Un conformismo ci fu davvero: ma non era antifascista Giampasquale Santomassimo |
Liberazione 21 dicembre 1997
Si usa dire oggi che nel 1945 sarebbe calata sul paese una pesante cappa di "conformismo antifascista", che avrebbe pervaso ogni aspetto della società italiana.
Nulla di più falso. Solo dopo il luglio 1960 e la caduta del governo Tambroni lantifascismo e la Resistenza entreranno a far parte del patrimonio culturale di gran parte degli italiani, attraverso uno sforzo unitario di "educazione civica" dei cittadini. Si terranno cicli di lezioni e di testimonianze nelle scuole, si costituirà quel "paradigma antifascista", spesso criticato da sinistra per il suo carattere retorico e assolutorio, ma che era comunque preferibile al silenzio e alla rimozione degli anni precedenti.
Cosera accaduto, infatti, nel quindicennio precedente, in quei "lunghi inverni" della Resistenza? Molti uomini della Resistenza si erano sentiti quasi esuli in patria, maturando spesso quellatteggiamento di "delusione storica" che si sarebbe ben presto materializzato nel mito della Resistenza tradita. Un mito sterile, ma motivato da fatti incontestabili. Dopo l'amnistia per i fascisti decretata da Togliatti (che non era un "colpo di spugna" ma che tale sarebbe divenuto per l'interpretazione estensiva da parte della magistratura) si apriva la lunga fase dei processi ai partigiani. Tutto quanto viene sensazionalmente riscoperto oggi negli scoop giornalistici, dal "triangolo della morte" a Porzûs, è in realtà ampiamente documentato nelle cronache e nei processi degli anni Cinquanta. Non si teorizzava, per la verità, una "equidistanza" tra quelli che in seguito sarebbero stati definiti gli "opposti estremismi". Già durante la campagna elettorale del 1948 i rapporti di polizia sottolineano la "affidabilità" anticomunista del Msi, e lasciano trasparire una evidente simpatia per il ricostituirsi di un punto di aggregazione delle "forze sane della nazione".
E, come risulta dai documenti diplomatici americani, nel luglio del 1952 De Gasperi dichiarava allambasciatore statunitense che i fascisti «senza dubbio combatterebbero dalla nostra parte in caso di guerra, mentre ciò non è vero per i comunisti» (intrattenere gli ambasciatori stranieri, infatti, non era prerogativa dei soli dirigenti del Pci, come si usa dire oggi).
Si usa anche dire che in quegli anni si sarebbe affermata una soffocante "egemonia" comunista nella cultura italiana. Comprendiamo il dramma degli autori rifiutati da Einaudi e "costretti" a pubblicare da Mondadori e da Rizzoli con tirature e guadagni molto più ampi, ma la verità è che nelle scuole italiane si studiava sui libri di testo fascisti, con una blanda riverniciatura clericale. I programmi di storia non andavano oltre la prima guerra mondiale (definita spesso la "quarta guerra di indipendenza"), e alcuni provveditori agli studi erano soliti motivare la festa del 25 aprile con l'anniversario della nascita di Guglielmo Marconi.
Le cronache delle celebrazioni ufficiali della Liberazione, del resto, sono esemplari nel loro schema ricorrente: Santa Messa in ricordo dei caduti di tutte le guerre, omelia del Vescovo e discorso delle autorità infarcito di retorica nazional-patriottica.
Si usa dire che in quegli anni sarebbe stato rimosso il termine guerra civile. E vero: si parlava di "guerra fratricida" fra gli italiani, deprecandola e auspicando il suo superamento in vista della grandezza della Patria.
Le stesse celebrazioni "di parte" della Resistenza, organizzate da Associazioni non più unitarie, divise secondo gli schemi della dialettica politica, riflettono quel senso di isolamento e quasi di accerchiamento che l'antifascismo sembra vivere nei primi anni della Repubblica "nata dalla Resistenza" (ma la fortuna di questa formula appartiene in realtà agli anni Sessanta).
E' in questo contesto che il patto costituzionale del 1947-48 viene messo alla prova, e la vicenda della sua attuazione - o, meglio, della sua inattuazione - è tra le più illuminanti sul particolare clima di quegli anni. In moltissimi terreni la Costituzione repubblicana resterà lettera morta. Il più grande giurista antifascista dellepoca, Piero Calamandrei, conierà la formula della "inattuazione programmatica della Costituzione" da parte dei governanti e delle istituzioni.
