Se fosse stato uno dei loro, se avesse deciso dopo anni di incontri, studi, ma soprattutto ammirazione sconfinata, di abbandonare gli intenti scientifici della sua missione e di non tornare mai più a casa, gli indiani gli avrebbero offerto l'onore di un nome da guerriero e nelle leggende sarebbe stato ricordato come "l'Uomo Che Non Trovò Mai Tempo Per Giocare". Forse erano rimasti colpiti dalla tenacia, un misto di resistenza fisica, ostinazione, ingenuità e affetto, con cui Edward Sheriff Curtis, un bianco sui generis nell'America del primo Novecento, a pochi anni dal massacro di Wounded Knee, aveva dedicato la sua avventurosa esistenza a un'opera che ancora oggi nei suoi venti volumi, 40.000 fotografie, 10.000 canzoni incise su cilindri di cera, 25 anni di ricerca sul campo, rimane un monumento non solo alla cultura indiana ma all'etnografia e al suo vitale rapporto con l'arte fotografica.
Che cosa poi Curtis intendesse per gioco, se mai abbia avuto rimpianti per non aver lasciato ad altri affetti la possibilità di distrarlo dalla sua missione - la moglie divorzierà nel 1920 portandosi via con il beneplacito degli avvocati l'archivio del consorte - non lo sappiamo. Certo è che sfogliando la splendida collezione delle 721 stampe, raccolte in venti portfoli, ora pubblicati da Taschen nel volume "The North American Indian. The Complete Portfolios", non si può invidiare questo strano personaggio. E non si può non sentirlo vicino a noi, uomo comune angosciato per la cronica mancanza di denaro, la difficoltà di trovare appoggi duraturi, dai mecenati ai giornalisti, e la coscienza pungente di dover fare in fretta perché nel giro di pochi anni il glorioso popolo degli indiani e la sua saggezza millenaria sarebbero scomparsi definitivamente.
Edward Curtis era nato nel 1869 nel Wisconsin, lungo un fiume su cui era ancora possibile vedere pescare i Chippewa e i Winnebago. Suo padre, un predicatore, lo portava spesso con sé nelle sue lunghe passeggiate a cavallo o in canoa, lasciando che lo scorrere delle acque, l'odore dell'erba, la bellezza degli alberi, l'ampiezza sconfinata del cielo parlassero al figlio come pagine di scritture sacre. Nel 1891 Edward apre uno studio fotografico a Seattle. Paesaggi, ma soprattutto ritratti, perché non vi era ragazza che non desiderasse essere fotografata da quell'uomo robusto, alto quasi due metri, barba alla Van Dyck, modi garbati ma decisi. Nonostante il fascino esercitato sulle coetanee, fu una principessa, Angeline, anziana figlia del capo Sealth (il cui nome fu trasformato in Seattle, una volta dato alla città), sorpresa nelle praterie del Puget Sound, a suggerirgli la passione futura.
Nel 1899 Curtis è nominato fotografo ufficiale della spedizione Harriman in Alaska. I contatti stretti con i partecipanti, quasi tutti scienziati, lo spingono, da illetterato - dovrà combattere una vita per farsi rispettare dal mondo accademico - ad avvicinarsi all'etnografia e trovare in essa la chiave di una lettura rigorosa ma umanamente duttile con la quale impostare il progetto in via di definizione: documentare la vita delle tribù indiane, già allora chiuse nelle riserve, decimate, come ricorda Angelo Schwarz nel saggio 1854-1915 "Cronaca fotografica del genocidio delle nazioni indiane d’America" (ed. Priuli & Verlucca), "da una lenta azione di logoramento: la scomparsa del bisonte, la brutalità e l'alcolismo introdotto dai bianchi, gli stenti, le malattie, le intemperie a cui erano condannate, restringendosi sempre più i territori di caccia occupati dall'invasore". Curtis sapeva bene in quale condizione vivevano gli indiani. Ne era profondamente turbato. Ma decise, adottando lo stile aulico del pittorialismo, di recuperare quanto rimaneva ancora del passato, perché solo quello avrebbe reso giustizia a un popolo ormai ridotto in schiavitù'. E da "predatore delle piccole ombre", così gli indiani chiamavano i fotografi dalla metà dell'Ottocento, Curtis si comportò con discrezione e intelligenza - salvo ovviamente i primi approcci a manciate di polvere e fucilate - sforzandosi di cogliere le ragioni di un punto di vista a lui estraneo. A cominciare dalla nozione di paesaggio. "Noi non pensiamo alle grandi distese, alle colline, al vento, all'erba che cresce come qualcosa di selvaggio - aveva detto Chief Standing Bear, della tribù dei Ponca - soltanto per il bilancio la natura è selvaggia, e solo per lui la terra è infestata da uomini e animali selvatici. Per noi questa terra è docile, generosa. La benedizione del Grande Mistero ci circonda. Nulla per noi era selvaggio finché i bianchi arrivarono dall'Est distruggendo con furia brutale quanto più amavamo. Allora gli animali cominciarono a fuggire l'uomo e rifugiarsi nella foresta. Allora anche per noi l'Ovest divenne selvaggio".
Per ironia della sorte, o nemesi storica, Curtis, che morirà senza un soldo e sconosciuto nel 1956 a Los Angeles, trovò appoggio finanziario nell'uomo che trent'anni prima era stato con la costruzione della ferrovia uno dei principali responsabili del genocidio indiano. John Pierpoint Morgan offrì un prestito di 75.000 dollari e accettò di pubblicare in venti volumi i 500 esemplari dell'opera omnia di Curtis, in cambio di 25 copie della serie completa e 500 fotoincisioni dei portfoli allegati. L'accordo, riportato dalla figlia Florence Curtis Graybill, nel volume Edward Curtis. Immagini di una razza che scompare, edito da Mursia in ristampa a settembre, coprì tuttavia solo una minima parte delle spese, che a fine lavori nel 1930, quando uscì dopo indicibili difficoltà l'ultimo dei volumi, erano salite a 500.000 dollari. Nel corso di venticinque anni, Curtis aveva documentato la vita, i costumi, gli oggetti, la religione - aveva intuito che quella era la chiave di tutto - di oltre 80 tribù, dagli Apache ai Navajo, ai Jicarilla, Sioux, Yanktonai, Hidatsa, Arikara, Cheyenne, Umatilla, Nootka, Hopi, viaggiando ininterrottamente dal Messico all'Alaska, e arrivando là dove nessun uomo bianco aveva mai osato avvicinarsi. Gli Indiani lo avevano accettato, perché rispettava la terra e quanti vi camminavano sopra e come loro non sapeva mentire. Il giorno dell'insediamento di Roosevelt alla Casa Bianca, Geronimo aprì il mantello e accolse Curtis in un abbraccio. Era il segno di un'amicizia fraterna. Per altri la fine delle ostilità. Roosevelt che aveva firmato l'introduzione di "North American Indian" e salutato l'opera come un inno alla nazione americana, applaudì all'incontro dei due uomini. Peccato che solo qualche anno prima, nel suo libro "La conquista dell'Ovest" aveva scritto: "L'indiano è un pezzente lavativo, sporco e ubriaco, che l'uomo della frontiera disprezza. Al mondo non vi è un essere più astuto, assetato di sangue e crudele". Edward S. Curtis, "The North American Indian. The Complete Portfolios", introduzione di Hans Christian Adam, Taschen, Koln 1997, pagg. 768, L. 49.000.
