« In maggioranza o fuori, la bussola è il protagonismo delle masse»
«Il nostro antagonismo» Piergiorgio Bergonzi intervista Fausto Bertinotti |
Liberazione 19 ottobre 1997
Abbiamo votato la fiducia al governo, dopo una crisi nel corso della quale ci siamo messi in gioco fino in fondo per affermare un progetto e contenuti di trasformazione. Quali sono i cambiamenti intervenuti da quando quella casi è iniziata?
Io credo che man mano che passano i giorni la differenza si vede. Fino all'immediata realizzazione dell'intesa la polarizzazione crisi/accordo aveva sempre dominato. I contenuti potevano così essere oscurati, l'interrogativo era: <<Rifondazione comunista ha resistito oppure si è piegata?». Peraltro, dominava - lo dico senza alcun vittimismo - il segno di un regime che ha teso a individuare in noi la forza nemica. Non si può nemmeno dire bene di che cosa: nemica, una definizione onnicomprensiva. Questa stretta è proseguita nel tentativo di configurare l'accordo semplicemente come una nostra resa; così come, prima, Rifondazione comunista diventava colpevole della crisi, così dopo diventava quella che aveva ceduto perché aveva preso paura.
Con questo argomento è stato giustificato l'atteggiamento di chi aveva rifiutato le proposte del Prc; oppure, la tesi secondo cui il governo aveva dato quel che doveva dare. Finché si è rimasti nel cielo astratto della politica, si è potuta spacciare questa raffigurazione; oggi non sta più in piedi. Perché, come sempre, i fatti hanno la testa dura: oggi la Confindustria sceglie una mobilitazione furiosa contro uno dei punti di quell'accordo, manifestando non un'intemperanza ma una precisa ostilità all'obiettivo della riduzione dell'orario di lavoro e alla modalità con cui viene perseguito. E' un'avversione che si manifesta persino ventilando un blocco delle trattative sui rinnovi contrattuali, cioè con un'adombrata delegittimazione del negoziato e col tentativo di coinvolgere il sindacato, con lo spauracchio della riduzione dei salari.
Non possiamo dire per semplificazione "ciò che non piace alla Confindustria è buono per noi e per la sinistra"; ma indubbiamente bisogna ragionare sul perché questa Confindustria, che al momento della rottura militava interamente per difendere la finanziaria del governo, all'indomani dell'accordo attacca il governo su un punto cruciale, quello che contribuisce a fare la differenza tra la risposta da cui era scaturita la crisi e la situazione di oggi. Noi non dobbiamo fare operazioni propagandistiche, dobbiamo lavorare anche a trasformare questo accordo in un'energia politica programmatica del governo ed è per questo che accetto la formula usata da Prodi, «non ci sono vincitori né vinti».
Eppure un contrasto c'è stato e delle modificazioni sono intervenute.
Appunto, ricostruiamo i fatti: cosa chiedevamo quando il presidente del Consiglio con la sua replica ci ha portati a votare contro la finanziaria? Abbiamo detto che «non avremmo avuto la crisi» se lo spostamento ottenuto sulla sanità, attraverso l'indicazione della riduzione di alcuni ticket e interventi di segno riformatore come lo sbocco garantito per i precari, fosse stato riprodotto su due terreni essenziali quali l'occupazione e le pensioni. Invece, l'apertura sulla sanità è rimasta l'eccezione ed è rimasta imprigionata in una risposta sull'occupazione che non dava alcuna certezze e in un'altra sulle pensioni carica di ambiguità. Se noi avessimo accettato quella conclusione avremmo lasciato assorbire tutte le nostre istanze dentro un tritacarne che le avrebbe fatte uscire, nell'azione del governo, totalmente irriconoscibili.
Sull'occupazione noi abbiamo detto: date una certezza, vi facciamo due proposte, quella della riduzione dell'orario, a data certa e attraverso un disegno di legge, e quella di un piano di assunzioni. Questultima nostra richiesta è stata ridotta male; dovremmo tornarci, per spiegarla bene e per parlare con tanti giovani, che vorrebbero fare esperienza di autogoverno, di cooperative. Ad essi può essere parsa massimalista mentre non lo era, giacché le assunzioni nella pubblica amministrazione erano e sono una salvaguardia che in extrema ratio, dopo aver sollecitato politiche di nuova occupazione con le imprese, con le cooperative nel Mezzogiorno, garantirebbero in caso di esito negativo un intervento pubblico che oltre al progetto si impegna anche all'assunzione. Ma, tornando al momento della crisi, tanto su questultima quanto sulla proposta della riduzione d'orario, pur assumendo le istanze che noi ponevamo, ci era stato detto di no proprio sul terreno delle certezze: cioè sul segno del cambiamento di una politica.
