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LA TRADOTTA VERSO EST
Il mattino dopo già si
corre nella pianura padana.
Il tempo passa abbastanza velocemente
anche se le soste sono molte: ma così si ha un motivo per sgranchirci
le ossa, per lavarsi, per il rancio che viene servito caldo al vagone-cucina.
Il guaio è la notte: si stenta a chiudere gli occhi, pigiati per
terra o distesi sulle strette pance di legno.
La seconda sera, quando ci sistemiamo
per dormire, abbiamo già oltrepassato Verona e stiamo percorrendo
la Val d'Adige.
Una brusca frenata, un sobbalzo
del vagone e mi sveglio. Apro uno spiraglio del portone e vedo davanti
la scritta "BRENNERO".
Qualche metro più in là due ferrovieri parlano in tedesco.
In quel momento mi rendo conto di cosa sto lasciando e mentre il treno
riprende lentamente il suo andare, il pensiero di casa e dei miei cari
mi serra la gola. Sto lasciando indietro i miei veri anni, in fondo facili
e felici, e sto andando verso non so che cosa e non so fino a quando. Mi
rincuora solo sapere che mia madre prega per me. Lo so, tanti dicono che
è irrazionale credere in Dio perché Dio non esiste: ma la
fede non ha mai avuto bisogno della ragione; le preghiere di mia madre
mi danno certezza e protezione e mi sento sicuro che tornerò.
I pensieri e i ricordi premono
più forte della stanchezza e resto a lungo, con gli occhi aperti,
a guardare un riflesso di luce su una sbarra della finestra: chissà
da dove viene.
Ci sveglia il sole che illumina
colline ondulate a perdita d'occhio, scuri boschi, immensi e grandi prati
ben pettinati di un verde brillante e luminoso: ci scorrono davanti lindi
villaggi accoccolati attorno ad agili campanili. Tutto è pulito,
in ordine, come appena lucidato.
Alla stazione di Monaco di Baviera
la tradotta viene stranamente condotta sotto la pensilina principale in
primo binario. C'è una sorpresa. Gerarchi fascisti in alta uniforme,
petto e mento in fuori, sguardo d'acciaio e testa alta, tronfi e teatrali
come sempre, ci salutano romanamente mentre Giovani Italiane e Nobili Crocerossine
ci offrono vino, caffè, cioccolata e biscotti fra sorrisi e saluti
calorosi con il sottofondo di inni fascisti dagli altoparlanti. Ci sembra
di partecipare a una festa, ma sarà anche l'ultima.
D'ora in poi ci saranno soltanto
interminabili fermate ai margini delle stazioni, in corrispondenza degli
scali merci o su binari morti dove tende a ricostituirsi la routine della
vita di caserma. Il caffè la mattina, il rancio, i sergenti che
sbraitano i loro soliti ordini, gli attendenti che corrono, con bricchi
e tazzine, dai loro ufficiali, i furieri sempre alla ricerca di dati e
sempre degli stessi, gli ufficiali che compaiono ogni tanto per vedere
come va e magari per brontolare che non siamo a posto con la divisa.
Per la notte ho risolto il problema:
con del robusto filo di ferro ho appeso il telo da tenda alle inferriate
di due finestrelle e così dormo in una comodissima amaca.
Intanto la tradotta ci porta
verso nord, nel cuore della Germania. Quando attraversiamo qualche villaggio
donne e anziani ci guardano con occhi tristi, qualche bambino saluta dalla
strada sorridendo: un giorno il treno costeggia un bellissimo lago incastonato
nel verde, turisti e bagnanti dalla spiaggia lontana ci salutano gaiamente
e noi rispondiamo a gran voce, con allegria. Tutto sembra così tranquillo,
così in pace.