Come aveva intuito Edward Curtis, grande cacciatore d'immagini che merita un posto d'onore tra gli amici degli indiani, la chiave della loro cultura è la religione. Se però le immagini riescono a fissare con enigmatica evidenza quel mondo scomparso, e oggi persino il cinema comincia a rappresentare con maggiore fedeltà e rispetto storia e costumi dei nativi americani, la loro spiritualità, che una minoranza di uomini legati alla tradizione si sforza di mantenere viva, è ancora offuscata da pregiudizi e luoghi comuni.
La religione di un popolo che non ha lasciato testimonianze scritte è affidata alla sua parola. Ma coloro che incarnano i valori tradizionali, gli uomini-medicina e i capi cerimoniali venerati da chi resta fedele all'antica cultura, vivono per lo più appartati, e spesso non conoscono la lingua dei bianchi. Per ascoltare le loro parole è necessaria, ancora una volta, la mediazione di un'amico degli Indiani al quale l'uomo sacro decida di confidare le credenze del suo popolo. E' quel che fece il celebre Alce Nero (la sua autobiografia narrata a John Neihardt, Alce Nero parla, è tradotta in Italia da Adelphi), e che ha fatto un suo cugino più giovane, Frank Fools Crow (1890-1989), uomo-medicina dal 1913 per tradizione familiare, guaritore, capo civile nella riserva di Pine Ridge e infine capo cerimoniale e spirituale dei Sioux Teton.
Frank Fools Crow portava, come ogni indiano tradizionalista, un nome bianco e un "cognome" della sua gente. Fools Crow (Inganna Corvo) era il nome conquistato da suo nonno, Capo Coltello, con una prodezza contro i Corvi, nemici ereditari dei Sioux. Dopo una vita dedicata alle cerimonie sacre, alle guarigioni di malati e alla preghiera, ma anche alla difesa dei diritti degli indiani, Fools Crow, che parlava soltanto Lakota, decise di raccontarla a un amico bianco, Thomas E. Mails, con l'aiuto dell'interprete indiano Dallas Capo Aquila. Il volume, apparso nel 1990, esce ora in Italia a cura di Marco Massignan. Xenia, piccola casa editrice specializzata (via Carducci 31, 20123 Milano, tel. 02/878.511), presenta la collana "Uomini Rossi" martedì 9 settembre, a Milano (Iperspazio, via Velasca 2, ore 21), in concomitanza con la manifestazione di nativi americani "I guerrieri dello spirito", organizzata insieme all'associazione Survival (tel. 02/8900.671), che si batte per i diritti dei popoli tribali.
Fools Crow racconta soprattutto visioni, guarigioni e cerimonie sacre. Ma non mancano i contatti con la vita dell'uomo bianco, dalla partecipazione a film in costume alle discussioni e ai conflitti sui problemi della riserva, dalla lotta contro l'alcolismo tra i giovani indiani alla rivendicazione dell'osservanza del Trattato del 1868 con gli Stati Uniti, che lasciava ai Sioux le Colline Nere. La mediazione di Fools Crow tra gli agenti federali e i militanti dell'Indian Movement asserragliati nel 1973 a Wounded Knee, teatro dello storico massacro (29 dicembre 1890), evitò una seconda strage. E in uno dei suoi numerosi incontri con commissioni governative egli conobbe anche il presidente degli Stati Uniti Gerald Ford (1975).
Ma è la descrizione accurata e di prima mano della vita spirituale, delle pratiche religiose e delle guarigioni a occupare la maggior parte del volume: il tirocinio sotto la guida di anziani maestri, le prime visioni, l'apprendimento di una tradizione complessa, conservata da ogni dinastia di sciamani sotto il vincolo del segreto, la sua applicazione innovativa e creativa al servizio della gente. Fools Crow descrive le principali cerimonie sacre (il Culto della Pipa, la Danza del Sole), i rituali di guarigione e meditazione (la Capanna del Sudore), ne racconta la storia leggendaria, ne spiega il significato. Sullo sfondo, la visione armonica del rapporto tra uomo e natura che gli ecologisti hanno reso ormai popolare.
La vita di Fools Crow aveva al centro la preghiera, che si svolgeva più volte al giorno, nelle forme tramandate o rivelate dalle visioni. Principio fondamentale della vita "sacra" è l'aiuto disinteressato a tutti e il rifiuto di ogni forma di violenza. La fedeltà alla tradizione non impedì a Fools Crow di conoscere e rispettare la religione dei bianchi (si accostò al cristianesimo cattolico) e di mettere in luce gli elementi comuni. Solo così, egli ne era convinto, la sua religione sarebbe sopravvissuta: "Prego perché tutti i Sioux siano in grado di trasformare la cultura tradizionale in qualcosa di accettabile agli occhi dei bianchi, in modo da non perderla". Egli sottolinea spesso la coincidenza tra credenze indiane e cristiane, e usa correntemente la parola Dio come sinonimo di Wakan Tanka, l'Essere supremo. Thomas E. Mails, "Fools Crow, capo cerimoniale dei Sioux Teton", a cura di Marco Massignan, Xenia, Milano 1997, pagg. 344, L. 34.000.
WASHINGTON - Si piange ancora lungo il sentiero delle lacrime indiane. Non è ancora finita la guerra dell'uomo bianco contro il fratello rosso. L'ultimo agguato è avvenuto a notte fonda, nella luce stanca di un'aula di commissione parlamentare a Washington, dove si è consumata l'estrema vendetta bianca contro il popolo esausto degli indiani d'America. Nel languore di un dibattito inconcludente che si trascinava da settimane come si trascinano tute le leggi finanziarie in tutti i parlamenti del mondo, un senatore ha approfittato della sonnolenza dei colleghi, dell'assenza dei giornalisti, dell'indifferenza della nazione e ha infilato un emendamento che taglia lo scalpo alla superstite sovranità indiana, come la sciabola dei cavalleggeri del Settimo tentò di tagliare l'ultima resistenza Sioux, 120 anni or sono. L'emendamento è semplice e diretto: se le 554 tribù native ufficialmente riconosciute da Washington non rinunceranno di fatto a quel che rimane della loro sovranità sulle riserve, il governo sospenderà il pagamento di quella elemosina pubblica che ancora gli indiani ricevono. Una miseria, ma spesso tutto quel che ancora separa le tribù più povere dalla fame.