Ora, tu dici, questo si intravede, a partire dalla riduzione dell'orario di lavoro. E' o non è qualcosa di più di unazione diciamo così riformista, e può o meno segnare una scelta di civiltà?
Oggi la riduzione dell'orario di lavoro è una riforma di struttura: una condizione per combattere la disoccupazione, perché di fronte alla continua innovazione tecnologica e alla ricerca di competitività, all'integrazione economica europea, anche la crescita e la ripresa non sono in grado di determinare l'occupazione se non c'è una politica distributiva del lavoro. Diciamo dunque che la riduzione d'orario è una condizione sufficiente? No: ci vuole un nuovo sviluppo, ma senza la riduzione dell'orario di lavoro non si fa niente. D'altra parte - e questo deve riguardare anche la nostra elaborazione - essa non investe soltanto elementi esterni alla popolazione lavorativa esistente, ma anche un elemento interno, cioè il miglioramento della qualità della vita. Appunto, una prospettiva di civiltà che si riapre e che deve chiamare in causa la rimessa in discussione del rapporto fra il tempo di lavoro e quello delle altre attività umane.
Dobbiamo, insomma, parlare anche a soggetti come le donne, come i giovani, perché questa prospettiva riguarda anche loro, non solo i lavoratori occupati e disoccupati; riguarda la messa in discussione della divisione sessista nella famiglia, la possibilità di ritagliare per ogni persona insieme al lavoro anche una quota di attività di manutenzione della propria persona, dei propri cari degli ambienti vicini. E ancora: la riduzione dell'orario di lavoro riapre la possibilità di intervenire anche sull'organizzazione e sui tempi del lavoro e della produzione. In Italia è anche un modo per intervenire sul dualismo tra nord e sud. Perché va rovesciato l'argomento confindustriale: siccome è vero che la disoccupazione in Italia è prevalentemente a Sud, e al Nord invece ci sono realtà che sono già prossime al pieno impiego, l'obiezione di alcuni settori industriali è «ma allora tu provochi una nuova emigrazione». Non è vero, anzi.
Il governo ha dichiarato, fra laltro, di voler favorire il decentramento di alcune parti dell'apparato produttivo del Nord verso il Sud, anche creando delle convenienze per le imprese nel Mezzogiorno, combattendo le grandi attività criminose che ne strangolano il tessuto e migliorando la qualità della vita, la struttura dei servizi, le infrastrutture; questoperazione per così dire di bonifica può essere anche in grado di attrarre nuove imprese settentrionali precisamente sulla spinta della riduzione d'orario. Essa può produrre l'ondata di emigrazione, oppure un'operazione di decentramento dell'apparato produttivo nel Mezzogiorno, moltiplicando in una primavera quel primi fiori costituiti dalle aziende che cominciano accettare questo obiettivo. Va detto che la Confindustria risponde con l'egoismo di interessi di classe, anzi direi proprio con una pigrizia egoistica; perché si è abituata troppo bene, per lunghi anni gli incrementi di produttività sono stati sussunti e assorbiti interamente dal sistema delle imprese, non distribuiti. Una Confindustria abituata così, quando la riduzione dell'orario di lavoro propone l'utilizzo di una parte dell'incremento della produttività per realizzarsi, risponde con unistanza conservativa, ripete "no, tutta la produttività a me". Ma questo è davvero miope: così la Confindustria da un lato si rende totalmente estranea alla domanda su come si risponde alla disoccupazione in Italia e in Europa e dall'altro dice, con una sorta di moderna asocialità, che l'aumento della ricchezza deve andare alla sola impresa, mentre riparte la ripresa.
Ma allora, come si sostiene questo risultato cosi impegnativo?
Adesso già vediamo le reazioni, ma ne vedremo ancora di più; il percorso che abbiamo aperto con l'impegno di un disegno di legge da elaborarsi entro il gennaio del '98 che preveda la riduzione a 35 ore per il primo gennaio 2001, realizza un avvicinamento ad una nostra richiesta ad un livello senza precedenti. Ci sarà uno scatenamento di forze conservatrici, perché davvero dopo tanti anni è la prima volta che viene un elemento chiaramente innovativo, in direzione dell'interesse dei lavoratori e dei disoccupati. E la prima rottura della politica dei sacrifici. Lanno scorso ottenemmo un risultato importante, la difesa delle pensioni, della sanità, pur concorrendo a una politica di risanamento gigantesca; ma dal punto di vista delle politiche di sinistra, progressiste, l'obiettivo che noi abbiamo pensato era difensivo, anche se con grande risultato rispetto alle manovre finanziarie precedenti, in ultimo del governo Dini.
