DOCUMENTO DI POLITICA INTERNAZIONALE DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA |
(Documento approvato dalla Direzione Nazionale il 6 giugno 1997)
Negli ultimi 20 anni il mondo è stato investito da un enorme processo di ristrutturazione capitalistica che ne ha sconvolto gli assetti economici, sociali, culturali e geopolitici.
Questa ristrutturazione si distingue per un elevatissimo grado di finanziarizzazione del capitale, per la mondializzazione della produzione, per la liberalizzazione crescente del commercio, per le trasformazioni tecniche della produzione di beni e servizi, per una concentrazione senza precedenti nei settori delle produzioni agricole e dellinformazione, per la moltiplicazione di soggetti economici multinazionali e transnazionali.
Dal punto di vista geopolitico la scomparsa del "blocco socialista" e degli assetti bipolari del mondo rappresenta un evento di portata storica le cui conseguenze sono ancora gravide di ulteriori sconvolgimenti difficili da prevedere.
Il processo che viene comunemente identificato con il concetto di "globalizzazione" non è una semplice dilatazione quantitativa dei mercati e delle aree produttive, non è cioè descrivibile con la categoria tradizionale dello sviluppo e dellespansione del sistema capitalistico. E invece un salto di qualità, una nuova fase del capitalismo.
Lo testimonia la prevalenza crescente dellaspetto finanziario anche nei settori produttivi classici, sia industriali sia agricoli, la comparsa di soggetti finanziari assolutamente svincolati da qualsiasi logica produttiva, il dominio delle politiche monetariste, lenorme flusso di capitali al di sopra di qualsiasi controllo anche delle stesse banche centrali a loro volta resesi autonome dal potere politico.
Lo testimonia il numero e la natura delle società multinazionali e transnazionali che 20 anni fa erano centinaia ed oggi sono circa 40.000, così come limpetuoso processo di concentrazione in tutti i settori economici dimostrato dal fatto che il fatturato delle 200 principali società è pari ad un quarto dellattività economica mondiale.
Lo testimonia il processo di omologazione sociale, politica e culturale indotta dallo stesso meccanismo di sviluppo del sistema economico e implementato dallideologia neoliberista che è stata giustamente definita per questo "pensiero unico".
Si tratta indubbiamente di una nuova fase del capitalismo che produce ed è destinata a produrre nuove ed inedite contraddizioni.
Non è questa la sede per tentare una analisi organica e compiuta della ristrutturazione capitalistica e dei suoi effetti, ma nellambito di una sommaria descrizione della situazione si possono già enucleare alcuni concetti utili alla comprensione di quanto si va muovendo a livello mondiale.
Con la ristrutturazione capitalistica in corso appare sempre più evidente che il lavoro umano conosce una nuova fase di mercificazione e di alienazione. Al contrario che nella fase precedente lespansione capitalistica, per effetto di diversi fattori tra i quali la finanziarizzazione e le nuove tecnologie, tende contemporaneamente a creare disoccupazione e a far arretrare i diritti e la dignità dei lavoratori. Le 200 società più importanti e che rappresentano il 25% del fatturato mondiale impiegano lo 0,75% della manodopera disponibile a livello planetario, in generale le società che incamerano maggiori profitti sono quelle che hanno proceduto a violenti processi di ristrutturazione eliminando gran parte della forza lavoro e trasferendo le attività produttive inseguendo il più basso costo del lavoro. Al contrario che nel passato, per effetto della selvaggia deregulation e della