La situazione cambia qualche
giorno dopo quando, oltrepassato Francoforte sull'Oder, la tradotta punta
decisamente verso est. Le soste si fanno più lunghe perché
dobbiamo dare la precedenza alle tradotte tedesche, e sono tante. File
interminabili di convogli carichi di carri armati, cannoni, autocarri,
munizioni, vettovaglie e truppa. Sbalordiscono soprattutto i carri armati
e i cannoni: sono enormi. Al confronto di questi panzer i nostri carri
armati L/6 da 3 tonnellate, grandi come una Topolino, si rivelano per quello
che sono: "scatolette di latta". I treni continuano a passare
quasi ininterrottamente. Riesce perfino difficile capire da dove saltano
fuori tutti quegli armamenti e tutti quei soldati. Hanno invaso l'Europa,
ormai sono sparsi dappertutto, dalla Norvegia alla Francia, dai Balcani
all'Africa, sono quasi a Mosca, accerchiano Leningrado, stanno attaccando
nel Caucaso e ce ne sono ancora. Danno una enorme impressione di forza
e di inesorabilità: è una macchina che procede stritolando
tutto. E così, secondo il duce, dovremmo fare anche noi ma con i
muli e i fucili '91. Per la prima volta mi viene da dubitare delle parole
del duce. Veramente lui ha sempre detto che siamo un popolo di guerrieri
e che ci sono 8 milioni di baionette, ma e il resto?
Mentre passano, dalle loro carrozze,
i tedeschi ci guardano come se ci vedessero per la prima volta. Forse credevano
che dietro alla mascella quadrata del dure, propagandata evidentemente
anche nel Terzo Reich, ci fossero carri armati e cannoni. Invece - sorpresa,
sorpresa - ci sono soltanto le code dei muli.
Siamo entrati in Polonia e subito
abbiamo incontrato i primi segnali della guerra. Su binari morti, alcuni
vagoni sventrati e rotaie divelte, parlano di bombardamenti. Lungo le strade
che fiancheggiano la linea ferroviaria sono abbandonati relitti di autocarri
militari e di cannoni. I pochi civili, per lo più vecchi e donne,
hanno lo sguardo triste, rasserenato e si ritraggono spauriti al passaggio
dell'immancabile pattuglia di militari tedeschi che presidiano ogni centro
ferroviario.
Un giorno, in sosta in una grossa
stazione, vediamo lungo i binari alcuni gruppi di donne che raccolgono
da terra carte e barattoli vuoti lasciati,
probabilmente, da altre tradotte. Sono guardate a vista da due tedeschi
armati che le incitano a voce, urlando parole incomprensibili se qualcuna
si rialza o si ferma un attimo a guardare verso di noi. Hanno tutte, appuntato
sul petto, un marchio giallo con la lettera "J". Sono ebree.
Scendiamo dalla tradotta ma non possiamo avvicinarle perché i tedeschi
ci allontanano con fermezza. Intanto la tradotta si muove e dobbiamo risalire.
Qualche donna si alza e protende le mani, come a chiederci qualcosa, ma
oramai sono lontane e le vediamo sparire oltre la curva. Insomma questa
guerra non lascia fuori nessuno, nemmeno le donne, penso, ma poi mi rendo
conto che il problema non è così semplice. Quelle donne sono
schiave.
La questione ebraica. Ricordo
che anche in Italia, nel 1936, erano state emanate delle leggi "per
la difesa della razza ariana". Frequentavo in quell'anno la quinta
ginnasio e con noi c'era un ragazzo di nome Cohen. Un giorno venne in aula
accompagnato dal preside che ci disse: "A causa di una legge recente,
il vostro amico non può proseguire gli studi perché non è
di pura razza ariana. Però, siccome in Italia di razze ce ne sono
molte e piuttosto mescolate, non sono sicuro di quanti fra voi siano di
pura razza, per cui dovrei, forse, lasciarvi tutti a casa e chiudere la
scuola. Nell'incertezza, preferisco tenervi tutti, compreso il vostro amico
Cohen, che potrà venire in questo liceo finché gli farà
comodo"
Era la prima volta che sentivo
parlare di razze e di ebrei e questo mi meravigliò molto perché
Cohen, a parte il nome un po' strano, era un ragazzo alto, ben messo, coi
capelli biondi e non mi pareva proprio di un'altra razza. In Italia, d'altra
parte, le leggi sono sempre state fatte per essere eluse. Cohen fini il
ginnasio, frequentò anche il liceo senza che nessuno gli desse più
fastidio, e io mi dimenticai ben presto dell'episodio.
