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da sinistra: Vio - sergente furiere Canessa - S. ten. comandante 3° plotone Scarpel Luigi - fante (l'autore) Borsa - cap. maggiore Brambilla - cap. maggiore ? - sergente vice com.te di plotone Buratto - caporale |
Il reggimento ha preso posizione su un tratto
di fronte lungo alcuni chilometri, sulle alture che degradano
verso il Don. La nostra compagnia è di rincalzo nelle retrovie,
accampata in questo grande bosco di querce. Dicono che il fiume,
lungo il quale sono attestati i nostri reparti è a qualche
chilometro ma non si sa niente altro.
La "Cosseria" ha dato il cambio a una
divisione romena che aveva raggiunto il Don con le unità
combattenti solo da pochi giorni. Ora sembra che su questa linea
dovremo sostare e provvedere agli apprestamenti di difesa,
perché l'offensiva tedesca si sposta a sud per assediare
Stalingrado e occupare i ricchi giacimenti petroliferi del
Caucaso. Perciò, per prima cosa, si lavora di giorno a sistemare
il nostro accampamento, a scavare trincee e posti di vedetta, a
stendervi attorno per protezione matasse di filo spinato, a
predisporre servizi e collegamenti con i comandi superiori. Di
notte poi, ci mandano a fare le stesse cose in aiuto alle
compagnie del nostro battaglione che sono in prima linea. Dopo
una decina di giorni, ultimati i lavori più pressanti,
cominciano i turni di servizio.
Per il momento il nostro incarico è di tenere
sotto controllo le immediate retrovie del battaglione e di
perlustrare, di notte, la fascia di terreno che sta fra i
capisaldi e il fiume, fascia che noi chiamiamo "la terra di
nessuno".
Usciamo di pattuglia, per la prima volta, in una
notte di mezza luna. Fuori dal bosco seguiamo un sentiero che ci
porta a un caposaldo, dove un sergente ci apre un varco nei
reticolati e ci da alcune indicazioni: il fiume è davanti a noi
a circa un chilometro; il terreno scende lievemente fino a un
grosso pagliaio e, più avanti, a una piccola isba, per poi
risalire negli ultimi cento metri fin sul costone dal quale si
domina il fiume; il tratto che dobbiamo perlustrare è di
notevole ampiezza: va da un canalone a destra fino al paese di
Kosharnji sulla sinistra.
"È meglio che seguiate il canalone, -
ci consiglia il sergente prima di andarsene - sul costone
arrivateci strisciando e state attenti perché gli elmetti
luccicano dei riflessi della luna; i cecchini di là sono sempre
pronti a sparare". Ci ricorda la parola d'ordine per il
ritorno e ci saluta con un: "Buona fortuna.!"
Ci avviamo con cautela, ma anche con un po' di
paura, nella "terra di nessuno" puntando verso destra:
avanziamo con fatica nell'erba alta, non falciata, che ci arriva
fino al petto; non ci sono sentieri o almeno non ne vediamo. Dopo
forse 500 metri troviamo il canalone. E un crepaccio all'inizio
stretto e basso ma che diventa sempre più largo e profondo a
mano a mano che scendiamo verso il fiume: il fondo è asciutto ma
si tratta certamente di un fosso di scolo delle acque di
superficie. La luna si fa più alta nel cielo e dopo un po'
vediamo in lontananza, sulla sinistra, la grande sagoma del
pagliaio che sembra un capannone. Quando ci fermiamo per
orientarci abbiamo da poco oltrepassato anche l'isba e ci
troviamo in un avvallamento, una baia, che ora sale lievemente
davanti a noi.
Intorno è tutto silenzio: il capopattuglia manda
me e un altro in ricognizione. Ci avviamo verso il costone ormai
vicino e quasi subito sentiamo, attutito dalla distanza, un
quieto mormorare d'acqua che scorre. Mi tolgo l'elmetto,
ricordando il consiglio del sergente, e faccio gli ultimi passi
fin sull'orlo di una scarpata.
Sotto di me, ampio e calmo, scorre il Don e la
luna che lo illumina ne riveste le onde con strisce d'argento.
Ascolto salire il respiro profondo dell'acqua che passa
lentamente e l'occhio spazia nel paesaggio che la luce lunare
rende misterioso e quasi incantato. Forse sono i ricordi della
lettura de "Il Placido Don" di Sciolokov ma ho sempre
pensato così, dall' inizio del viaggio, il mio incontro con
questo fiume sulle cui rive "Radio Scarpa" diceva che
forse ci saremmo fermati. il mio lungo cammino verso oriente
termina qui in una notte di agosto, sulle rive di un fiume che sa
di magia, ma distante un mondo da casa.
Faccio cenno ai compagni, che ci raggiungono.