competitività assunta come molla fondamentale dello sviluppo, la stessa creazione di posti di lavoro in zone del terzo mondo nella maggioranza dei casi non corrisponde alla creazione di veri e propri mercati interni con una conseguente redistribuzione delle ricchezze prodotte. La proprietà delle imprese, la caduta di ogni barriera doganale per il capitale finanziario e diversi altri fattori provocano semplicemente lo sfruttamento selvaggio di ingenti masse di lavoratori nel terzo mondo e la conseguente debolezza contrattuale dei lavoratori dei paesi ricchi nella lotta contro la perdita di diritti, di sicurezza sociale e di dignità. Questa competitività è al ribasso e non genera nuovi equilibri e nuove compensazioni. Al contrario nei paesi poveri produce ristrette élite di ricchissimi, una crisi dei già esigui e fragili "ceti medi", la vera e propria uccisione delle economie di sussistenza delle popolazioni rurali che infatti tendono inesorabilmente ad inurbarsi. Nulla a che vedere con la fase del passaggio da uneconomia feudale o semifeudale ad una moderna economia industriale con conseguente creazione di un mercato interno e con le riforme agrarie connesse. Accanto allarretramento delle condizioni dei lavoratori vi è un immenso processo di esclusione sia nel nord sia nel sud del mondo. I consumi insistono e si intensificano in mercati che a livello macroeconomico non si espandono. Si può produrre e commerciare dappertutto ma la minoranza che consuma si riduce in percentuale sulla popolazione mondiale divorando una maggior quantità di risorse mentre la parte più povera che muore o appena sopravvive aumenta in assoluto e in percentuale. Vi sono innumerevoli dati che descrivono freddamente questo fenomeno, sono i dati della FAO, dellUNICEF e dellOMS. Vi sono paesi poveri che nellultimo decennio hanno conosciuto un costante incremento del PIL dove sono aumentati i poveri, dove si sono abbassati i salari (a volte in modo incredibile) e dove sono state cancellate gran parte delle già scarse protezioni sociali. Il FMI e la Banca mondiale dal 1990, per la prima volta in questo secolo, non prevedono alcun programma economico per una popolazione di circa 1 miliardo e duecento milioni di esseri umani. Negli stessi paesi ricchi le sacche di povertà, come è noto, sono in costante crescita fino a costituire, per esempio negli USA, vere e proprie zone territoriali di sottosviluppo paragonabili a quelle dei paesi poveri, mentre è costante e generalizzato lattacco ai diritti dei lavoratori e ad ogni forma di sicurezza sociale.
Lo stesso concetto Nord-Sud è profondamente rimesso in discussione dal fatto che nel Sud vi sono zone ad altissimo tasso di sviluppo capitalistico, anche se nelle nuove forme soprascritte, mentre nel Nord crescono zone che sprofondano verso condizioni di povertà ed insicurezza assolute. Il fenomeno delle migrazioni sempre più strutturale e di massa contribuisce a modificare ulteriormente il quadro che una volta veniva appunto descritto con il concetto Nord-Sud. E quello dei flussi migratori di massa uno degli aspetti peculiari più drammatici dellattuale situazione internazionale. E forse più appropriato parlare di centro-periferia comprendendo nel concetto di centro anche le zone sviluppate dei paesi poveri e le élite che in quei paesi consumano come, e a volte di più, di quelle dei paesi ricchi, e nel concetto di periferia anche le zone di vero e proprio sottosviluppo di tanti paesi ricchi.
Esclusione, emarginazione, insicurezza, vecchie e nuove forme di povertà e miseria, crescente alienazione del lavoro. Questi i tratti salienti, e feroci, del modello sociale neoliberista.