Oggi introduciamo una novità saliente, per la prima volta otteniamo una conquista non difensiva ma offensiva, con una rimessa in discussione di una parte importante e strategica della politica economica. Per questo le reazioni saranno violentissime; e allora bisogna sapere che una conquista così non può difenderla Rifondazione comunista da sola. Il problema non è solo la costruzione del movimento, delliniziativa, del contagiare il sindacato, i sindacati, di base, di categoria, confederali, extraconfederali, con questa tematica e con questa capacità rivendicativa fondamentale; ma è anche dislocare in questa linea di trasformazione nuovi soggetti, appunto le donne, i giovani con loro domanda di qualità, la costruzione insomma di unopinione democratica attiva per la riduzione dell'orario di lavoro.
Come si è potuto realizzare questo passaggio nell'attuale maggioranza parlamentale e con un governo giunto alle dimissioni?
Non abbiamo discusso questa proposta solo avendo corso il rischio della crisi e, anzi, avendone avuto il coraggio. Però quello è stato il passaggio necessario. Vorrei che tutto il partito, lo dico senza iattanza, fosse orgoglioso di questa prova così difficile: perché senza passare per i giorni drammatici della crisi e anche dellisolamento nei confronti di una certa opinione pubblica, senza questa tenuta del partito, senza questa prova non avremmo ottenuto quel risultato. Abbiamo dovuto subire-realizzare la crisi precisamente perché non era venuta una risposta. Adesso, con la reazione della Confindustria, si vede che restando a quel punto tutti gli impegni sarebbero stati traditi; ora la reazione è scattata perché c'è stato quel traguardo, non esaustivo del problema ma che stimola realmente la contrattazione, portando le parti sociali a contribuire alla definizione di un disegno di legge.
Abbiamo realizzato da soli un tale traguardo? No: c'è stato il provvidenziale atto nuovo realizzato dal governo francese. Eravamo in una situazione nella quale alla Camera sia noi che il centrosinistra dicevamo "Vive la France ", ma attribuivamo a questo fare come la Francia due significati diversi. Tutti gli esponenti di sinistra ci avevano spiegato che la Francia in realtà avrebbe fatto quel che stava proponendo il governo italiano, cioè una legge quadro di incentivi. Noi non sapevamo cosa si sarebbe deciso a Parigi, ma quando invece Jospin ha annunciato la decisione coraggiosa di realizzare con la legge la riduzione a 35 ore il primo gennaio del 2000 abbiamo individuato lanello della catena da tirare: anche voi come noi avevate detto "facciamo come in Francia", allora facciamolo.
L'impatto dell'azione dei governo francese investe di una novità lo scenario europeo...
Bisogna rifletterci: il contagio in Europa negli anni scorsi è sempre state il contagio monetaristico, muoveva di Maastricht, dai due grandi capisaldi di quella politica, la Bundesbank e il governo Kohl. Per la prima volta invece il contagio si produce su una linea di riforma come quella della riduzione dellorario. Non esageriamo, ma comincia ad affacciarsi l'Europa sociale, dopo gli anni della prigione dell'Europa monetaria. Io credo che noi abbiamo avuto la lucidità politica di cogliere al balzo questo sintomo. Avevamo già avanzato la proposta di un governo di programma per un anno; e non sulla base di una presunta paura per la tenuta del partito e per l'immensa difficoltà prodotta dal suo accerchiamento in quel clima di regime forse superiore alle previsioni, ma a partire dal fatto che nel momento in cui la crisi è precipitata si è visto che non cera una soluzione maturata e che si è riflettuto anche sulle eventuali elezioni anticipate, che avrebbero premiato le destre oppure avrebbero consegnato una situazione sostanzialmente immutata.
Avevamo sviluppato la nostra ipotesi sulla base di queste considerazioni e sulla base della costituzione a noi cara, quella per cui un partito antagonista come il nostro non può rimanere mai senza una proposta positiva. E abbiamo avuto l'occasione per rilanciarla. Al punto della riduzione d'orario abbiamo ancorato due altri elementi: uno di contenuto, riguardante la questione dello stato sociale, e uno politico, riguardante la strutturazione e la composizione della maggioranza.