E' stato il New York Times a scoprire il veleno di questo emendamento sotto la coda di una confusa legge di spesa "omnibus", una di quelle carovane di articoli e provvedimenti sconclusionati che il Congresso americano usa per far passare progetti cari ai singoli parlamentari e che la gente chiama sarcasticamente le "pork barrel laws", le leggi del barilotto del lardo. Un vecchio nemico degli indiani, il senatore Slade Gorton dello stato di Washington, nel nord ovest, ha deciso che le tribù superstiti stavano facendo troppi profitti con i casinò e che questo "scandalo" doveva finire. Poiché le sentenze della Corte Suprema riconoscono alle tribù la extraterritorialità delle riserve, il senatore ha detto: benissimo. Tenetevi la vostra sovranità, ma neppure più un centesimo di danaro pubblico per Toro Seduto, Geronimo, e i loro laceri eredi.
In palio, ci sono 1 miliardo e 700 milioni di dollari, tre mila miliardi di lire, la somma annuale che il governo federale versa, sotto varie forme, ai consigli delle tribù, gli organismi che amministrano le 554 riserve sparse sul territorio Usa. Non è, per gli standard americani, una cifra enorme, ma al senatore della frontiera del Nord Ovest sembrano comunque troppi soldi. "Non ho trovato in nessun trattato firmato tra noi e le nazioni indiane un articolo che ci imponga di pagare in perpetuità contributi alle tribù" risponde il senatore a chi critica questa ennesima prepotenza bianca, ma la sua interpretazione dei trattati di pace firmati alla fine delle innumerevoli guerre indiane è molto dubbia: la condizione della resa finale delle ultime tribù alla conquista dei bianchi era sempre la cessione delle armi in cambio del sostentamento.
Ma tutta la storia multisecolare della colonizzazione europea del Nord America è una storia di doppiezze, di trattati scritti oggi e riscritti domani, di paci imposte più con il fucile che con il calumet. E il senatore del Nord Ovest è allineato con questa tradizione che gli indiani avevano notoriamente definito "la lingua biforcuta". Ma Slade Gorton, nipote ed erede di pionieri che attraversarono la prateria verso l'estremo West, ha un fatto personale con gli indiani. Un rancore che dura da 25 anni, da quando, giovane politico ambizioso a Seattle, prese le parti degli allevatori e pescatori bianchi di salmone nei grandi fiumi del Nord Ovest contro le tribù native che reclamavano diritti di pesca e perdette la battaglia. I tribunali riconobbero agli indiani della costa settentrionale del Pacifico il diritto al 50 per cento del salmone e Gorton perse un'elezione. Trombato dal Grande Spirito.
Ma non perse la memoria di quella sua "Little Big Horn" politica. Un quarto di secolo dopo, divenuto vice presidente della commissione senatoriale che tiene i cordoni del fisco, il senatore ha preparato la sua rivincita. Si è fatto forte della leggenda dei casinò, l'ultima favola giornalistica che circola sul mondo degli indiani, secondo la quale le tribù stanno facendo soldi a vagonate grazie ai casinò costruiti nei territori delle riserve. Se per il 10 per cento delle tribù la leggenda è quasi vera, almeno sulla carta, e qualche dollaro rotola effettivamente dai tavoli da gioco verso le riserve, per la grande maggioranza delle tribù le case da gioco sono state una delusione. Hanno fatto soldi i pochissimi mega-casinò costruiti, spesso con finanziamenti non molto limpidi, nei pressi delle grandi città dell'Atlantico, come New York e Boston, dove i veri gestori segreti delle case dietro i piumaggi e le perline dei prestanome hanno più spesso cognomi italiani che Mohicani o Iroquesi.
Ma nella prateria lontana, nelle Montagne Rocciose, nei deserti del sud ovest dove non ci sono grandi metropoli capaci di alimentare i tavoli di roulette e le slot machines, i casinò sono stati buchi nella sabbia. La realtà è una disoccupazione del 40 per cento nelle riserve delle grandi nazioni Sioux, Corvi, Winnebago, Cheyenne. Un alcolismo endemico, con altissimi tassi di suicidi giovanili. Una quasi totale dipendenza dalle elemosine statali. E una miseria spossante che fa della riserva di Pine Ridge, il territorio che fu di Nuvola Rossa e di Cavallo Pazzo, la contea con il più basso reddito pro capite di tutti gli Stati Uniti. Il 38 per cento delle famiglie che vivono nelle riserve e hanno figli piccoli arrancano al di sotto della soglia di povertà ufficiale. Nessun altro gruppo etnico, o regionale, nord americano è in queste condizioni.
Eppure anche questo sembra troppo al senatore sconfitto nella battaglia dei salmoni. "La sua non è neppure stupidità" ha detto in pubblico l'unico senatore americano di sangue indiano, Ben Nighthorse (Cavallo della Notte) "la sua è pura crudeltà di uomo bianco accecato dall'ingordigia". Ma non è territorio, ciò che questa volta il "Was'ichu", come i Sioux chiamavano i bianchi, "colui che ruba il grasso", vuole portarsi via. Non sono diritti minerari foreste o pesce, ma sentenze legali. Il vero bersaglio del senatore è infatti la extraterritorialià giuridica della quale le tribù godono. I bianchi non possono intentare cause legali alle popolazioni che vivono nelle riserve attraverso la magistratura ordinaria. Se scoppia una contesa con un abitante della riserva, i bianchi devono ricorrere alla magistratura della tribù. Se vogliono mantenere questa loro autonomia ora le tribù dovrebbero rinunciare ai contributi federali. E, di conseguenza, spalancare le porte delle riserve ai "conquistadores" bianchi appoggiati da eserciti di giudici e avvocati.
La prepotenza è insieme sfacciata e abile, in un momento nel quale il pubblico applaude ogni taglio di spesa. Ed è ben confezionata, infilata dentro una legge che contiene voci di spesa molto care alla Casa Bianca, come l'acquisizione di nuovi parchi nazionali e il continuo finanziamento della fondazione governativa per le arti. Clinton, che si oppone al ricatto del senatore, non può dunque bloccare il suo emendamento senza cassare la legge nella sua interezza, quindi senza rinunciare anche agli articoli che gli interessano. "Se soltanto il senatore volesse venire a vivere con noi per qualche giorno, cambierebbe idea sulla vita nelle riserve" dice John Blackhawk, "Falco Nero", capo eletto della tribù Winnebago nel Nebraska "e forse gli si aprirebbe il cuore". Ma non è il caso di contarci. Il cuore dell'uomo bianco resta tenacemente chiuso alle lacrime rosse.
