posto di "non sapere"

che costantemente indica il posto vuoto disponibile per l’altro.

quasi di sorpresa, inizia il suo proprio movimento

Se il tempo logico del paziente è tempo di attesa per l’analista, ecco… oggi come oggi, suggerirei la stessa posizione di attesa vigile e disponibile e, in questa situazione di ricerca, questa mi pare già una buona posizione anche psicoanalitica.

Ritengo giusto e doveroso che continuiamo a lavorare, a raccogliere ed offrire il racconto delle nostre esperienze, sostenendoci e confrontandoci anche con quanto è già stato enunciato dalle teorie psicoanalitiche e rifacendoci il più possibile alla nostra propria esperienza di analisi.

Certo, mi affascina e mi aiuta lasciarmi assorbire dalle teorizzazioni altrui, soprattutto se sostenute da copiose annotazioni cliniche (per esempio, in questi mesi sto rileggendo F. Dolto e anche la già citata G. Michaud) però so che veramente ritrovo me stessa nel momento in cui passo al lavoro con i miei "allievi".

Per esempio, seguendo il filo di pensieri che è partito dalla ribellione dei genitori, e poiché poco fa parlavo di risultati sia positivi che negativi, considero un risultato negativo quello che ho sentito esprimere come "Il bambino chiedeva di venire, ma i genitori hanno deciso di non portarlo più". Questo vuol dire che qualcosa nella nuova relazione non stava includendo, nell'amore, quei genitori che invece sono uniti al loro bambino da un vincolo profondo di sopravvivenza ed essi si sentivano esclusi da quello specchio in cui essi stessi si erano sempre riconosciuti accanto al figlio.


Qualcosa della posizione del terapeuta, sta forse interferendo in modo troppo incisivo con quella dei genitori? "Interferire" è proprio da vedersi nella sua etimologia più stretta "inter fero" cioè "portare dentro", ma anche "ferire dall'interno" !

Perché non prendere, in quanto terapeuti, quel posto che ho già detto a Varese "decentrato", cioè mettersi dalla parte del mondo, del sociale , quel sociale che circonda e sostiene e accoglie e guida con le sue regole. Da quella posizione potremmo offrire parola - che vuol dire offrire una relazione d'amore - o, per cominciare, anche solo sguardo "parlante" che li riconosca insieme nello specchio .

Poiché penso che sia vero che mentre si dà nome a quel bambino e al mondo che lo accoglie, facendoglielo sentire un mondo di linguaggio e di relazione… ecco, penso che lì si stia ben mettendo in gioco, e fin da subito, quello che Lacan ha chiamato "il Nome del Padre".

Cioè quel nome che organizza la sua esistenza, che rappresenta sia padre che madre in modi diversi; che è anche quel cognome che lui porta, con cui lo iscriviamo, e che va a toccare la presenza del bambino nella storia… ma anche sono quelle parole pronunciate secondo una regola linguistica sociale, che indicano una appartenenza, una legge, una obbedienza… qualcosa che, nella mente del terapeuta, mantiene la presenza di papà e mamma … poiché essi - portandolo a lui - gli portano anche qualcosa di se stessi.

Ricordo un prezioso scambio a cui ho assistito: un padre e una bambina che chiedevano al terapeuta di esporsi ad entrambi come un "padre all’opera", e intanto chiedevano al terapeuta di tenere il suo posto.. E qui possiamo leggere questo suo sia nel senso di "suo posto di terapeuta" che suo nel senso di "posto del padre"…un posto del padre che, non dobbiamo dimenticare, veniva avallato dalla bambina, poiché veniva innanzitutto concesso dal padre stesso, che si sentiva incluso pure lui.

In altre parole: la bambina accettava la figura del terapeuta presso di sé perché egli era anche presso il padre, come figura affettiva, emotivamente tesa e rispettosa, e accogliente della persona del padre in primo luogo, solo così il terapeuta poteva accedere alla relazione con la bambina.

