Il primato dell’interesse generale

Alberto Burgio

Liberazione 21 dicembre 1997

Basterebbe il primo articolo della Costituzione per aprire e chiudere subito il discorso. E non sembri demagogico. «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». E' bene leggere e rileggere, stamparselo bene in mente. E cominciare subito a porsi le domande serie e dure che questo «principio fondamentale» pone. Cosa significa oggi «fondata sul lavoro»? Lo chiediamo non ai nemici della Costituzione del ‘47 o ai suoi più o meno teneri (ed educati) avversari. Lo chiediamo a quanti, tra i suoi difensori, si smarriscono poi quando dalle parole si passa ai fatti, come nel caso della battaglia per la riduzione del tempo di lavoro. E si che è proprio la Costituzione che chiede che la durata massima della giornata lavorativa sia stabilita dalla legge. Veramente, dopo Thatcher e Reagan (e Bush, e Clinton) sarà un Blair a conferire plausibilità al binomio deregulation-piena occupazione? Finché questa domanda non avrà una risposta limpida il riconoscimento del valore del primo testo costituzionale rimarrà debole e susciterà legittimi sospetti.

Questo sul primo articolo. Sul resto, le cose sono ancor più nette. Il tema della Costituzione del ‘47 è, a ben guardare, uno. L’affermazione del primato dell’interesse generale e delle ragioni collettive. Tra pubblico e privato, i costituenti ebbero forse tentennamenti, ma alla fine scelsero in modo inequivocabile. E il primato delle istanze generali ispira il testo della Carta e i suoi articoli essenziali. Si ha un bell'insistere sulla pluralità irrisolta degli orientamenti dei "padri della Patria". Quel che sortì dal loro impegno è un insieme coerente di norme e di principi ispirato all'affermazione della preminenza dell’interesse pubblico. Si capisce che venga oggi colpito e che se ne intenda sterilizzare l’insidiosa valenza progressiva.

Pochi esempi, in particolare quelli che rinviano a una idea della politica come servizio e delle istituzioni come strumenti per la promozione dei soggetti discriminati. Sanità («cure gratuite agli indigenti») ; scuola («I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»); assistenza («Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale»). E non fu solo welfare. Fu dichiarazione di lotta contro quel gigantesco processo di privatizzazione dello Stato e della ricchezza sociale che era stato il fascismo (art. 43). Fu affermazione solenne del diritto all'indipendenza economica (art. 36), cioè del principio cardine delle rivoluzioni borghesi che - declinato universalisticamente - entrava in collisione con la logica stessa della riproduzione capitalistica.

Si trattava di un gigantesco progetto di redistribuzione delle risorse e delle chances, incommensurabilmente più serio (e quindi pericoloso per gli interessi dominanti) delle chiacchiere odierne sul welfare delle opportunità. Un progetto di inclusione, di allargamento, di partecipazione. La chiave dell'assalto mosso oggi alla Carta del ‘47 sta nella sconfitta storica di questo progetto.

Sbaglia chi ritiene che la Costituzione si sia dimostrata vecchia e che per questo si cerchi di cambiarla. Non di un aggiornamento si tratta, ma di una operazione di sterilizzazione. Alla quale occorre rispondere con la rabbia e la determinazione di chi si vede sottratto il frutto di una conquista fondamentale e si sa minacciato dalla sua neutralizzazione.