I tempi mediatici e gli inviolabili segreti del potere

Nico Perrone

Liberazione 21 novembre 1997

La vicenda della morte di Enrico Mattei ha trovato una prima conclusione ufficiale, perfettamente in linea con quelle di tutte le altre inchieste sulle stragi. Dopo trentacinque anni dai fatti, e due e mezzo dall’avvio dell’ultima inchiesta (22 maggio 1995), la procura di Pavia ha messo il proprio suggello su di una verità da tempo acquisita dall’opinione pubblica internazionale: l’esplosione in volo dell’aereo del presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi fu provocata da una bomba.

Quanto alla procedura seguita dalla procura di Pavia, essa appare perfettamente adeguata alle esigenze mediatiche del nostro tempo. Una lungha inchiesta, tenuta ufficialmente nella riservatezza; ieri il primo annuncio ufficiale sul rinvenimento di tracce di esplosivo nei resti dell’incidente, ma dopo che indiscrezioni erano già filtrate sulla stampa (26 ottobre 1995); e infine la suspense, con l’annuncio di un altro comunicato su ulteriori risultati.

Ma intanto una richiesta di rinvio a giudizio c’è già, per il largo pubblico. E’ diretta contro un agricoltore, Mario Ronchi, il quale per ora è l’unico ad essere inchiodato alle sue "responsabilità". Che sarebbero quelle di aver reso dichiarazioni contrastanti: quindi favoreggiamento in omicidio aggravato plurimo e false dichiarazioni. Ronchi aveva detto di aver visto "il cielo rosso che bruciava come un grande falò" e i pezzi dell’aereo di Mattei che "stavano cadendo sui prati" (Corriere della sera, 28 ottobre 1962). Ma queste sue parole disturbavano la verità di stato del tempo, e il povero contadino fu chiamato dai carabinieri a ritrattare: "Ha confermato di non aver affatto visto l’aereo precipitare, precisando che dei giornalisti cercarono di fargli dire che l’aereo era esploso in volo" (sentenza del giudice istruttore di Pavia, 31 marzo 1966). L’istruttoria che portò alla prima sentenza di Pavia, fu talmente preoccupata di escludere la presenza di esplosivo sull’aereo, che non ordinò neppure una perizia sull’esitenza di polveri o di tracce di scoppio nei resti. Ronchi non dev’essersi reso conto che lo spirito dei tempi oggi esige qualche finezza, e che avrebbe dovuto tornare alla prima versione.

E’ difficile dire se in tutto questo, e nel suo epilogo odierno, possa vedersi un segnale - quello consueto, sulla inviolabilità dei segreti del potere, in tutte le sue espressioni, interne e internazionali -, o più semplicemente una manifestazione di incredibile formalismo, che potrebbe scadere nel ridicolo, se non fosse per le conseguenze che ne sta patendo un uomo di 74 anni, costretto a pagarsi un avvocato e a subire nuovo stress.

Il comunicato di ieri della procura di Pavia - con i connessi relativi a Ronchi - poteva esserci risparmiato. In passato si preferiva archiviare, in un gioco sfacciato ma chiaro e immediato (il "porto delle nebbie", si chiamava la procura di Roma). Oppure tanto valeva attendere ancora un po’, per andare molto oltre Ronchi e indicare, se non nomi di mandanti ed esecutori dissoltisi nelle tenebre, almeno quale intreccio di responsabilità - politiche ed economiche - c’era dietro l’omicidio di un uomo che ha spostao gli equilibri mondiali del petrolio a favore del nostro paese e ha esercitato grande influenza per spingere l’Italia verso una posizione di neutralità, proprio mentre, con la crisi dei missili di Cuba, si stava per precipitare nella terza guerra mondiale.