Sulle 35 ore, un anno o anche sei mesi fa, ci davano dei matte Ora il nostro contributo si affianca a quello dei francesi e si misura in risultati.
Qui davvero c'è un elemento straordinario di riscontro della nostra impostazione politica. Ti ricorderai che la prima sortita europea, quella di Parigi, delle forze appartenenti al gruppo della sinistra unita a Strasburgo, nacque su una nostra proposta che aveva al centro proprio la questione della lotta alla disoccupazione per la riduzione dell'orario del lavoro...
Tu hai detto che quello attuale è un risultato grande ma non acquisito, linizio di un processo di lotta. E hai riconosciuto più volte che ogni accordo è un compromesso: unobiezione che viene da settori sociali vulnerati, per esempio nella scuola, anzitutto fra i precari, é che abbiamo chiesto il ritiro della finanziaria e ora ci accingiamo a votarla. A cosa abbiamo dovuto rinunciare in nome del compromesso?
Vorrei rispondere lealmente. Intanto, contro la tesi della inamovibilità della finanziaria siamo intervenuti su due punti veramente decisivi e abbiamo detto che voteremo alla fine del percorso questa finanziaria. Bisogna quindi cogliere il significato di questi due mutamenti iniziali e definire il percorso attraverso cui si può, congiuntamente alle altre forze della maggioranza, introdurre ulteriori evoluzioni. Quando abbiamo parlato di compromesso dinamico abbiamo colto nel segno: sullorario si vede benissimo, quell'approccio ha reso possibile la data conclusiva del percorso. Anche nella finanziaria: abbiamo spostato 500 miliardi dalla riduzione delle spese a maggiori entrate dalla lotta all'elusione e all'evasione. E' una cifra significativa? Cambia la natura della lotta all'evasione? No, ma indica una qualificazione riformatrice del governo; è come se si dicesse "guardate, oggi non riusciamo a far molto di più ma è vero che bisogna andare in questa direzione". Un germe diverso dalle finanziarie precedenti.
Laltro intervento è sul sistema pensionistico. Abbiamo fatto una battaglia a fondo e da soli per difendere le pensioni di anzianità; e abbiamo ottenuto spostamenti progressivi nel governo, fino a quella replica non soddisfacente dove la garanzia ai lavoratori operai e manuali di poter andare in pensione secondo la legge Dini era una formula ambigua che divideva ancora il mondo del lavoro, mentre non solo molti altri lavoratori sarebbero stati coinvolti dall'equiparazione del pubblico impiego al privato; ma in quest'ultimo molti avrebbero avuto un rinvio della pensione. Siamo riusciti in unoperazione importante lavorando sul termine "equivalente", stabilendo definitivamente che in ogni caso tutti i lavoratori, operai e manuali, dellindustria, del pubblico impiego, dei servizi, vengono garantiti, andranno in pensione come ci vanno oggi; e chiarendo che lo sono anche i lavoratori non operai, impiegati intermedi che stanno agli stessi livelli di qualifica dellattività operaia, se hanno le stesse condizioni di gravosità. In conclusione: un elemento che entrerà nella trattativa sindacale su pensioni e stato sociale, l'altro che segnala un problema nella finanziaria.
Da una parte dobbiamo intervenire per condizionare la trattativa tra governo e sindacato in modo che sulle pensioni si assicuri la maggior parte della popolazione; dall'altra dobbiamo far entrare nella finanziaria altre istanze, raccogliendo indicazioni che Prodi ha dato rispondendo alle nostre sollecitazioni. Come sugli investimenti per la scuola. Indicazioni ambigue, perché non concretamente misurabili nella finanziaria, ma che possiamo far vivere. Fin qui la dinamica. Qual è il vincolo? E' che dobbiamo portare tutta la maggioranza su questa questione, sugli emendamenti che traducano quelle istanze; a partire dalle forze più sensibili, quelle che dicevano «avete ragione ma non rompete».
In effetti, ci sono nella finanziaria diversi aspetti da correggere. Ed è possibile che rimangano dei punti di disaccordo: mi pare molto difficile che si modifichi la sostanza dei tagli alla scuola, anche se cè l'impegno ad un investimento di mille miliardi nel triennio. Ma veniamo ad un altro punto, il comportamento del partito in tutta questa fase: cè stato o no un disorientamento, si ripropone o meno un problema di capacità progettuale e di mobilitazione?
