35 ore per legge, per cominciare

Andrea Fumagalli

Liberazione 20 dicembre 1997

Dopo settimane di grande ottimismo (non ultimo il trionfalistico editoriale di Veltroni sull'Unità di mercoledì scorso), i dati sulla crescita della disoccupazione gettano acqua sul fuoco e ripropongono in modo drammatico la carenza strutturale di lavoro nel nostro paese. Nello stesso tempo, si ripropone l'urgenza della riduzione dell'orario di lavoro, unitamente ad altri provvedimenti di giustizia contributiva e distributiva, come strumento più realistico per andare incontro alle troppe aspettative di occupazione, finora ampiamente frustrate. In proposito, occorre ricordare, con realismo, che l'accordo che prevede al 1 gennaio del 2001 il passaggio a 35 ore di lavoro settimanali a parità di salario non può essere considerato una conquista generalizzata per il mondo del lavoro italiano, bensì solo un primo punto di partenza. Non solo la riduzione d'orario può essere discussa laddove essa è materia di contrattazione, cioè solo dove vigono forme di contrattazione collettiva (i lavoratori salariati dipendenti), ma all'interno dello stesso lavoro dipendente le 35 ore settimanali verranno applicate solo a coloro che operano in imprese con più di 15 addetti, vale a dire 8,4 milioni di lavoratori, circa il 40% della forza-lavoro complessiva.

Di fronte a questa prospettiva, l'accordo sulle 35 ore assume più il valore di cambio di prospettiva per iniziare un nuovo livello di relazioni industriali piuttosto che di punto d'arrivo di una politica economica volta a ridurre l'elevata disoccupazione attuale. Inoltre la stessa opposizione sindacale all'accordo in nome della salvaguardia della concertazione/contrattazione contro l'imposizione per legge diventa qualcosa di patetico. In primo luogo perché, da che mondo è mondo, la riduzione d'orario viene sancita anche e soprattutto per legge, in secondo luogo perché qualsiasi intervento legislativo non ha mai bloccato o impedito lo sviluppo delle relazioni industriali, al limite ha favorito l'attività di contrattazione sindacale, vincolando la controparte al rispetto di alcune tutele fondamentali e al raggiungimento di alcuni obietti (vedi il caso dello Statuto dei Lavoratori); in terzo luogo, perché svela ancora una volta di più come la legittimazione dell’esistenza stessa del sindacato confederale oggi non si fonda più sulla forza e sulla capacità autonoma di contrattazione, bensì sul riconoscimento istituzionale del proprio ruolo da parte delle controparti (siano essi i padroni o il governo). Tanto è vero che nel momento in cui la carenza (incapacità?, non volontà?) di iniziativa contrattuale viene supplita da iniziative politiche, immediatamente il sindacato grida allo scandalo o al complotto proprio per il venir meno della legittimazione istituzionale e la perdita del monopolio contrattuale che ne consegue.

Da questo punto di vista, l’accordo sulle 35 ore rappresenta una preziosa inversione di tendenza nell'ambito delle relazioni economiche: è infatti la prima volta negli ultimi quindici anni che viene messo sul piatto della bilancia contrattuale un tema non proposto (imposto) dalla controparte padronale o dall’esigenza di rispettare i parametri di Maastricht. Infine, occorre considerare (e non è cosa da poco) che la lotta alla disoccupazione in un contesto di permanenza strutturale della stessa e all’interno di un processo di accumulazione flessibile, assume connotazione sociali che fuoriescono dall’ambito delle relazioni industriali, diventa problema politico e sociale generale, da affrontare nell’alveo delle decisioni di governo di tipo legislativo.

In un contesto come quello attuale, in cui le tradizionali forme di intermediazione sindacale sono sempre meno rappresentative, la prevalenza della contrattazione individuale su quella collettiva non è più solo una caratteristica del lavoro autonomo ma si diffonde sempre più anche all’interno del lavoro dipendente. Si tratta dell’esito di quella pratica sindacale di concertazione che ha eliminato qualsiasi afflato di conflittualità da parte del sindacato stesso in seguito all’appiattimento costante e progressivo sulle esigenze di compatibilità e profittabilità della logica di impresa. A differenza che in altri stati (Francia e Germania, ma anche Stati Uniti, le politiche di concertazione in Italia hanno significato soprattutto subalternità culturale, economica e contrattuale piuttosto che rivendicazioni di finalità economiche e sociali, da difendere e sviluppare anche con pratiche conflittuali. La possibilità di ridurre la disoccupazione passa anche per questo difficile ed impervio terreno.