Ci riconosceranno dalle tracce che lasceremo dietro".
Fedeli al vecchio proverbio dakota, gli spiriti virtuali degli indiani d'America cavalcano le praterie del cyberspazio. Superate dalle stelle dei cartoni animati giapponesi; trascurate da fumetti sempre più ispirati a personaggi metropolitani, le imprese di Geronimo, Toro Seduto, Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa rivivono ora in una miriade di siti dedicati alla storia, i miti e le curiosità dei Native Americans. Sioux, Apache, Navajo, Cherokee: sui sentieri di Internet ci sono tutti, per rivendicare quella cultura e quell'identità che massacri e confini hanno quasi del tutto piegato.
E se la cronaca riporta la graduale agonia del popolo rosso, ai margini della società americana, sulla Rete gli indiani sembrano essere molto apprezzati. Basta accedere ai principali siti dedicati ai Pellerossa, per notare frequentemente il simbolo di riconoscimento che Internet tributa solo al 5 per cento dei siti top nel mondo. Dal remoto deserto Mojave alle postazioni accademiche delle più varie università americane, studiosi, appassionati, ma soprattutto discendenti legittimi delle tribù più note, raccontano la loro storia, il loro amore per la natura, i loro culti.
Le immagini simbolo della fantasia tribale, gli strumenti magici, i costumi, le epiche gesta nella lotta coi bianchi sono rievocati con l'intento di promuovere nel mondo la saggezza e la profonda spiritualità di una popolazione remota, oggi scarsamente conosciute e troppo spesso affidata a fumetti o vecchi western cinematografici. Gli adoratori del Sole, del Tuono, della Terra, del Grano e del Bisonte; che hanno resistito ai secoli e ai mutamenti preistorici, popolando canyon, deserti sabbiosi, praterie ricche di selvaggina, ripropongono ai cybernauti filosofie ed ecologie di estrema attualità. E mentre il mondo misero della realtà è denunciato costantemente, lo spirito dei grandi sciamani aleggia sul web. Tra sentieri, luoghi, animali e figure leggendarie s'invocano ancora Manitù e gli "antenati", perchè preservino, almeno nel cyberspazio, quel poco che resta di una civiltà.
Indiani sul piede di guerra dagli "accampamenti" su Internet. Sono, infatti, numerosi sulla Rete i siti di resistenza realizzati dai discendenti di Aquila Solitaria. Dalle lotte del Far West, alla rievocazione del massacro di Wounded Knee, su Internet si possono ripercorrere le pagine più affascinanti della storia dei Pellerossa. Ma sono soprattutto i siti di denuncia dell'attuale stato di isolamento a ricevere il maggior numero di accessi.
Tra questi, le pagine web dell' "American Indian Society", che provvede all'istruzione e al sostegno umanitario degli Indiani degli States. L'organizzazione, che peraltro fornisce anche assistenza concreta come quella medica e alimentare, e mostra particolare attenzione verso l'educazione dei più giovani, cerca sostenitori attraverso Internet. "The Native American Rights Fund" fa il punto della situazione sulle richieste e le lotte politiche degli Indiani nei confronti del Governo americano. E il "National Environmental Coalition Of Native America", denunciando centinaia di episodi, combatte il cosiddetto "razzismo radioattivo", l'utilizzo di alcune aree protette e destinate agli Indiani come discariche di materiale radiattivo.
Battaglie naturalistiche sono promosse anche dal sito "Pianeta Pace", che leva la sua voce contro la caccia al bisonte e ricorda le giornate di preghiera per il bufalo. Da questo sito parte la protesta degli Apache che si oppongono alla costruzione di un telescopio internazionale sul Monte Graham, ritenuto luogo sacro e di culto. Un pamhplet sui soprusi operati dal "Bureau of Indian Affairs", la cui pubblicazione era stata negata a causa del contenuto assai scabroso, è ora liberamente circolante sulla Rete.
I pacifici Pellerossa, insomma, devono ancora difendersi dal nemico bianco.
Da quando Sequoyah, grande capo Cherokee, creò l'alfabeto "Tsalagi" in cui fece stampare giornali e libri, tra i quali la Bibbia, la spiritualità indiana si è tradizionalmente riversata in pubblicazioni prevalentemente ispirate al culto della natura, all'amore della propria terra e della libertà. tanti sono i racconti brevi, le fiabe e le favole tramandate di generazione in generazione, e riproposte come tradizionale patrimonio popolare. Un esempio è rappresentato dalle vecchie raccolte di Arthur Caswell Parker, legato alla tribù Seneca, dell'etnia degli Irochesi: libri di leggende che conservano intatto il fascino di metamorfosi magiche, eventi prodigiosi e fenomeni naturali.
Si parlò di "Rinascimento" della letteratura indiana, nel 1969, quando venne attribuito allo scrittore Navarro Scott Momaday, di stirpe "Kiowa" il prestigioso premio "Pulitzer". Ma oggi, scrittori come James Welch, Leslie M. Silko, Gerald Vizenor, che raccontano la storia alla loro stessa gente, non possono che rispecchiare la tragedia del popolo degli indiani d'America. L'alcolismo, la perdita d'identità, la solitudine, e la forzata collocazione territoriale sono tra i temi più ricorrenti. I canti della prateria, la lirica dedicata al folclore, alla terra, agli eventi della vita sociale, all'amore e alla pace, sono oggi quasi integralmente sostituiti dalle manifestazioni di dolore e dall'impegno per la tutela dei diritti.
Per avere un'idea della produzione letteraria indiana più recente, ma anche per conoscere i miti più tradizionali, si può accedere alle pagine della "Native American Literature Online", che fornisce informazioni su autori, opere, e testi critici. Libri digitali sono resi disponibili dal Progetto Gutenberg e da numerose riviste letterarie americane. E quasi tutte le librerie virtuali di Internet contengono ampie sezioni per gli appassionati del genere.
Linee informali e comode, adatte alla vita all'aperto; colori caldi che ricordano le stagioni; accessori curati, impreziositi da particolari sempre originali. Vi piacerebbe vestire da squaw? Su Internet è in mostra la collezione pret-a-porter di Nevena Pagan, ispirata alle popolazioni indiane e perfetta per chi voglia adottare il look della prateria.