Ma uno dei punti di forza di questo modello consiste nella capacità di frantumare, dividere e contrapporre fra loro tutti i soggetti reali o potenziali oppositori del sistema. Nei paesi ricchi la classe operaia diminuisce in numero e soprattutto in peso politico-sociale sia per effetto della centralità della finanza rispetto alla produzione sia per le conseguenze sociali e culturali che questa induce. Basti pensare alla metamorfosi dei grandi centri industriali europei che hanno conosciuto le delocalizzazioni, il sorpasso del terziario rispetto alle attività produttive, laffermazione di nuovi modelli di vita e di relazioni sociali improntate alla competitività come valore assoluto. I lavoratori hanno paura di perdere il posto, sono stati costretti ad accettare condizioni via via più svantaggiose sia dal punto di vista salariale sia dal punto di vista della stessa propria dignità nel rapporto con la produzione e con la proprietà, oggi viene loro detto che dovranno rassegnarsi alla precarizzazione e alla perdita delle tutele sociali garantite dello stato. Tutto ciò mina alle fondamenta la loro stessa identità sociale e li rende perfino terreno di conquista di nuove forme di corporativismo, xenofobia e intraprese politiche reazionarie. Anche le lotte sindacali più coerenti dal punto di vista di classe si scontrano inevitabilmente con la dimensione sovranazionale del capitale e con i processi di finanziarizzazione. Cè la sensazione diffusa che "non ce la si faccia" per quanto giuste siano le rivendicazioni e coscienti le lotte. La strada della rinuncia, della delusione, della rassegnazione spesso viene percepita come una amara, realistica necessità. E vero, vi sono lotte significative, per alcuni aspetti perfino più ampie che nel passato, ma la loro natura è inequivocabilmente difensiva e la loro dimensione nazionale. Altrettanto certo è il fatto che senza resistere ai colpi dellavversario non può esservi nessuna speranza per qualsiasi ulteriore conquista. Ma è ormai evidente che la necessità di conquistare dimensioni sovranazionali, sia nellopposizione alle politiche neoliberiste sia nelle lotte per nuove rivendicazioni, è ormai improrogabile.
La "globalizzazione" e il "pensiero unico" non si limitano, però, a far arretrare le condizioni di vita di masse sempre più grandi di lavoratori e di popolazioni dei paesi poveri. Lassolutizzazione della competitività, lapologia del privato e delle virtù del mercato, laffrancamento di questultimo da ogni controllo politico e tutti i modelli culturali connessi hanno prodotto e stanno producendo una radicale trasformazione dei modelli di civiltà vigenti. Così come non siamo in presenza di una semplice dilatazione del sistema capitalistico, bensì di un vero e proprio salto di qualità, la tendenza in atto è quella di dar vita ad una nuova formazione sociale con la conseguente distruzione di tutte le forme di organizzazione sociale per loro natura incompatibili con il nuovo sistema neoliberista. Si tratta di un processo gigantesco di omologazione ad un unico modello. Crisi della politica intesa come partecipazione e come progetto di trasformazione sociale, crisi degli stati nazionali perché tendenzialmente deprivati di un potere reale trasferitosi a livello sovranazionale, crisi ambientale determinata dalla "dittatura del mercato globale", crisi dei modelli culturali ostili o incompatibili con la crescente mercificazione di ogni aspetto della vita umana, crisi dei processi di liberazione della donna sotto i colpi dei modelli neopatriarcali e maschilisti connessi alla competizione esasperata e a causa della tendente de-socializzazione della funzione riproduttiva, crisi di ogni prospettiva di dar vita, dopo la fine della guerra fredda, ad un nuovo ordine mondiale più giusto e democratico. Queste le conseguenze più evidenti dellomologazione al mercato e al pensiero unico.