Per la verità. dopo la
nostra entrata in guerra, si riprese a parlare e scrivere di razza ariana
e di ebrei, ma io non ho mai dato eccessivo peso alla cosa: mi pareva,
più che altro, tutta una questione di propaganda.
Purtroppo abbiamo ancora l'occasione
di incontrarli, altri gruppi di donne ebree costrette a lavorare sotto
la minaccia delle armi: levano le mani a implorare da noi qualcosa e, quando
i loro guardiani non vedono o fingono di non vedere, diamo loro un po'
di quello che abbiamo, del pane o una scatoletta di carne. Ma questo gesto
non basta a sollevare il nostro spirito. perché nel cuore portiamo
con noi quegli occhi pieni di paura, su quei volti smunti, che ci ringraziano
ma non riescono a sorridere.
Perché? Cosa mai avranno
tatto di grave queste povere donne per meritare una sorte così avvilente?
Ne parliamo fra noi ma non riusciamo a farcene una ragione.
Ne parlo anche con un mio vicino
di panca: si chiama Rakcevic, è istriano di Aidussina e parla uno
strano dialetto perché sa parlare bene solo lo sloveno, che è
la sua lingua. Siamo diventati amici e, nei momenti di sosta, qualche volta
camminiamo lungo i limiti degli scali merci: lui riesce a capire e a farsi
capire dalle donne che abitano le casette ai margini della ferrovia. Un
giorno. mentre torniamo alla tradotta, mi dice: "Mi xe an domandado
de povare femine ebree e mi xe àn dito che tuti ebrei àn
segnal gialo sui vestiti
"Ma perché?"
Gli chiedo.
Solo parchè xe ebrei
- mi risponde - e mi xe àn dito anche che i tedeschi xe àn
portado via, sui treni, squasi tuti omeni ebrei e dopo, gnissun de casa
sua sa più gnente de lori".
Capisco che questa gente è
trattata male ma penso che li porteranno a lavorare nelle fabbriche, al
posto dei tedeschi chiamati alle armi. Non mi sfiora nemmeno il pensiero
di quella che sarà, purtroppo, la sorte di molti milioni di ebrei.
Intanto la vita di tradotta
continua e i giorni trascorrono abbastanza serenamente: le fermate pero'
diventano sempre più lunghe:
capita spesso di sostare vicino
ad altri convogli, quasi tutti tedeschi, qualcuno anche ungherese: sono
giorni di euforia perché le cose vanno bene.
In Africa le truppe dell'Asse
sono ritornate a Tobruck e hanno conquistato Sidi-el-Barrani e Marsha-Matruck.
Sul fronte russo le armate tedesche continuano la loro offensiva e sembra
che i russi si stiano ritirando verso il Don e il Volga. Queste notizie
passano tra convogli e, naturalmente. facilitano i rapporti con gli altri
alleati nella comune soddisfazione del favorevole andamento della guerra.
Al largo sta transitando una
tradotta carica di prigionieri russi che imprecano contro di noi con motti
di scherno e improperi: diversi vagoni sono occupati da donne soldato,
che sono le più arrabbiate.
Da quando siamo entrati in Bielorussia
e stato sensibilmente rinforzato il servizio di guardia attorno alla tradotta:
durante la notte, ogni tanto si spara: forse le nostre sentinelle sono
troppo nervose, ma qualche volta crepitano brevi raffiche di armi automatiche
che non abbiamo in dotazione. Partigiani.
Verso la fine di luglio arriviamo
a Nova Gorlovka, il nostro capolinea.
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