E se la vita indiana è sempre stata la vostra passione, potete fare un giro virtuale per gli scaffali dei grandi magazzini, dove gli oggetti tipici dell'artigianato possono essere acquistati con carta di credito. C'è chi assicura che siano le sacre pipe ad essere più vendute. In ogni caso, per saperne di più sul significato di questo simbolo sempre ricorrente nell'immaginario indiano, si consiglia di dare prima uno sguardo a quei siti che ne ripercorrono storia, significato, manifatture e "modelli" storici.
Se vi interessano l'arte e le decorazioni indiane, oltre alle sezioni apposite dei più prestigiosi musei del mondo, c'è un vero artista sulla Rete: Turtle Heart, webmaster dell'"AICAP" (American Indian Computer Art Project), uno dei siti più apprezzati sugli Indiani. Da qui è possibile ascoltare anche musiche tribali da varie regioni.
E per gli appassionati di "Trecalzini" e del ricco mondo naturale che da sempre si accompagna alle centinaia di tribù, è obbligatoria una visita alla "Pagina del Lupo" di Luna Deserta. Lupi di ogni dimensione, filmati e soprattutto file audio sugli ululati di vari esemplari non mancheranno di stupirvi.
Ce la stanno mettendo tutta per assicurarsi la prima lotteria americana online. Sono gli indiani dell'Idaho, alle prese con il tentativo di approfittare del vuoto normativo sui giochi su Internet e aggiudicarsi così un grosso giro d'affari. Ma la via da percorrere è ancora lunga. Contro l'iniziativa della tribù ha già fatto ricorso lo Stato del Missouri, come in passato lo Stato del Minnesota contro una proposta analoga, denominata "Wager-Net". E le obiezioni giuridiche sollevate sembrano assai dure.
Non esistono, infatti, leggi federali che prevedano il gioco d'azzardo online, al di fuori dell'"Interstate Wire Act" che vieta la trasmissione di informazioni sulle scommesse attraverso i confini degli Stati, usando cavi di telecomunicazione. Gli Indiani ritengono che il caos legislativo sia tuttavia superabile in quanto tale iniziativa esiste su territorio indiano e opera con le stesse regole dei casinò "offshore": quelli in cui è possibile giocare al largo delle acque internazionali. Inoltre, essi si ritengono autorizzati dal "Federal Indian Gaming Regulatory Act" del 1988, e da un accordo tra la tribù interessata e lo Stato dell'Idaho del dicembre 1992.
Il casinò interattivo, infatti, interamente gestito nella riserva indiana della tribù Coeur d'Alene dell'Idaho, vende già biglietti e promette ricchissimi premi. Ma per ridurre le difficoltà è consentito giocare alla "US Lottery" solo ai cittadini dei 36 Stati dove il gioco d'azzardo è permesso. Altre tribù indiane attendono ora i prossimi sviluppi per avviare iniziative analoghe.
La corsa vertiginosa dei secoli non spaventa gli Indiani d'America. Non che abbiano inventato la macchina per sopprimere il tempo. Semplicemente, non hanno il senso della irreversibilità che angoscia l'Occidente. Si sentono partecipi dell'eternità. La Ruota di medicina, simbolo chiave della loro civiltà medico-magica, è un cerchio al cui interno è disegnata una croce: rappresenta il tempo circolare, che si avvolge su se stesso e che ritorna, anche se trasformato. Che cosa significa questa interpretazione della legge cronologica così diversa dalla nostra? Hyemeyohsts Storm detto Lupo Bianco, 65 anni, l'autore di Settefrecce, un classico della cultura indiana (anno 1972, solo ora proposto in Italia, da Corbaccio), e insieme un mitografo che molti manager americani nevrotizzati dalla frenesia efficientista considerano una sorta di sciamano, ha una risposta precisa: "Per l'europeo medio il sole è morto, una sorta di lampadina svitata nel mezzo del cielo. Per noi, invece, il sole è una divinità vivente, il nonno e la nonna. La Terra è viva. E il Cerchio rappresenta il ritorno alla vita". In questo complesso passaggio di millennio l'amore e il rispetto per Madre Natura è ciò che riaffiora, il retaggio di miti archetipici. Ma è un imprinting culturale che, comunque, si è trasformato, arricchito. Nella mentalita dell'indiano d'America, costretto da due secoli in una condizione reietta e su-balterna, c'e qualcosa di nuovo. "E' come prendere del Fieno e gettarlo in aria: atterra ovunque, dentro e fuori le riserve", spiega Storm con il linguaggio che ha imparato da giovane, vivendo, figlio di un tedesco e di una indiana, nelle riserve Crow e Nord Cheyenne del Montana. Il fieno è l'immagine metaforica del business e della tecnologia dell'informazione, i nuovi miti dei giovani nativi americani. L'iconografia dell'epica western appartiene al passato remoto. Oggi le nuove generazioni sono affascinate dalla rivoluzione digitale.
Sfrecciano sulle autostrade telematiche con la stessa foga con cui, simili a Ombre Rosse, cavalcavano sulle praterie del Grande Spirito.
Storm è cauto: "Non è ancora una tempesta, semmai una pioggerella". Sarà. Però Nolan Laate, indiano della tribù Zuni Pueblo, presidente della Corn Mountain Inc., società con sede ad Albuquerque, New Mexico, da anni si è incamminato sul sentiero del cyber-commercio: "ll mio sogno era di offrire sul mercato i prodotti artigianali del mio popolo attraverso Internet. E l'ho realizzato. Perchè far pagare la gioielleria, cioè la nostra specialità, il 200% in più, quando il cliente la può acquistare direttamente dall'artigiano a prezzo di mercato?". Nell'arco di pochi anni, da un capo all'altro dell'America e del Canada, lo spirito di intrapresa sta sviluppando molteplici attività. Nascono aziende a capitale interamente indiano; si costruiscono shopping center; proliferano i siti pubblicitari su Internet e si amplia la rete del Native Cyber Trade. La gamma delle merci è ampia, ma non esce dai confini di un folclore millenario: artigianato in tutte le sue forme, grafica, designs. La duttile Native american technologies si è addirittura specializzata in repliche e riproduzioni di manufatti storici e preistorici adatti (assicura lo slogan pubblicitario) a musei, istituzioni didattiche, ricerche archeologiche e usi domestici. Una pioggerella? Forse, ma tra i pellerossa è caduto un tabù: la tecnologia. Il perchè dovranno spiegarlo i sociologi. Ma non è escluso che, oltre a ragioni di sopravvivenza, intervengano altri fattori.