Il capitalismo è sempre meno radicato territorialmente. La natura finanziaria dello stesso, il meccanismo di accumulazione sempre più sovranazionale e la formazione di grandissime società finanziarie e produttive multi o transnazionali hanno dislocato il potere reale fuori dalla portata degli stessi stati nazionali. Il luogo delle decisioni è il mercato, il criterio è il meccanismo spontaneo prodotto dalla ricerca della rendita e del massimo profitto attraverso una competizione pura priva il più possibile di vincoli e di regole. Le agenzie internazionali come il FMI o la Banca Mondiale hanno acquisito un ruolo determinante nellimplementare le politiche neoliberiste tese esattamente a ridurre drasticamente gli ostacoli rappresentati dalle legislazioni nazionali e dalle politiche di bilancio ispirate a criteri diversi da quelli neoliberisti. Agli stati e ai loro governi non resta che tentare di applicare quelle politiche considerate oggettive ricavando per se stessi un ruolo nel processo di globalizzazione. Il successo di un governo non dipende più dal grado di consenso che riesce a conquistare fra la popolazione o, peggio ancora, nella capacità di "governare leconomia" secondo principi sociali e secondo un proprio autonomo progetto politico-sociale, ma nel grado di coerenza e di velocità di applicazione delle politiche neoliberiste, elementi questi che gli permettono di dare un apparente senso allo stesso concetto di stato nazione nellambito della competizione globale. Apparente perché è evidente che una simile politica è inevitabilmente destinata a creare diseguaglianze sociali e territoriali tali da rimettere velocemente in discussione sia lidentità che la stessa unità statuale. Si assiste così ad un triplice processo: la politica entra in crisi e si fa sempre più "tecnica amministrativa" e autoritaria, lo stato nazione tende ad associarsi a livello regionale con altri stati, si sviluppa una competizione esasperata a livello politico-militare per conquistare legemonia o un ruolo nel processo di globalizzazione tale da giustificare lesistenza dellentità statuale. Gli stati, compresi quelli più grandi e potenti, tendono cioè ad inseguire la dimensione globale e ad assumere, in collaborazione e competizione con altri, un ruolo anche qui di pura tecnica amministrativa del sistema assumendosi lonere di governare le conseguenze della mondializzazione sia al proprio interno sia su scala globale.
Gli USA, che sono usciti vincenti dalla guerra fredda, sono uno stato la cui dimensione regionale e potenza militare è fuori discussione. Oggi tendono a sviluppare una politica egemonica sia implementando in ogni organizzazione internazionale le politiche economiche neoliberiste, sia candidandosi a dirigere il "governo tecnocratico" del processo di globalizzazione soprattutto attraverso laggregazione in una unica alleanza politico-militare degli stati e dei governi dei paesi nei quali si concentra la ricchezza e la maggior parte dei consumatori delle risorse planetarie.
Ma anche per gli USA vale il concetto di subalternità rispetto alla dimensione globale del sistema capitalistico. Non è certamente nella loro disponibilità la scelta di una modificazione sostanziale del sistema economico. Possono solo rilanciare se stessi come forza planetaria che aiuta il sistema a liberarsi dai vincoli che permangono e a superare gli ostacoli che si frappongono alla sua espansione. Da questo punto di vista siamo in una nuova fase dellimperialismo che non si configura più come nella fase precedente come un sistema capitalistico alla ricerca di una propria espansione nella conquista di nuovi mercati a scapito del "campo socialista" e di altri sistemi capitalistici e magari imperialistici concorrenti. Lo testimonia anche il fatto che, al contrario che nel passato, limperialismo vincente non tende affatto a cercare un consenso al proprio interno con la formazione di unaristocrazia operaia e con una redistribuzione del "bottino" in modo da reggere lo sforzo economico e le enormi spese militari necessarie alla competizione con altri imperialismi in decadenza o sorgenti. Per i lavoratori americani cè un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro analogo a quello di altri paesi e un processo di esclusione sociale ancora più violento. Le relazioni con altri colossi regionali, europei ed asiatici, sono contrassegnate più dalla necessità di omologazione sociale, politica e militare che non dalla competizione che appare sempre più confinata allinterno del processo. Gli stati nazione dei paesi ricchi competono per aggiudicarsi un posto di rilievo nella comune rincorsa della modernizzazione capitalistica e nella funzione di polizia internazionale ad essa connessa. Non è pensabile allo stato attuale uno scontro di tipo classicamente "interimperialistico". Vi sono infatti ormai potentissime società transnazionali che comprendono USA, Europa e Asia contrapposte ad altre analoghe. Quali sarebbero gli interessi economici contrastanti alla base di un nuovo conflitto interimperialistico? E del resto basta osservare i programmi militari per capire che nessuno contempla una simile eventualità.
