Quella riduzione d’orario scritta nella Costituzione

Luigi Arata

Liberazione 27 novembre 1997

"La durata massima della giornata lavorativa è stabilita per legge"; così sancisce l'articolo 36 della Costituzione; e ciò costituisce un imperativo, e non già una mera prescrizione di discrezionalità.

Come dire, che se si procede ad innovare circa la durata dell'orario di lavoro, ciò va sanzionato per legge e che ogni possibile concertazione o consultazione fra le parti sociali ha, dal punto di vista dell'ordinamento Costituzionale, portata solo preparatoria o istruttoria, che dir si voglia.. Quindi l'intervento governativo, previsto nell'accordo che ha posto fine alla recente crisi, non deve essere riguardato solo come un’extrema ratio, nell'ipotesi che la concertazione fra le parti non pervenga a un esito proficuo; bensì come un intervento attuativo e necessario del precetto costituzionale.

Ora, le ragioni profonde che sottostanno all'articolo 36, sono ben chiare, ma varrà la pena di ricordarle e sottolinearle alla luce dell'attuale situazione sociale ed economia del paese: restringere la questione della riduzione dell'orario di lavoro entro i confini della cosiddetta concertazione significa deprimere in termini riduttivamente economicistici (o come dire produttivistici) un problema invece di portata globale quale quello della qualità della vita di ciascuno di noi. Significa voler evitare che al questione debordi dal terreno tutto privatistico delle relazioni industriali (cosi come vorrebbe la Confindustria) in quella come è giusto che sia, della politica sociale "tout court"; e cioè in una sfera pubblica per eccellenza.

Al contrario, rivendicare, come la Costituzione prevede, la requisizione allo strumento legge della disciplina del lavoro, in ogni suo aspetto (anche quindi per quanto concerne l'orario), sta a denotare l'esigenza primaria della difesa del lavoro contro ogni possibile attacco; la garanzia da parte dell'ordinamento costituzionale, nel suo assieme, del lavoro; che non è una variabile rigorosamente dipendente dell'economia (come si vuole dal pensiero liberale), bensì l'architrave della nostra società: qui gioverà ricordare che il lavoro è la connotazione identificativa della Costituzione repubblicana (articolo 1) .

Ciò detto, e per passare a un ordine più spicciolo di considerazioni; se è spiegabile l'atteggiamento di ripulsa assunto al riguardo da Confindustria (per il cui gruppo dirigente non è temerario supporre che la nostra Costituzione, circa la sua parte progressiva e di indirizzo, rappresenta una "trappola", o quanto meno un impaccio), incomprensibile appare l'atteggiamento stizzito dei vertici sindacali; nei cui confronti è da chiedere se ciò non risponda solo ad una difesa, alquanto meschina ed esclusivista, dei poteri di rappresentanza; e niente altro. Ancor meno spiegabile risulta infine la posizione di molti settori della sinistra moderata, per i quali l'unica spiegazione possibile resta quella di un'acquiescenza tanto supina, alle ragioni e alla pretesa di "eternità" del vigente assetto socio-economico, da indurla a subire la menomazione degli stessi principi fondamentali della Costituzione.