"0gni tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia", ha scritto il piu grande autore di fantascienza americano, Arthur C. Clarke. E forse la chiave del mistero è tutta lì. Per una civiltà intessuta di spiritualità come quella degli Indiani d'America, l'immaterialità della tecnologia interattiva sembra evocare misteriose corrispondenze con il mondo degli spiriti ancestrali e dei segnali di fumo. Scrittore, artista, fondatore della Scuola internazionale di arte meticcia, ex portavoce di Greenpeace, negli Stati Uniti Storm gode fama di guru. 0 almeno viene considerate tale da chi assiste alle sue conferenze e soprattutto dai manager della società postindustriale ai quali, in veste di consulente, dispensa gli arcani di una sapienza esoterica e arcaica. Al Mondo conferma: "Molti businessmen considerano Settefrecce una specie di breviario. Il fatto è che oggi la figura del manager non è più adeguatamente ricompensata, gratificata. Non ha più neppure il ruolo o la popolarità di cui nelle comunità godevano una volta il medico o l'avvocato. E quindi si sente frustrato. Io cerco di offrire quello di cui il manager ha più bisogno per la sua stressante attività: l'equilibrio. In tutti i sensi: fisico, spirituale, emotivo, mentale".
Analisi discutibili, forse. Nel frattempo i progetti imprenditoriali dei nativi proliferano. Non c'è riscatto economico finchè le redini restano nelle mani dell'Uomo Bianco. Il Territorio del Grande Fiume, nell'Ontario, Canada, molti secoli addietro ospitava gli indiani delle Prime Nazioni del Grande Nord. Oggi, in quella zona, ad Hagersville, opera una dinamica signora, Angela DeMondgny, stilista e presidente di una azienda di moda, "Spirit Ware", che produce abbigliamento e accessori ispirati allo stile tradizionale. Afferma Miss Angela: "Per migliaia di anni i nativi americani hanno creato una grafica molto bella ispirata dall'amore spirituale e dalla venerazione per la natura. Nelle mie collezioni ho tentato quindi di catturare l'essenza della mia eredità". Tecniche e materiali di fabbricazione sono antichi. Tutti i tessuti sono naturali, compreso un cotone riciclato chiamato "ecofibra". Bottoni in legno; disegni stampati con inchiostri ad acqua ecologicamente corretti. Ma la vera novità è un'altra. Niente esotismi utilizzati dalle industrie occidentali. La "SpiritWare" è di proprietà interamente indiana. Il tempo dei redskins torna sui suoi passi, ma accetta il prezzo della metamorfosi. Resistono il linguaggio mitico e l'immaginazione magica. Scompare la tecnofobia. Si profila all'orizzonte un nuovo assetto economico, che rifiuta l'assistenzialismo ed esalta il libero mercato, anzi invoca la deregulation. Sia chiaro: la situazione delle popolazioni indiane d'America resta drammatica. Negli Stati Uniti le riserve sono 311 e in queste isole di miseria, sperdute tra vuoti immensi, risiedono circa due milioni di persone affiliate in 557 tribù che Washington considera ufficialmente nazioni sovrane. La maggior parte sopravvive oltre la soglia di povertà solo grazie all'elemosina pubblica. La quotidianità si sintetizza in tre parole: disoccupazione, alcolismo, violenza.
Ma che gli indiani stessi fossero decisi a ribaltare i vecchi equilibri economici, assumendo in proprio il rischio d'impresa, lo si era capito fin dagli anni Ottanta quando, firmata la tregua nella battaglia con le multinazionali per la rivendicazione dei diritti sui preziosi giacimenti minerari delle riserve (uranio, diamanti, petrolio, carbone), era cominciata la corsa al gioco d'azzardo. Narra la leggenda che l'idea delle case da gioco esentasse sia venuta a un astuto indiano Pequot. Malgrado le proteste degli anziani capi-tribù, il progetto "sacrilego" si rivelò una macchina da dollari. Un exploit clamoroso. Negli ultimi sei anni i casinò delle riserve sono diventati oltre duecento e molte richieste di autorizzazione giacciono sulle scrivanie del governo federale. I redditi annuali superano quota 4,5 miliardi di dollari.
Naturalmente il tenore di vita si è alzato. Non dappertutto, però. Se i casino dislocati presso i grandi agglomerati urbani prosperano (quello dei Pequots, Connecticut, frutta 800 mila dollari l'anno), altrove, nelle grandi praterie e tra le montagne, lontano da New York e Los Angeles, il gambling non ha trasformato magi-camente le riserve in caverne di Alì Babà. Comunque sia, i profitti hanno magnetizzato l'attenzione del Congresso e i repubblicani sono stati lesti ad alzare la voce, avanzando richieste drastiche: salvaguardare la extraterritorialità ma bloccare il flusso di denaro pubblico (un miliardo e settecento milioni di dollari annui) oppure cancellare il diritto alla sovranità. L'anno scorso, un deputato del Texas, Bill Archer, ha acceso una nuova miccia proponendo una tassa del 34% sui redditi dei casinò indiani. La battaglia è in corso a suon di cavilli giuridici. E qualche lacero discendente di Toro Seduto, Geronimo o Nuvola Rossa, minaccia persino di dissotterrare l'ascia di guerra contro i visi pallidi. Ma anche all'interno della comunità pellerossa la conflittualità è accesa. Perchè contaminare un intero sistema magico-religioso sull'altare del dio Dollaro?
Storm fa professione di realismo: "Io non sopporto i funzionari del Bureau of indian affairs. Sono comunisti. almeno di testa. Nell'assegnazione dei fondi non fanno nulla per stimolare la competizione. E allora ben ven-gano i casinò! A parte il fatto che tutte le altre porte erano chiuse, in qnesto modo noi indiani stiamo finalmente imparando a gestire il denaro in proprio e quindi a disporre di risorse che metteranno in condizione il popolo di risolvere tanti problemi con la propria testa. L'accordo con le multinazionali può essere vantaggioso per entrambi ma, per noi, lo sfruttamento del sottosuolo deve avvenire senza spezzare l'armonia con la natura. Si, forse il gioco d'azzardo e davvero un demone che sta cambiando molte cose, ma almeno è un demone che ha i suoi lati positivi. Ci insegna che cos'è la logica dell'investimento e della concorrenza, può sviluppare il turismo".
E' questa la ragione, certo sorprendente per gli europei, per la quale, la maggioranza dei nativi preferisce dare il proprio voto ai repubblicani. Piuttosto che ai Democratici. Spiega Storm: "Certo, non apprezziamo la politica dell'ala destra, la più retriva e razzista, ma resta il fatto che ogni volta che i repubblicani sono andati al potere, hanno liberalizzato l'economia. Quanto al presidente Clinton, non so se non capisca i problemi degli indiani o non voglia capirli. Sicuramente se, come mi sembra, darà retta alla vecchia guardia piuttosto che ai giovani economisti, non combinerà niente di buono per le popolazioni indiane".