E in questo contesto che si spiega la crisi dellONU, il processo di costruzione di entità commerciali e politiche regionali, il rilancio della NATO.
Dopo la caduta del muro di Berlino non si è affatto dischiusa una nuova fase democratica e pacifica della storia dellumanità. Al contrario con il venire meno degli assetti bipolari e della competizione tra i due blocchi sono spariti anche gli equilibri ad essi connessi a tutto vantaggio dei paesi ricchi del mondo. Gli effetti geopolitici conseguenti sono stati sconvolgenti. La mappa politica è stata radicalmente modificata con la creazione di una miriade di nuovi stati e staterelli, spesso costruiti su base etnica nella speranza di poter, attraverso una dimensione piccola, essere attratti ed integrati più velocemente nellambito dei paesi ricchi del mondo. Lopzione fondamentalista al bisogno di rispondere alla crisi di identità prodotto dallomologazione e dallesclusione è cresciuta enormemente travolgendo spesso ogni speranza di progresso sociale e culturale. Il numero degli stati totalitari e confessionali è cresciuto. Ogni tentazione a considerare stati totalitari fondamentalisti come espressioni anticapitalistiche ed antimperialiste deve essere sconfitta. Essi sono il prodotto speculare della logica escludente del neoliberismo e mentre non disdegnano di partecipare ai processi di internazionalizzazione del capitale promuovono forme mostruose di omologazione culturale e di vera e propria regressione sul terreno dei diritti politici ed umani. Mentre nellambito della NATO si lavora alacremente ad un ristrutturazione militare capace di produrre lesercito dei paesi ricchi con il compito prevalente di polizia internazionale si assiste ad una crescita esponenziale delle spese militari nel terzo mondo e si moltiplicano i conflitti armati in ogni dove. Se da una parte il G7, il FMI, la Banca Mondiale e la NATO assumono sempre più il ruolo, ancora embrionale e contraddittorio ma non per questo meno evidente, di nuovo ed unico polo imperialista nel mondo, dallaltra è chiara la crisi dellONU e lassenza di una qualsiasi ipotesi alternativa al nuovo assetto unipolare.
Nel mondo non cè un campo socialista. Da una parte Cuba è sottoposta ad una aggressione che la rende, suo malgrado, il simbolo della resistenza al vecchio imperialismo americano e al nuovo ordine unipolare, e che la costringe, per poter sopravvivere, ad aprire al capitale straniero e a fronteggiare tutte le conseguenze sociali e culturali connesse. Dallaltra la Cina ha realizzato profonde riforme economiche che hanno sconvolto gli assetti preesistenti con una imponente penetrazione del capitale straniero e con una diversificazione sociale, molto simile a quella prodotta dalle politiche neoliberiste nel resto del mondo, assunta come motore di un possibile sviluppo. Se dal punto di vista politico Cuba è agli occhi del mondo inequivocabilmente schierata dalla parte dei poveri contro il capitalismo neoliberista la Cina è agli stessi occhi una potenza regionale sul piano politico-militare non certo contrapposta agli assetti capitalistici contemporanei. Non è un caso che la Cina abbia rinunciato ad esercitare il diritto di veto allONU nellinteresse dei paesi poveri contro limperialismo, come nel caso della guerra nel Golfo, ed abbia invece ottenuto clausole privilegiate dal punto di vista economico e un cinico disinteresse circa la questione dei diritti umani. Lo testimonia il recente voto allONU che ha condannato inusitatamente Cuba ed assolto la Cina quando è evidente a tutti che con luso strumentale del metro dei diritti umani avrebbe dovuto succedere esattamente il contrario. Certo la Cina è un grande paese con una lunga tradizione rivoluzionaria e la questione di cosa sarà nel futuro è ancora aperta, ma allo stato attuale non si può nemmeno lontanamente pensare che si possa assumere ad esempio o tantomeno a modello per le forze che lottano per il superamento del capitalismo.