Il Don è largo forse duecento metri; siamo si
bordo di un dirupo alto una ventina di metri e dall'altra parte,
su un terreno che declina dolcemente, un paese, su cui domina
alta la sagoma scura di una chiesa, si distende lungo il fiume a
ridosso di un grande bosco nero.
Poi mi diranno che il paese si chiama Gorokovka.
Andiamo a ispezionare anche l'isba; è un piccolo
deposito per attrezzi con il pavimento di terra. Si può usare
per i turni di riposo, ma fuori si sta meglio.
Supino sull'erba guardo il cielo pieno di stelle e
cerco di riconoscerne qualcuna tirandola fuori dalle memorie di
scuola. Ecco subito i due Carri e la Stella Polare alti e dritti
al di là del Don e poi Vega, Cappella, la luminosa doppia W di
Cassiopea e da est è da poco salito una specie di aquilone di
cui non ricordo il nome.
Nel bosco il tempo scorre tranquillo, senza
problemi eccessivi. Di giorno si continua a scavare per preparare
ricoveri interrati per l'inverno; di notte, tra gli altri
serivizi, c'è quello di andare a scavare buche e camminamenti
per i posti di vedetta e c'è una zona, toccata alla nostra
squadra, che oltre a essere pericolosa, come del resto tutte le
altre, è anche brutta perché si scava nel gesso e, al mattino,
ce ne troviamo pieni non solo gli abiti ma anche i polmoni.
Comunque è vita di caserma, fatta di istruzione e
di corvé, con turni di guardia, turni di scavo e turni di
pattuglia notturna nella "terra di nessuno". Di
pattuglia ci comandano di solito ogni dieci giorni ma io, per
aver avuto una discussione focosa con il mio sergente-filosofo al
quale volevo far capire, invano, quanto era stupido un ordine che
mi aveva dato, sono stato punito con 15 turni di pattuglia
notturna a giorni alterni. E, dico la verità, mi piace.
Mi piace camminare nel silenzio della notte,
osservare, al di la del fiume, il paese immerso nel sonno e
aspettare il guizzo di qualche grosso pesce, forse in cerca di
cibo, che rompe la calma superficie argentata del Don mentre
sopra di noi un immenso quadrante di stelle ruota lentamente e ci
dà il senso vero del tempo che passa.
E poi, nelle notti di pattuglia, si possono fare
anche cose piacevoli. Il pagliaio si è rivelato un enorme
deposito di covoni di grano appena mietuto e così, durante i
turni di riposo, esso diventa il nostro granaio.
Si trebbia sul posto e poi, all'accampamento, con
un rudimentale ma efficiente apparecchio che sta fra un macinino
e una doppia grattugia, provvediamo a turno a macinarlo.
Impastato, ne facciamo delle pagnottelle piatte che vengono cotte
su una piastra. Senza lievito danno bruciore di stomaco ma a
vent'anni va bene lo stesso.
A Kosharnji ci sono gli orti. Il paese,
abbandonato dalla popolazione quando si è trovata in mezzo ai
combattimenti, è costituito da un piccolo gruppo di case ai lati
di una strada. Nelle isbe vuote io cerco di immaginare la vita
che c'era fino a qualche giorno fa, invece i miei compagni
cercano viveri abbandonati e ancora commestibili. Nelle cantine
ci sono grandi vasi di burro cotto e molti fusti di cavoli in
salamoia. Negli orti, patate e fagioli sono pronti per il
raccolto e ne approfittiamo largamente riempiendo gli zaini che
ci portiamo dietro. C'è un solo inconveniente: gli orti più
riforniti sono dall'altra parte della strada, una strada bianca
come il gesso, che scende diritta al fiume dove, proprio di
fronte sull'altra sponda, c'è una postazione di mitragliatrice
che la prende di infilata ogni volta che qualcuno tenta di
attraversarla. Sparano con pallottole traccianti ma, o
strisciando per terra o passando di corsa uno alla volta,
riusciamo a evitare le raffiche. Il peggio è al ritorno, con lo
zaino carico di patate: se non è ben chiuso e ti tocca buttarti
a terra, addio raccolto.
Al di là della strada, vicino a un ponte di legno
su un ruscello, c'è un tedesco morto, steso supino. Anche lui ha
finito di combattere. Passando lo guardiamo in silenzio: povero
soldato venuto a morire vicino a questo ruscello che non avevi
mai sentito nominare, quando mai tua madre potrà sapere come e
dove si è fermato il tuo cammino?
Stranamente non ci dimenticheremo di lui perché
avremo un altro punto di riferimento per le nostre notti di
pattuglia: "il ponte del tedesco".
Una volta ci mandano a Kosharnji per bruciare due
isbe che sembra diano fastidio a una postazione di mitragliatori
Breda. A dar fuoco si fa presto, con quei tetti di paglia e tanto
tempo che non piove, ma le isbe sono subito al di là della
strada che divide il paese e il brutto sarà ritornare.
