Lavorare meno: una rivoluzione naturale e necessaria.

Gemma Contin

Liberazione 28 novembre 1997

Non è così lontana dalla nostra memoria l'epoca, resa famosa prima dai romanzi inglesi di Cronin e poi dalla televisione in bianco e nero di Alberto Lupo, in cui le lavoratrici delle filande inglesi piuttosto che i minatori del Galles lottavano per ridurre da 18 a 12 ore giornaliere il loro massacrante lavoro.

E non e così lontana dalla nostra consapevolezza quella dolente dei bambini delle zolfare siciliane, i famosi "carusi", che lavoravano nudi, "do' lustro o' lustro" (dalla luce alle luce), a scavare e trasportare zolfo dai giacimenti a cielo aperto di Enna o Agrigento.

Riguarda ancora la vita concreta delle nostre madri l'epoca delle mondine di "Riso Amaro", infilate nell'acqua fino all'inguine per poche lire al giorno; e ci riguarda in prima persona quella dei tanti primi nostri compagni di lavoro, la cui vita veniva annientata dai ritmi di sfruttamento del famigerato cottimo.

E' cambiato tutto, ed è cambiato così tanto e cosi velocemente da atrofizzare la memoria, e non ci è dato di sapere se le svolte epocali della prima rivoluzione industriale o il passaggio dell'Italia dalla dimensione arcaico-rurale a quella moderna e urbanizzata avranno inciso sulla vita, sull'organizzazione della società e sulla divisione del lavoro più di quanto stia mutando, convulsamente, fuori dalla capacità di esercitare un controllo democratico, il paradigma della vita, della società, del lavoro e del non-lavoro, che i processi di globalizzazione ci stanno costruendo addosso.

Crediamo che la riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore settimanali sia meno rivoluzionaria e sottragga meno al capitalismo italiano delle svolte epocali fin qui ricordate; e crediamo che il capitalismo italiano potrebbe evitare le scomposte reazioni a cui ci ha fatto assistere, in fondo per niente diverse da quelle recitate a inizio secolo o nel recente dopoguerra; tant'è che il modo di produzione capitalistico non è crollato, nonostante le minacce, né allora né ora, purtroppo.

E' un linguaggio vecchio e obsoleto? Usiamone allora uno nuovo e attuale.

Il nuovo paradigma deve avere in sé il seme della liberazione dalle nuove forme di sfruttamento, tanto subdole quanto al di sotto della soglia della percezione, e dalla loro pervasività dentro e in ogni momento della vita quotidiana.

Il telefono cellulare, il pc portatile, la postazione domestica di telelavoro, la "scrivania virtuale" o condivisa, come recitano le elaborazioni sull'ottimizzazione dei "costi sociali degli spostamenti urbani", tanto care a De Masi e Negroponte, o le teorizzazioni, che molti di noi si bevono a bocca aperta, sulla "sinergizzazione della dimensione spazio-temporale della postazione di lavoro", altro non sono che strumenti e meccanismi per far slittare e sovrapporre (schiftare, in gergo) il tempo di lavoro nel tempo di vita, o di non-lavoro, in modo che tutto si confonda e diventi non misurabile, si diluisca e svapori dalla sfera del lavoro codificato, da retribuire, alla sfera del lavoro sociale allargato, tipicamente quello femminile, mai codificato e, proprio per questo, mai retribuito; in modo che ognuno di noi ceda inconsapevolmente una quota sempre più estesa della sua vita alle logiche suadenti e al tempo stesso ricattatorie del capitalismo globale.

Ancora non ce ne rendiamo conto ma stiamo assistendo al fenomeno attraverso cui la globalizzazione procede alla "femminilizzazione" del lavoro, e quindi alla progressiva dissolvenza delle ragioni fondanti e della giustificazione scientifica della sua remunerazione in quanto componente del processo di produzione.

Queste dinamiche .vanno costantemente, pervicacemente, svelate e demistificate. Fino a questo momento soltanto Fausto Bertinotti pare che se ne sia accorto.