Se un secolo fa il capitale era fortemente radicato territorialmente e spesso identificato con il nazionalismo e lo sciovinismo mentre il movimento operaio era internazionale oggi si può dire che la situazione è praticamente rovesciata. Il movimento operaio e rivoluzionario è confinato in dimensioni nazionali e spesso coltiva perfino lillusione che tale dimensione sia la più congeniale per vincere le lotte di resistenza contro gli effetti del neoliberismo o addirittura per aprire strade a consistenti trasformazioni sociali. La lotta a livello mondiale concepita come uno scontro su uno scacchiere internazionale per sottrarre paesi ed aree di influenza allimperialismo e per espandere il "campo socialista", ammesso che fosse una concezione corretta, è ormai solo un ricordo del passato che sarebbe semplicemente catastrofico voler riproporre. La dimensione dei nostri problemi, quella europea, lo dice chiaramente.
Abbiamo detto che non è possibile più pensare alla dimensione continentale come ad una questione di politica estera. I grandi problemi prodotti dal neoliberismo in Europa, disoccupazione strutturale e di massa, distruzione dello stato sociale, crescita delle diseguaglianze sociali interne e mondiali, perdita di ruolo del lavoro nella società e arretramento delle condizioni di vita dei lavoratori, tendenze autoritarie e movimenti reazionari e razzisti, nuove forme di oppressione nei confronti delle donne, degli anziani e dei bambini, nuove discriminazioni nei confronti delle minoranze sessuali, etniche e religiose ecc. non si possono affrontare e risolvere rinchiudendosi in lotte meramente nazionali. La dimensione nazionale della lotta è essenziale per affermare una capacità di resistenza ma se non annuncia una sua estensione almeno europea non prepara unalternativa, non contribuisce a costruire un progetto e rischia semplicemente di ritardare un processo di omologazione ineluttabile. In realtà in Europa il processo di omologazione al modello sociale americano minaccia quella che noi chiamiamo la "civiltà europea". E qualcosa di molto più profondo che un semplice arretramento del movimento in una fase difficile ma congiunturale. Nei prossimi anni qui in Europa si gioca una partita cruciale per il futuro dellumanità. E una partita non ancora persa anche se la situazione è molto difficile sia per i rapporti di forza sia per gli enormi ritardi ed inadeguatezze delle forze sociali e politiche antagoniste. Ma è una partita che in ogni caso bisogna giocare senza esitazioni e con molto coraggio. Le forze sociali, culturali e politiche che si possono potenzialmente opporre al nuovo corso neoliberista e che possono partecipare alla costruzione di un progetto alternativo sono ben più ampie di quelle che oggi si definiscono antagoniste ed anticapitaliste. La consapevolezza di massa di quanto gravi siano le conseguenze delle politiche economiche applicate negli anni ottanta è indubbiamente cresciuta ed è ben visibile nelle straordinarie lotte operaie e popolari contro gli attacchi allo stato sociale che si sono date in molti paesi europei. I settori sociali più colpiti dai processi di esclusione e di emarginazione manifestano un malessere profondo, che spesso prende la strada della protesta populista e reazionaria, ma che tuttavia pone domande alle quali il mercato e lideologia liberista non può rispondere, grandi settori religiosi nientaffatto minoritari avvertono il pericolo di una mercificazione della vita umana e di una secolarizzazione della società e si schierano apertamente contro il primato del mercato e contro le ideologie neoliberiste, perfino la cultura liberale per quanto attiene i diritti dellindividuo soffre della crescente omologazione culturale e dellaffermazione del neoautoritarismo. Non manca il materiale sul quale lavorare, ma è imprescindibile avviare un processo sociale e politico capace di rifondare, mentre si costruisce la lotta e il movimento, la cultura politica della sinistra anticapitalistica per metterla allaltezza del compito e dei tempi. Un simile compito si può intraprendere solo partendo da processi reali capaci di parlare a milioni di donne e uomini in tutta Europa, non certo nel chiuso di convegni o peggio ancora di rapporti diplomatici con altri partiti.
