Quella "sgradevole" soluzione che si chiama risparmiare energia

Giorgio Nebbia

Liberazione 4 dicembre 1997

I conti si fanno (abbastanza) presto. Ogni anno le attività umane, le città, le fabbriche, i campi, le automobili, i camion, immettono nell'atmosfera qualcosa come 25 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e qualche centinaia di milioni di tonnellate di ossidi di azoto, metano, composti clorurati e altri ancora. Questa gran massa di gas deriva dai combustibili fossili, dai cementifici, dai concimi, dagli incendi delle foreste, sia nei paesi industrializzati, sia in quelli sottosviluppati del Sud del mondo. Gran parte di questi gas restano nell’atmosfera la cui composizione chimica si sta rapidamente modificando: proprio come avviene in una serra, in cui l'energia solare entra ma il tetto di vetro o di plastica ne impedisce l'uscita all'esterno, anche i gas che si accumulano nell'atmosfera fanno si che una parte del calore solare resti intrappolato sulla superficie della Terra e ne provochi un lento graduale riscaldamento.

Questo "effetto serra" planetario influenza il clima, i raccolti, le piogge, il livello dei mari. In certe zone della Terra aumentano, e aumenteranno, le alluvioni e in altre avanzeranno i deserti; intere popolazioni dovranno migrare dalle zone costiere allagate o da quelle desertificate.

Che fare? Purtroppo la soluzione è una sola e sgradevolissima: occorre consumare meno combustibili fossili, modificare molti processi produttivi, merci, macchinari, autoveicoli, riorganizzare la struttura delle città, ripensare l'agricoltura e la difesa dei boschi. Come? Di quanto? Quando? Sono le domande a cui dovrebbero dare risposta i delegati delle nazioni riunite in questi giorni a Kyoto, in Giappone. Inutile dire che le multinazionali del petrolio, dell'automobile, del cemento sono scatenate perché nessuna decisione venga presa: parlare di usare "meno" energia, nel nome della difesa della salute e della sicurezza delle generazioni future, suona bestemmia in questo capitalismo ormai globale.

Poi ci sono i paesi del Sud del mondo che hanno bisogno, per uscire dalla miseria, di energia, di cemento, di mezzi di trasporto, di concimi, di spazio coltivabile, anche a spese delle foreste: siano i paesi industriali, essi dicono, a diminuire i loro consumi di energia, il loro gigantesco contributo all'effetto serra, e lascino che noi si raggiunga un qualche livello di crescita economica. A Kyoto siamo di fronte ad un ennesimo episodio della arroganza e miopia dei paesi capitalistici del Nord del mondo, ad uno scontro fra i titani della finanza e degli affari. Siamo anche di fronte ad un fallimento della ricerca tecnico-scientifica: niente viene fatto verso soluzioni tecniche accettabili per l'uso di energie rinnovabili, se si eccettuano quattro motori a vento o quattro pannelli fotovoltaici, qua e là; niente viene fatto per migliorare i processi di combustione in modo da abbattere i "gas serra", per razionalizzare le tecniche agricole, per estendere la superficie dei boschi, che sono poi i grandi "depuratori" che eliminano naturalmente almeno una parte dell'anidride carbonica immessa nell'atmosfera dai nostri camini e dai tubi di scappamento.

Ma soprattutto è il fallimento della politica: la salvezza ecologica del pianeta - che è poi la difesa della salute delle donne, dei lavoratori, dei bambini, degli anziani, la difesa dei paesi e delle classi povere - può venire soltanto dalla pianificazione: dalla capacità dei governi di fare previsioni corrette e intelligenti, di indicare quali merci devono essere prodotte e usate, quali processi vanno incentivati e quali scoraggiati. Dalla capacità di mettere in discussione il dio "consumo" e spreco e rifiuto e questo tipo di crescita pseudo-economica; dall'incapacità di riconoscere che il grande mutamento imposto dall'effetto serra è l'unico capace di creare occupazione e reale miglioramento della vita, reale sviluppo, nel Nord e nel Sud del mondo.