Indubbiamente abbiamo subito un isolamento, un accerchiamento per effetto combinato di due fenomeni completamente diversi. Luno è un senso comune diffuso, che si esprime nella formula "buono o cattivo che sia questo governo è il mio governo", come gli americani nei confronti della loro bandiera. E anche il frutto di una crisi profonda della sinistra, della politica come trasformazione, ma insomma, ma c'è il segno di una motivazione nobile, il tema dell'unità. A questo però si è aggiunta una reazione di quellestablishment che nella società contemporanea si costruisce intorno alle potenze dellopinione, che ha fatto della stabilità il valore assoluto della politica e che designa ogni soggetto che introduce linstabilità quali che siano le ragioni per cui lo fa, come nemico. Vi individua il capro espiatorio contro cui scatenarsi e distruggerlo. Vorrei si interrogassero le coscienze democratiche e liberali, perché questo è un rischio per la società futura; l'essere sottoposti noi oggi a quest'attacco deve far riflettere tutti su quello che può succedere a chiunque.
Ma di fronte a questo elemento come ha retto il partito? Intanto, ha retto. Un passaggio così difficile poteva provocare il peggio, l'implosione del partito e del suo gruppo dirigente. Invece ha retto lunità del secondo, ha retto la coesione del primo. La condivisione di fondo delle scelte c'è stata, sè sentita. Quanto si è sentito il franare, tuttintorno, di aree dopinione anche vicine sui contenuti ma che si esprimono ancora con quella formula sentita tante volte "tenete duro ma non fate cadere il governo". Nessuno sa bene come reagivano gli insediamenti sociali più profondi. Dovremo capirlo: perché non è così facile decifrare come strati profondi della società reagiscono a queste circostanze, se quelle formule che appartengono ad unopinione informata riguardano anche loro. Daltra parte, credo che il partito debba riflettere sulla sua insufficiente proiezione esterna. Ancora una volta il partito regge ma non promuove.
E forse c'è stata una non piena sorveglianza sul fatto che non possono darsi in una situazione di quel genere comportamenti che ordinariamente si possono creare. Non parlo naturalmente del dissenso esplicito, che nei gruppi dirigenti e fuori è legittimo anche nei momenti più acuti di crisi; quel che invece è sbagliato è determinare altri comportamenti, che possono in qualche modo indebolire l'efficace espressione del partito. Una tenuta e dei limiti, dunque. A fronte di questo, dobbiamo sapere che la nostra prospettiva può dover passare per momenti molto difficili: che non si può metterla al riparo pensando di poterli evitare ad ogni costo, perché così si ucciderebbe la prospettiva. Noi abbiamo visto che anche laccordo di oggi è figlio della sfida della crisi di ieri: quel che vale nella congiuntura vale per la strategia. Vorrei che non si facesse anche al nostro interno lerrore che fan spesso i nostri avversari: il nostro antagonismo non si misura sulla nostra collocazione al governo o all'opposizione, nella maggioranza o fuori. Questo si sceglie in rapporto all'azione e al programma di governo; che in ogni caso sono lazione e il programma d'un governo di coalizione, quindi anche nel migliore dei casi lasciano aperte le prospettive al movimento ma non risolvono i problemi della società contemporanea.
Questi problemi invece vanno depositati, anche attraverso lazione con cui si influenza il governo, nella costruzione di un movimento di massa per la trasformazione. Viviamo e siamo antagonisti perché siamo forza critica della moderna società capitalistica, delle disuguaglianze che questa propone. Quel che è fondamentale per costruire questo antagonismo è avere la bussola della crescita del protagonismo e della partecipazione di massa, lungo una linea che costruisce un nuovo blocco sociale. Come si fa a non vedere che se un deficit c'è stato, è stato quello della costruzione di movimento? Abbiamo operato una supplenza attraverso la radicalità della nostra impostazione, ma esposti così continuamente al rischio o della rottura o della subalternità. Anche stavolta l'abbiamo evitato, imboccando un sentiero strettissimo. Ma bisogna saperlo: o si modificano i rapporti di forza nella società, o si costruiscono nuove capacità di aggregazione, oppure alla fine questa nostra prospettiva è appesa a ciò cui non la vorremmo appendere, cioè alla politica-politica, alla sua autonomia. Ecco perché penso che la manifestazione del 25 vada vissuta e pensata come un ricominciare dal movimento la partita che abbiamo giocato obbligatoriamente, a livello generale.