LEuropa di Maastricht e delle moneta unica è lEuropa del capitale finanziario, delle politiche monetariste, dellomologazione al modello sociale americano, della NATO e degli assetti unipolari del mondo. Non basta certo denunciare propagandisticamente questi caratteri della costruzione europea per suscitare un movimento capace di controvertere le tendenze in atto. E necessario invece promuovere la lotta di resistenza a partire dai grandi problemi sociali costruendo insieme alla dimensione europea della stessa gli embrioni di un progetto alternativo di Europa. E esattamente questo il senso del nostro impegno di lotta in Italia, nel rapporto con i movimenti sociali e con il governo Prodi, e in Europa.
Se è vero che i problemi sono gli stessi in tutto il mondo, anche se si presentano in dimensioni e forme diverse, è altrettanto evidente che la sinistra comunista ed antagonista europea non può prescindere dal contributo che viene dalle esperienze di lotta contro il neoliberismo in tutto il mondo. Pensare e possibilmente agire insieme è una necessità, non uno sfizio elitario o intellettualistico. Ne deriva una nuova concezione dei rapporti politici e culturali con le esperienze progressiste e rivoluzionarie di tutto il mondo, non più basata sulla solidarietà a lotte più "arretrate" o più "avanzate" come è stato nel passato. La sinistra europea si è divisa nel passato tra gli apologeti delle lotte del terzo mondo che avrebbero prodotto una spallata al sistema capitalistico mondiale e i propositori di un nuovo ordine economico mondiale che avrebbe potuto prendere le mosse solo da una conquista del potere nei paesi capitalisticamente avanzati. E una divisione che non ha più motivo di esistere nellepoca della globalizzazione. Anche la concezione geopolitica che prevedeva unaccumulazione di forze attraverso processi nazionali di conquista del potere e di schieramento con il campo socialista e che concepiva il mondo come una sorta di scacchiera è ormai improponibile.
Uno degli aspetti più importanti della rifondazione comunista è la costruzione di un nuovo internazionalismo. Alcuni passi in questa direzione abbiamo cominciato a compierli con lattenzione che abbiamo dedicato al Foro di Sao Paulo che è il luogo di relazioni multilaterali di gran lunga più interessante e con il recente viaggio della delegazione del PRC a Cuba e in Chiapas. Abbiamo, con questa iniziativa politica, semplicemente tentato un approccio diverso nelle relazioni tra forze comuniste e rivoluzionarie, mettendo al centro le questioni mondiali e tralasciando le questioni nazionali e diplomatiche tradizionalmente alla base dei rapporti politici.
Il Subcomandante Marcos ha descritto il nostro incontro come un "sintomo". Non poteva usare unespressione più corretta e lusinghiera. Era proprio il nostro obiettivo quello di produrre unesperienza che dimostrasse che è possibile cambiare le relazioni politiche nella sinistra antagonista a livello mondiale.