Non è l'opinione di una creatura di Manitù arricchita e occidentalizzata. Hyemeyohsts Storm non ha dimenticato di essere figlio di una principessa Indiana e neppure la dura infanzia vissuta in un ghetto Cheyenne. Spesso gli hanno offerto un posto di docente nelle università degli Stati Uniti: "Avrei risolto le mie difficoltà finanziarie. Ma ho rifiutato. All'università si insegna in un modo che non capisco, non voglio perdere il mio spirito".
Come sanguemisto era stato emarginato persino all'interno della sua riserva. Crebbe in solitudine, circondato solo dagli anziani che gli tramandarono le conoscenze sacre che avrebbe poi illustrato in Sette frecce e ora divulga in mezzo mondo. Superata l'adolescenza, si sentiva infelice e pieno di rabbia. Così, quando scoppiò la guerra del Vietnam, come molti nativi americani si illuse di aver trovato la scappatoia a una povertà senza speranza: arruolarsi nell'esercito. Lo scartarono per un difetto alla vista. Molti suoi compagni tornarono da eroi di guerra, veterani con un gruzzolo di soldi, nuovi stivali, nuovi vestiti, "tutte quelle cose meravigliose". Lui no. Era in un vicolo cieco. Poi incontrò una medicine woman di sangue Maya, Estcheemah: "Per lei danzai due giorni senza cibo nè acqua. con rabbia. Alla fine, quando non avevo più energia per maledire, prese quattro pietre e le dispose ai quattro punti cardinali. Era la prima Ruota di Medicina che avessi visto. Poi mise una quinta pietra nel mezzo e disse: "Tu hai un corpo (a ovest). Tu hai una mente (a nord). Hai cuore ed emozioni (a sud) e unoSpirito (a est). Puoi fare qualunque cosa desideri. Puoi istruirti e insegnare. Puoi diventare un uomo potente". Qualche anno dopo scrisse Sette frecce, che oggi è arrivato alla quarantaseiesima edizione. E il primo articolo del suo credo recita: "apprezzate la vita". Paradossalmente è una lezione che può servire più ai manager depressi del Nuovo mondo che ai diseredati della sua terra. A loro non basta il recupero di una mitica ancestralità. Devono far pratica di libri contabili, pubblicità, meccanismi di distribuzione e strategie di marketing. "L'innovazione è il nostro stile di vita", è il motto della Uniband corporation, una società di nativi specializzata in programmi elettronici situata nella riserva Chippewa della Montagna della tartaruga, Nord Dakota. Per i giovani figli del Grande Spirito il videoterminale è il nuovo segno totemico e il circuito elettronico è anche un modo di ristabilire antichi legami intertribali.
"Un tempo le tribù delegavano a commerciare gli individui più qualificati che per questo venivano ricompensati", racconta Storm. "0gni anno si riunivano e iniziava il baratto. Tutto era oggetto di
scambio commerciale: bufali, frecce, vestiario, tabacco, spezie, cibo. Non solo: si scambiavano anche le persone, nel senso che si organizzavano matrimoni. Non per schiavismo, beninteso, ma per portare sangue nuovo all'interno della tribù. E si scambiavano informazioni, canti, ciascuno con un valore equivalente a quello degli oggetti. Era un onore per la nostra gente offrire qualcosa che essa stessa aveva prodotto. Spesso, anzi, l'offerta diventava regalo. E proprio qui, a mio avviso, stà il grande handicap dei nostri uomini d'affari ri-spetto ai vostri. All'indiano piace donare. Inutilmente, per due secoli, anche ricorrendo alle punizioni, hanno tentato di sradicare questa vocazione". Un bel guaio, in effetti, affrontare il mercato con questo spirito. Ma Storm-Lupo Bianco non perde il suo aplomb di guru: "Passo passo, lentamente, la pioggerella diventerà tempesta. L'importante è che non dissolvano la nostra fantasia, la sensibilita artistica. L'indiano non è nato per lavorare alla catena di montaggio".
"Il Giornale" del 22 Dicembre 1997
Tu, madre di Milano, accompagna il tuo bambino in un giardino, in un orto, in un prato alla periferia della città. Lo stesso può fare una madre di Napoli, o di Parigi, o di Yokohama, New Delhi, New York. L'importante è trovarlo il giardino, orto o prato che sia. E cercare quattro sassolini.
E adesso considera il pargolo al centro di un cerchio ideale e metti un sassolino a est (importante è trovarlo, l'est, nelle città in cui non si sa nemmeno dove e quando sorga o tramonti il sole). Ora dirai al tuo bambino: "Questo è il sole, tuo padre, il tuo nonno e la tua nonna e anche loro ti danno il benvenuto". Poi metterai un sassolino a ovest e dirai: "Questa è tua madre, la terra, il tuo nonno e la tua nonna e anche loro ti danno il benvenuto". Il rito va ripetuto per il nord e per il sud, dove le piante e gli animali (anche loro, genitori, nonni e nonne) daranno il benvenuto a tuo figlio.
Certo, di primo acchito, tutto ciò può apparire sconcertante, così ai giardini pubblici, tra le baby sitter e i signori col cane. Ma forse non più assurdo di tanti riti che compiamo ogni giorno, come premere ossessivamente il telecomando, per esempio o sbraitare agni cinque minuti nel telefonino o pigiare rabbiosamente sul clacson urlando anatemi all'indirizzo di qualche altra anima, persa come noi nell'inferno metropolitano. Si tratta di capire il significato ultimo delle nostre azioni.
Quello che tu, madre romana o newyorchese, hai fatto con i sassolini è una Ruota di Medicina, del tutto simile a quelle che per millenni hanno costruito gli indiani d'America. Al giorno d'oggi la maggior parte degli indiani ha smesso di tracciare le Ruote di Medicina: perchè hanno perso la loro anima. Come noi ogni giorno ne perdiamo un pò premendo il telecomando, sbraitando nel cellulare, pigiando sul clacson.
