L'ispirazione keynesiana

Il genio economico di un piano politico

Nico Perrone

Liberazione 1 giugno 1997

Dietro il piano Marshall c’è una logica di development, intrisa di spirito del New deal: è un’osservazione che potrebbe sorprendere, ma mi pare che vada fatta. Il clima risentiva ancora di spinte d’ispirazione keynesiana: il limite - anche per responsabilità dei dirigenti politici dei paesi beneficiari - è che queste spinte furono indirizzate specialmente a favore degl’interessi degli Stati Uniti. Il segretario di stato George C. Marshall, d’altronde, veniva dall’amministrazione Roosevelt, ove aveva avuto la massima responsabilità logistica nella guerra, e il presidente, Harry S. Truman, era stato un protagonista del New deal.

Finora il piano Marshall lo si è per lo è più considerato solo uno strumento di genialità politica, perché con gli aiuti - che venivano largamente utilizzati, o propagandati a fini di sostegno dei partiti anticomunisti - gli USA promuovevano l’economia di mercato in Occidente e contrastavano al tempo stesso l’offensiva politica sovietica.

Il piano può considerarsi invece soprattutto un capolavoro di genialità economica, assai più avanzato degli interventi analoghi che gli USA hanno successivamente promosso nel mondo. Gli Stati Uniti avevano dinanzi a sé enormi problemi: quello della riconversione industriale a fini di pace, e quello dell’esaurimento delle scorte. Fra le scorte c’era di tutto: dai tessuti démodés degli anni di guerra alle navi da trasporto Liberty, ormai superate. Per rimettere in moto l’economia americana, occorreva dunque smaltire il surplus agricolo e industriale, sostenere la rete di trasporti marittimi, penetrare stabilmente sui mercati europei attraverso la trasformazione della mentalità dei compratori e l’imposizione dei medesimi standards industriali d’oltre oceano. Bisognava pensare a un mercato per lo sviluppo, che ancora non poteva essere immaginato in termini di globalizzazione, ma doveva essere grande abbastanza per accogliere i prodotti americani.

L’Unione Sovietica di Stalin tutto questo non poteva capirlo, perché aveva una logica di piano collettivista e tendenzialmente chiusa, difensiva, non universalistica. E dunque l’URSS, pur essendo stata invitata a partecipare al progetto, ne rimase fuori e costrinse anche Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria a non prendervi parte.

In Europa occidentale c’erano problemi del tutto diversi. Mancavano le materie prime, i combustibili, i macchinari. Mancava soprattutto una spinta alla ripresa, e il piano Marshall ebbe un effetto tonificante, di development appunto, in buona parte per influssi psicologici. Questo determinò - specie in alcuni paesi deboli nello spirito nazionale, come l’Italia - un atteggiamento servile di lungo periodo verso gli USA.

Se invece ci si vuole basare soltanto sui numeri, il piano Marshall si fa presto a liquidarlo. Si trattò in tutto di 13,3 miliardi di dollari (pari a 65 miliardi di oggi) di aiuti economici e assistenza tecnica che gli USA hanno convogliato verso 16 paesi europei dall’aprile 1948 al 1954. Secondo un’analisi radical americana, con questa modesta cifra il piano ha assicurato "la sopravvivenza del capitalismo mondiale" (J. - G. Kolko).

Per quanto concerne l’Italia, gli aiuti ammontarono complessivamente a 1 miliardo e 519 milioni di dollari di donazioni e 96 milioni di dollari di prestiti. A comporre queste cifre contribuiscono, per ben l’80 per cento, macchinari, derrate e combustibili di produzione americana. In particolare, i finanziamenti per macchinari andarono al di là delle richieste italiane, perché queste forniture venivano incontro alle esigenze di smaltimento dell’industria americana. Accadeva invece che le richieste italiane per il grano venissero decurtate del 43,36 per cento, quelle per il carbone dello 80,46 per cento, quelle per l’acciaio e la ghisa del 90,69 per cento, quelle per i prodotti petroliferi del 44,43 per cento. Mentre venivano fornite merci non richieste: persino cotone, tabacco, latte condensato, polvere d’uovo, frutta fresca e secca. Si trattava di beni di cui l’Italia non necessitava, che talvolta produceva in concorrenza con gli Stati Uniti o che aveva maggiore interesse a reperire su altri mercati, ma c’era una logica nel graduare in modo differenziato lo sviluppo delle singole economie europee.

L'Italia si situò al terzo posto fra i destinatari dei fondi erogati dagli Stati Uniti, con il 10,6 per cento, contro il 23,2 andato alla Gran Bretagna e il 20,8 alla Francia.

La crescita annuale della produzione industriale italiana segnò un incremento del 6,6 per cento nel 1948, del 10,3 nel 1949, del 15,0 nel 1950, del 13,8 nel 1951. Ma questi tassi di crescita erano calcolati partendo dalla stasi succeduta alla guerra (il livello del 1946 raggiungeva appena il 61 per cento e, quello del 1947, l’81 per cento rispetto al 1938) e quindi erano scarsamente significativi.

Va tenuto conto anche dello sperpero che accompagnò gli aiuti americani. Essi venivano alienati dallo stato con criteri clientelari, a favore di privati, a prezzi inferiori dal 40 al 60 per cento rispetto a quelli di mercato, ovvero venivano ceduti gratuitamente a enti ecclesiastici, che contribuivano a sostenere le campagne elettorali anticomuniste della Democrazia Cristiana.