Il fatto di concedere un posto al terapeuta mette il genitore, sia la mamma che il papà, in posizione di colui che dona, quindi una posizione finalmente che annoda simbolico, reale e immaginario… in cui quel genitore si può sentire buono, prezioso … e c’è qualcuno che ne può testimoniare finalmente!

Avevo fatto un tempo un lavoro che a me sembrava buono e che partiva dal titolo di Lacan "Les noms du père" per leggerlo come "Les non du père", cioè "I no di papà " che diventava "I nodi papà!" esclamazione che nasconde anche un anagramma "I doni papà!"

Un’esclamazione di richiesta e di attesa, ecco: in quel posto "di papà che non teme di donare" c’è finalmente un padre simbolico, interiorizzabile. E l’analista? Lo vedo in secondo piano, unicamente come colui che ha "con-sentito" che il nodo si formasse.

Quante volte mi sono chiesta se non è a questo che ci confronta all’autismo, luogo indefinito eppure inglobante, pieno e compattato come un "buco nero", dove ogni oggetto sarà compresso fino a non più esistere con i propri confini, quindi con un minimo di separazione possibile.

Forse è vero che, per offrire una prima distanza, che sia anche via di accesso, è meglio intervenire grazie ad una realtà attiva (come l’equitazione o le danze con i veli o una lingua straniera) che consentano una percezione nuova, anticipante un tempo logico possibile.

Ed è qui, pensando a questa attesa anticipante dell’analista, che mi colgo come $ (soggetto barrato) cioè, come dice Lacan, quel Soggetto - dell’inconscio - che si ritrova barrato, cioè assoggettato a quella contrapposizione di forze (il punzone- rappresentato dal piccolo rombo) che lo conduce davanti ad (a) - oggetto del desiderio, posto destinato ad essere vuoto perché ci possa essere successione di oggetti d’amore, e non incollaggio duale. Eccola dunque qui quella che Lacan chiama la "formula del fantasma" - tanto ben detto in inglese, the scenary - in cui il Soggetto dell’inconscio trova la sua forza di movimento: $ punzone (a).

Ma allora, se io mi colgo qui come $, Soggetto barrato, tanto vale che mi interroghi anche sul mio desiderio (a) … che è un desiderio di incontrare i miei allievi e i loro genitori su quel loro terreno scivoloso in cui sembra non poter esistere contrapposizione tra soggetto e oggetto.

Possiamo dire che c’è fusione del soggetto dell’inconscio con il suo oggetto di desiderio?

Allora possiamo anche dire che l’oggetto non ex-siste, bensì che esso "soltanto" in-siste ed è lì che desidero incontrarli, perché questo desiderio che "in siste" osi existere, apparire, spostarsi fuori nel mondo.

Desidero non temere di portarvi la mia propria perdita di quell’oggetto immaginario è il mio "sapere", quello che si manifesta, che si impone, che dice "io so", quello che per fortuna resta imbrogliato da un lapsus, da un atto mancato, da quel moto immediato che ci coglie impreparati e che altro non è che il modo dell’inconscio di sorprenderci per poter ridere un po’ di noi.

Ed ecco che mi ritrovo "posto vuoto" di sapere, eppure vigilante e disponibile … e vigilante qui vuol dire, per me, una che vegli sul rapporto umano, sul legame, perché esso exista e non solo insista, ma si possa manifestare ed essere accettato con tutta la gamma degli alti e dei bassi, di certezze ed incertezze, in una sempre sorprendente oscillazione tra soddisfazione e frustrazione .

Dove la frustrazione per il paziente a volte può proprio essere rappresentata dal fatto del non sapere dell’analista: essere una che ha la forza di procedere anche se ogni tanto balbetta, o incespica … questo spero innanzitutto di riuscire ad "in-segnare" ai miei allievi!

10 maggio 2001

Laura Strocchi


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