«Sostenere la qualità per rilanciare l’agricoltura»

Fabio Rosati intervista

Vincenzo Aita

(Responsabile per le politiche agricole – PRC)

Liberazione 27 novembre 1997

I trattori imperversano su strade ed autostrade della penisola e nelle campagne dilaga un palese malcontento. La vertenza delle quote latte, con tutte le sue contraddizioni, è fedele testimone di un settore in fermento, di una politica agricola troppo debole per far valere gli interessi del Paese, di clientelismi ed incapacità. Non è un caso che l’Italia, almeno per quanto riguarda il settore primario, sia un po’ il fantoccio d'Europa. Lo sanno bene in sede comunitaria, dove la nostra agricoltura è stata troppo spesso oggetto di scambi clientelari, di poco trasparenti affari. Quello che sta accadendo in questi giorni è solo la punta di un iceberg. Eppure il settore primario rappresenta un serbatoio di infinite potenzialità, «a patto - sottolinea Vincenzo Aita, responsabile per le politiche agricole di Rifondazione - che si inizi a mettere ordine e si pensi ad un suo serio rilancio».

Cerchiamo di andare oltre la vertenza latte e facciamo un discorso più organico sull'agricoltura. Quali le priorità da affrontare?

Partiamo da un dato inequivocabile: l'Unione europea spende 9mila miliardi l'anno in Italia per sostenere i prezzi. La maggioranza di questi fondi - e qui sta la questione cruciale da affrontare - ha una sola destinazione: finisce nelle tasche di chi semina cereali, va ad incrementare la rendita della grande aziende. L'anomalia è quasi una vergogna: l’80% dei contributi è percepito dal 20% delle imprese che non producono né ricchezza, né occupazione.

Rifondazione comunista chiede che ci sia un'inversione di rotta, una svolta. Come può avvenire?

Da tempo siamo impegnati in un'azione volta a tutela dei prodotti mediterranei, della tipicità delle zone. Al centro della nostra battaglia c'è la difesa del lavoro insieme alla produzione di qualità, che vuoi dire, poi, tutelare i consumatori. Al centro di questa politica non può che esserci la piccola-media azienda e quindi un riequilibrio nella distribuzione delle risorse. In assenza di un cambio di rotta, sarà impossibile, per chi è di minime dimensioni, sostenere i costi per se e per i lavoratori dipendenti.

In altre parole, la qualità al posto della quantità.

Si , se vuoi dirlo con uno slogan è proprio cosi. Ti faccio un esempio che non ha bisogno di commenti. Chi attraversa in treno l’Italia centrale, soprattutto tra Umbria e Toscana, può osservare con i propri occhi che nel mese di dicembre ci sono ancora piantagioni di girasole lasciate marcire sui campi. Non è incuria o mancanza di manodopera bracciantile, è il segno di una logica perversa che sta producendo solo danni ed impoverendo l'agricoltura. I possessori di grandi appezzamenti di terreno (come i piccoli, ma il fenomeno in questo caso è meno rilevante) prendono il contributo comunitario sulla quantità di ettari e sui semi, senza che ci sia l'impegno a coltivare il terreno.

Dall'Europa all'Italia, quali sono i prossimi impegni del Partito?

Lo scorso gennaio abbiamo presentato una mozione alla Camera, avente come primo firmatario il presidente dei deputati, Oliviero Diliberto, per il rilancio di tutto il settore. Chiediamo che se ne discuta subito dopo la finanziaria. Il governo italiano deve attivarsi affinché l'Unione europea si doti di una capacità di ricerca alternativa a quella delle multinazionali, con progetti legati al territorio ed alla valorizzazione delle culture eco-compatibili, non dimenticando il rilancio delle aree depresse, quali quelle del nostro meridione. Non si può pensare ad un rilancio se non si sostiene la priorità del valore del lavoro bracciantile, definendo i criteri di contributi per unità di prodotto rapportato alla quantità di lavoro, destinando quote di finanziamento a quelle produzioni che richiedono più manodopera, anche ai fini del recupero dell'evasione dei contributi previdenziali agricoli e per la lotta al lavoro nero, il tanto diffuso caporalato.

La sceneggiata dei tanti che fingono di non sapere

Fabio Rosati

In Europa, nel quadro dell'attuazione del trattato di Maastricht, si passerà dall'attuale 9,3% di occupati nel settore agricolo, sul totale degli occupati, al 7% nel 2005. In particolare, in Italia, il calo degli addetti sarà del 4,5%, a tutto danno dell’occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno. Dal dopoguerra ad oggi, gli occupati nel settore primario sono passati, sempre nel nostro Paese, da oltre sette milioni e mezzo, a meno di due milioni. Erano il 37,5%, l’Italia era un paese prevalentemente agricolo adesso sono l’8,7%. La Coldiretti, che ieri l'altro ha chiamato a raccolta oltre 500mila contadini in tutte le province, in questi lunghi anni non ha avuto altra preoccupazione che quella di difendere il Paese dal "pericolo rosso".

L'organizzazione, fondata nel '44 e guidata per trentasette anni da Paolo Bonomi, ha fedelmente costituito un notevole serbatoio di voti per l'ex Dc, in cambio di una massiccia dose di assistenzialismo. Non è un caso che l'inquilino di via Venti Settembre sia stato sempre un democristiano, così come non è un caso che l'agricoltura non sia mai stata messa in condizione di crescere, di essere valorizzata, di rappresentare un volano per l'economia del Paese. Il clientelismo, che ha connotato tutte le gestioni della Coldiretti, da Bonomi, appunto, per passare a Lobianco, Micolini fino all'attuale Bedoni, ha fatto si che si sposassero politiche scellerate, a danno della nazione, dei contadini, della qualità dei prodotti.

Adesso il settore primario è a pezzi, la tipicità mediterranea garantita dalla piccola-media azienda sull’orlo della scomparsa, mentre le multinazionali con i loro prodotti "anonimi" imperversano, dettando spietate leggi di mercato. In sede comunitaria addirittura è stato deciso di premiare il set-aside, ovvero, di dare incentivi per abbandonare la terra, mentre a pochi passi da noi c'è penuria di pane. In questi giorni assistiamo alla farsa di chi fa finta di non sapere, reclamando maggiore attenzione verso il mondo agricolo ed organizzando manifestazioni di piazza per strumentalizzare il diffuso malcontento. E tra chi riesce ad andare avanti a stenti, c'è anche chi ha sfacciatamente lucrato. Una domanda sorge spontanea: dov'era la Coldiretti, dov'erano le altre organizzazioni quando si decidevano le sorti del settore primario?