Riusciamo ad avvicinarci alle isbe da una delle
quali fugge lesta una gatta mentre dietro a lei, miagolando, si
fa avanti traballante un gattino. Lo prendo e lo metto nella
tasca della giubba. Poi, al segnale convenuto, diamo fuoco
contemporaneamente alla paglia del tetto delle due isbe. Le
fiamme crepitando si levano alte in un attimo e mentre la
mitragliatrice dei russi incomincia a sgranare le sue traccianti
noi, con un po' di fortuna, siamo al di qua della strada. Postici
al sicuro dal tiro e dalla vista dei russi - ora infatti ci si
vede come fosse pieno giorno - prendo il micino e lo mostro agli
altri miei compagni.
Uno lo guarda: "E troppo piccolo - mi dice -
non ha ancora gli occhi aperti, senza sua madre morirà. "Allora - rispondo - lo riporto indietro a sua
madre". Il capopattuglia dice che sono matto, con questa
luminaria che c'è e tenta di convincermi a non farlo, ma infine
accetta di aspettarmi un quarto d'ora. Ritorno sui miei passi e
fortunatamente riesco a passare la strada senza che la
mitragliatrice si svegli, a portare il gattino vicino al punto
dove l'avevo trovato e a ritornare indietro: stavolta i russi mi
stanno aspettando, ma le traccianti passano ancora un pò troppo
alte, per fortuna.
Nel campo la posta arriva regolarmente e anche i pacchi da casa.
In uno, mia sorella, mi ha messo una carta geografica della
Russia europea; con i compagni guardiamo e rifacciamo a dito la
strada percorsa; siamo tanto lontani da casa e anche la linea del
fronte, dalla Carelia a nord e giù giù fino al Caucaso, è
così lunga che sembra impossibile che qualcuno la possa tenere
per sempre.
I giorni scorrono tutti uguali, anche le domeniche, salvo qualche
volta, quando il cappellano militare viene a dire la S. Messa,
che ascoltiamo, inquadrati, sul limitare del bosco. Sulla strada
passano di continuo donne, bambini e qualche anziano. Si fermano,
assistono alla cerimonia con raccoglimento, si fanno molte volte
il Segno di Croce in quel loro modo strano alla rovescia, e poi
riprendono il cammino.
Sembra di vivere un campeggio estivo di giovani esploratori. ma
già prima della fine di agosto il fronte comincia ad agitarsi.
Una notte ci mandano a perlustrare tutto il bosco: una nostra
pattuglia del 3° Battaglione, nella "terra di
nessuno", ne ha sorpresa una russa ed è riuscita a farla
prigioniera. Ma non tutta. Alcuni di loro sono fuggiti e si dice
che siano ancora al di qua del Don. La nostra compagnia setaccia
per tutta la notte il bosco sotto una pioggerellina sottile che
ci bagna fino alle ossa, ma inutilmente. All'alba torniamo al
campo dove, accesi dei fuochi di bivacco, cerchiamo di asciugarci
addosso i vestiti bagnati. Intanto al comando di compagnia hanno
portato un russo, trovato da quelli del 1° plotone: lo guardiamo
e gli giriamo intorno con la curiosità dei bambini perché e il
primo nemico che vediamo in faccia.
Un'altra notte una pattuglia, scesa sul costone per dare il
cambio alle vedette, non le ha più trovate. Evidentemente sono
state sorprese e fatte prigioniere. Dobbiamo essere più cauti.
Finora abbiamo scorrazzato nella "terra di nessuno" con
troppa facilità pensando che non vi fosse nessun pericolo: ma
loro ci sono.
Da "Radio Scarpa arriva anche una brutta notizia: sul fronte
sud la divisione "Sforzesca", che era stata aggregata a
una Grande Unità tedesca, attaccata da preponderanti forze
corazzate russe, ha ceduto. La ritirata conseguente ha messo in
difficoltà tutta la linea difensiva e solo grazie all'intervento
della "Celere" e di una Unità corazzata tedesca, lo
sfondamento e stato arginato e poi eliminato. Da allora la
"Sforzesca" ha ereditato il titolo di "Divisione
Cicai" che vuol dire "scappa". Titolo ingiusto
perché mandata col fucile '91 a combattere contro i carri armati
e ingeneroso per una Divisione che in quella battaglia ha perduto
molte centinaia di giovani vite.
Questo fatto ci preoccupa più delle pattuglie russe che passano
il Don: è evidente che si stanno già riorganizzando e che non
ci lasceranno tanto in pace: se poi dovessero tentare con le
Unità Corazzate anche qui, cosa mai potremo fare pure noi, con i
fucili '91?
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