Se nel linguaggio della stampa italiana la Resistenza era "il cavallo di Troia" dei comunisti, per un presidente del Consiglio in carica, Mario Scelba, la Costituzione era una «trappola» da cui guardarsi. «Parlare della Costituzione, invocarne i principi politici e sociali, sa di sovversivo» notava Luigi Longo celebrando il decennale della liberazione su lUnita.
Un primo, importante, elemento di rottura di questo clima avvenne nel 1955 grazie a Giovanni Gronchi, figura che andrebbe ridiscussa e in parte rivalutata. Mentre nellaltro ramo del Parlamento il presidente del Senato Cesare Merzagora, candidato ufficiale della Dc alla presidenza della Repubblica, pronunciava il più classico dei discorsi celebrativi del tempo («il governo e le forze armate e il popolo tutto si apprestano non certamente ad esaltare la lotta fratricida in sé e per sé (...) ma i supremi ideali... [che] non debbono essere retaggio duna sola parte del popolo italiano», concludendo con lauspicio che il «calvario sofferto additi finalmente al paese la strada dellamore per la patria che tutti vogliamo operosa»), Gronchi il 22 aprile celebrava solennemente alla Camera il decennale della Liberazione riproponendo in modo molto netto lattualità dei valori della Resistenza, «moto popolare nel senso più largo della parola», e lesigenza che da essi scaturiva di un profondo rinnovamento dello Stato e - finalmente dellattuazione della Costituzione. Il discorso di Gronchi, lungamente applaudito, veniva poi "affisso in tutta Italia" per voto di gran parte della maggioranza e dellopposizione di sinistra. Con quel discorso Gronchi poneva le basi della sua elezione alla più alta carica dello Stato, avvenuta pochi giorni dopo. E nel suo discorso di insediamento dell11 maggio, ribadiva che una «ansia di rinnovamento» si levava «a cuore aperto da ogni zona dellopinione pubblica», e, soprattutto, che la Costituzione repubblicana esisteva e andava rapidamente attuata.
Di fatto Gronchi cambiava rotta rispetto alla disinvolta "nonchalance" di Einaudi, presidente tanto sopravvalutato dagli storici quanto inerte sul terreno dellattuazione costituzionale che avrebbe dovuto essere al centro del suo alto mandato. Gronchi imponeva a governo e parlamento lattuazione della Corte costituzionale, architrave indispensabile di tutto lequilibrio istituzionale, e spingeva per lattuazione dellordinamento regionale. Dopo una memorabile battaglia parlamentare si giungeva allistituzione della regione a statuto speciale del Friuli-Venezia Giulia. Ma bisognerà aspettare il 1970 per arrivare allattuazione dell'ordinamento regionale: frutto di una stagione e di una cultura ormai mutate, in cui finalmente lantifascismo e la Resistenza venivano ricollocati all'origine della Repubblica.
Al di là degli elementi di polemica e, anche, di demistificazione dei luoghi comuni ricorrenti su questi temi, bisognerebbe finalmente ripercorrere in maniera documentata i tratti di questa storia, alla ricerca degli elementi di rottura e di contrapposizione fra i contraenti del patto costituzionale ma anche del filo di dialogo che faticosamente viene mantenuto aperto.
Il vero e più grosso problema storiografico, che qui si può solo segnalare, è costituito dalla doppiezza della Repubblica italiana nei suoi primi anni di vita. Si intrecciano e si sovrappongono una costituzione scritta e una costituzione materiale, il patto costituzionale antifascista e il patto politico-istituzionale anticomunista. Si creano un doppio Stato e una doppia fedeltà, divisi tra Costituzione repubblicana e Patto Atlantico.
La stessa Costituzione, con il suo carattere programmatico, è molto più avanzata della società e delle istituzioni: non le rispecchia, ma addita un cammino da seguire.
Lantifascismo, lungi dallessere egemone, è stato minoritario e diviso fra tradizioni distinte. Nessuno può dire oggi quanto alto sia stato il prezzo che la società italiana ha pagato per la rottura del patto antifascista, per la lacerazione che ha impedito il costituirsi di un senso di appartenenza civile, unitaria e condivisa, ispirata ai valori della Costituzione. Né sappiamo per certo se essi sono integralmente riproponibili cinquantanni dopo, in un mondo e in un contesto nazionale radicalmente mutati. Sappiamo per certo che in ogni caso è da li che dovrà ripartire ogni progetto di sviluppo del paese che voglia lasciarsi alle spalle il passato, senza falsificarlo e senza rimuoverlo.