Ma se tu avrai fatto la Ruota di Medicina, tuo figlio non perderà la sua anima, ne si sentirà solo e disorientato perchè la terra con gli oceani, i laghi, i fiumi, le foreste sarà con lui. Oceani, fiumi, laghi, alberi sono vivi, sono i nostri anziani sulla terra, rivolgersi a loro e parlare al creato, ritornare alla sacralità della terra, cioè della vita. Tutto questo lo clice con voce pacata e autorevole un uomo corpulento, lunghi capelli bianchi, un occhio spento ma l'altro acuto e vigile. Hyemeyohsts Storm (il nome è impronunciabile ma lui acconsente a farsi chiamare anche White Wolf, Lupo Bianco) è un indiano Crow di 65 anni e in America è una celebrità. Il libro che è venuto a far conoscere in Italia Sette Frecce (lo ha appena pubblicato la casa editrice Corbaccio) è stato scritto nel 1972, è diventato subito un best seller negli Stati Uniti ed è adesso (tradotto in quasi tutte le lingue) alla 46° edizione.
Per capire il linguaggio di Hyemeyohsts Lupo Bianco, bisogna prima di tutto sgombrare il campo da alcuni sospetti e pregiudizi. Il più forte di tutti, che questo scrittore indiano venuto ad annunciare la sua personale buona novella non sia che uno dei tanti ingredienti delle confuse culture millenaristiche, nate dalla cattiva co-scienza dell'Occidente e stemperate nella marmellata New Age. Uno dei tanti ecologisti dell'anima.
Ma Lupo Bianco prende le distanze da tutte le facili ricette di felicità distribuite ai quattro angoli del globo da astuti sciamani e locupletati santoni. In realtà quello che ha fatto è stato concentrare nelle pagine del suo libro una sapienza molto antica, sotto forma di poetici apologhi, ("parabole laiche", lui le chiama). Sette Frecce racconta la vita, i costumi, le credenze degli indiani delle pianure, in un linguaggio simbolico di cui lo stesso autore si preoccupa di fornirci le chiavi. Un prezioso documento storico, innanzitutto, che documenta una cultura estinta in tutta la sua straordinaria ricchezza e ne illustra l'attitudine magica che portava gli indiani a riconoscersi parte dell'essenza spirituale del creato.
Ma Storm ha inteso fare di più. "Gli anziani del mio popolo - dice - hanno deciso di affidarmi il segreto della loro sapienza perchè io la tramandi e ne faccia parte a tutti gli uomini. E io ritengo straordinaria la coincidenza che abbiano deciso di trasmettermi queste conoscenze proprio nel momento in cui tutti gli uomini della terra ne hanno disperatamente bisogno".Che sia un pò esaltato Lupo Bianco? Leggiamo la possibile risposta nella tormentata vicenda della sua vita, la vita di un ragazzo meticcio, nato da uno sconosciuto padre tedesco, subito dileguatosi, e da una sbandatissima ragazza Crow,.cresciuto senza genitori in una riserya Cheyenne, accudito in gruppo dai più anziani. Alla tragedia del loro popolo gli indiani cercano di sfuggire bevendo o americanizzandosi fino in fondo. Qualcuno riconoscendo con fierezza la propria origine. Ma Hyemeyohsts non può fare neppure questo. Perchè è un sangue misto. Vorrebbe arruolarsi nell'esercito, andare a combattere in Vietnam per dimostrare che anche lui, meticcio, è un bravo figlio dell'America. Ma ci vede male da un occhio e lo rifiutano alla leva. E' alla disperazione.
Sarà una vecchia donna a salvarlo. Una sarta che vive ai margini della riserva. "Non una donna qualunque - racconta -una donna santa". Estcheemah (questo è il suo nome) si prende cura di quell'indefinita creatura che barcolla fra due mondi, senza appartenere a nessuno, riporta Hyemeyqhsts indietro, nel cerchio della sua origine, gli insegna a danzare le antiche danze sacre, lo educa severamente, infine gli trasmette la sua antichissima sapienza. E' nato Lupo Bianco, non più, reietto ma consapevole.
"Corriere della Sera" del 21 Febbraio 1998
NEW YORK - Bill Clinton non è l'unico leader americano a mettere a rischio il posto per uno scandalo a luci rosse. Il capo della più grande e importante tribù indiana d'America è stato costretto alle dimissioni per aver dilapidato quasi 100 milioni di lire rubate alla propria gente per un'amante segreta. La notizia, volata come un tam tam da una riserva all'altra del Paese, ha creato una profonda lacerazione nella psiche di un popolo convinto fino a qualche tempo fa che gli abusi di potere e la corruzione fossero una malattia tipica dei visi pallidi.
Al centro dello scandalo riportato ieri dal New York Times è Albert A. Hale, presidente della Navajo Nation, la più grande ed influente riserva indiana d'America con ben 12 milioni di acri che si estendono dal New Mexico allo Utah, all'Arizona e sono abitati da circa 3OOmila persone. Hale, un elegante avvocato amico dei Clinton e di casa all'Onu, era stato eletto tre anni fa proprio con la promessa di porre fine alla rampante corruzione e ai conflitti politici che negli ultimi tempi minacciavano l'unità della gloriosa tribù.
Oltre a rifiutarsi per ben due volte consecutive di aprire la porta dei Navajo ai casinò - una delle massime fonti di reddito ma anche di droga e corruzione nelle altre riserve - si era battuto per la sovranità territoriale del suo popolo."Era uno dei più agguerriti avvocati del diritto delle tribù ad essere nazione dentro una nazione", scrive il New York Times, che lo definisce "uno dei leader indiani nuovo stile, che si muovono liberamente dalla Casa Bianca all'Onu". Come gesto simbolico per dimostrare al mondo l'autodeterminazione dei Navajo, tempo fa Hale propose di chiudere per un giorno le strade della riserva. Le tribù l'applaudirono in coro.
Ma dietro quella facciata populista, la vita nella riserva con lui non era affatto migliorata. Il tasso di disoccupazione era rimasto al 30% e tre abitanti su 10 continuavano a vivere in abitazioni senza acqua ed elettricità. Mentre il suo popolo languiva, Hale se la spassava con l'amante e i soldi sottratti dalle casse dello Stato. Il primo ad accorgersene è l'agguerrito
quotidiano Navajo Times che non esita a pubblicare un articolo sugli intrallazzi illeciti del grande capo.
L'articolo spinge il procuratore generale dei Navajo a nominare un investigatore speciale (una sorta di Kenneth Starr, il castigamatti di Clinton), che per ben cinque mesi spulcia nella vita privata di Hale, scoprendo che ha usato le carte di credito della tribù per la donna con cui tradisce la moglie. Il presidente nega ma in cambio delle dimissioni ottiene la chiusura dell'indagine. In rispetto della tradizione Navajo, chi l'ha costretto ad andarsene gli offre subito solidarietà morale. "Nel nostro sistema di clan, Hale è mio figlio - spiega l'88enne Kelsey Begaye, del Navajo National Council, il corpo legislativo della tribù. - Noi genitori sappiamo bene che quando i nostri figli soffrono, anche noi soffriamo con loro".