Ovviamente il nostro compito principale, sia per le lotte che conduciamo nel nostro paese sia per affrontare nella dimensione giusta le questioni poste dalla globalizzazione, è la costruzione di un soggetto politico unitario, plurale per culture politiche e per appartenenza territoriale, in Europa. Abbiamo detto e chiarito più volte che non vogliamo proporre una formula organizzativa né tantomeno una nuova internazionale. Sappiamo molto bene che una simile proposta produrrebbe confusione e ulteriori divisioni. Pensiamo invece ad un processo politico sociale fondato sullindividuazione di terreni di azione e riflessione comuni a tutte le forze antagoniste a livello continentale. Un processo capace di produrre significative esperienze di lotta sui grandi problemi sociali connessi allapplicazione delle politiche neoliberiste. Esperienze per questo capaci di parlare a milioni di donne e di uomini in tutta Europa e nel mondo. Non chiuse quindi nei rapporti diplomatici fra forze politiche o, peggio ancora, nellambito della pura propaganda minoritaria. Questa logica ha ispirato la nostra proposta di convocare unitariamente lanno scorso il Meeting di Parigi. Quel meeting ha innescato un processo positivo, anche se difficile, nellambito delle forze appartenenti al gruppo parlamentare europeo e al Forum della Nuova Sinistra. Le analoghe iniziative di questanno a Lisbona, Amsterdam e Madrid lo dimostrano chiaramente. Bisogna proseguire su questa strada con lobiettivo di allargare il campo delle forze coinvolte in questo processo battendo sia le tendenze a conservare i rapporti politici nellambito del puro scambio di esperienze, sia i settarismi ideologici da qualsiasi parte provengano.
Il PRC non intrattiene relazioni internazionali su base ideologica. E questo un principio inviolabile della nostra politica internazionale. Il PRC cerca rapporti con tutte le forze politiche e sociali progressiste, anticapitaliste, democratiche. Solo in questo ambito si collocano le relazioni con altre forze comuniste. Il nostro essere comunisti è indissolubilmente legato al concetto e allobiettivo della rifondazione del pensiero comunista. E una nostra peculiarità che non vogliamo usare come metro per fare arbitrarie selezioni ma alla quale non intendiamo neanche rinunciare considerando i partiti comunisti come interlocutori privilegiati indipendentemente dalla loro capacità di rinnovamento e di fronteggiare i problemi di questa epoca. Rapporti di maggior collaborazione e sintonia politica si instaureranno in base alle convergenze di analisi sulla attuale fase del capitalismo, in base alle esperienze di lotta e alla effettiva incidenza di ogni forza politica. Naturalmente lo sviluppo di tali rapporti di maggior collaborazione non devono escludere altri rapporti con altri soggetti politici che per svariati motivi non si trovassero in sintonia con noi. Al contrario il PRC si batterà instancabilmente contro ogni settarismo e contro ogni pregiudizio legato a schemi astratti o legato alle dimensioni delle forze politiche. Tutti hanno il diritto di portare il proprio contributo alla comune lotta contro il capitalismo mondializzato.
Un simile lavoro non può essere appannaggio di un dipartimento del partito. Deve essere assunto da tutto il partito e in primo luogo dal gruppo dirigente nel suo insieme. Non si punta ad avere unopinione esaustiva su tutte le aree geopolitiche e su tutti i paesi del mondo. Si punta invece a sviluppare una propria iniziativa in Italia e allestero sulle questioni rilevanti dal punto di vista politico, sia quelle che ci suggerisce la nostra analisi sia quelle che ci impone lattualità. Il dipartimento esteri non è la struttura degli specialisti della geopolitica o il corpo diplomatico del PRC ma la struttura preposta alla costruzione delliniziativa politica internazionale del partito sia in Italia sia nellambito delle relazioni internazionali. Le relazioni con altre forze politiche estere sono di esclusiva competenza della Direzione del Partito ed eventuali iniziative settoriali o locali possono svilupparsi solo in armonia con la politica estera fissata dalla Direzione e sotto la direzione del Dipartimento esteri centrale. Le commissioni sui problemi internazionali delle strutture territoriali del Partito hanno lesclusivo compito di lavorare nella costruzione della mobilitazione di massa e delliniziativa politica sui temi internazionali. In nessun caso possono autonomamente intrattenere relazioni internazionali o lavorare su obiettivi contraddittori con quelli prefissati dalla Direzione Nazionale e dal Dipartimento Esteri.
E necessario nei prossimi anni un impegno straordinario di lavoro e di discussione al fine di promuovere nelle stesse nostre fila un nuovo concetto di internazionalismo, senza il quale lo stesso progetto di rifondazione comunista rischierebbe di fallire.