Dopo la crisi Armando Cossutta |
(pubblicato su "Rifondazione" n.7 - dicembre 1997)
Una nuova fase della vita politica italiana si è inaugurata dopo una crisi molto acuta ed anzi in conseguenza di essa. Si è trattato di una crisi di forte rilevanza che poteva avere conseguenze drammatiche per le prospettive stesse della direzione del Paese e per la collocazione e lazione delle forze di sinistra e di progresso. Una crisi che non riguardava questioni marginali, come molte volte si è verificato nella nostra storia postbellica: caduta di un governo per una singola legge, per gli errori di un ministro, per una vicenda scandalistica; né tantomeno questioni relative ai rapporti di potere fra le diverse componenti di governo, come, anche in questi casi, si è verificato spesso nel passato: una crisi per un ministro o un sottosegretario in più, per posti di comando in enti, aziende, banche: crisi spesso confuse e di difficile comprensione, alle quali facevano seguito trattative defatiganti, lunghissime, e conclusioni ancora più confuse.
No. Si è trattato di una crisi politica nel significato pieno di questa espressione, in quanto investiva le linee essenziali da perseguire nel campo economico e sociale nonché metodi e comportamenti della maggioranza parlamentare e fra questa ed il ministero che da essa è sorretto. La crisi - pur difficile e per molti aspetti anche aspra - si è risolta positivamente, in modo rapido e limpido. Non interessa tanto giudicare chi abbia vinto o perduto; o meglio, laccordo finale può anche essere diversamente interpretato a favore o meno delle diverse forze in campo. Ciò che è viceversa indispensabile riconoscere è che dopo la crisi ed in conseguenza di essa una fase nuova può cominciare: nuova e più avanzata. Una cornice è stata rotta, un nuovo quadro può essere definito. Si passa da una fase di contenimento ad una fase possibile (anche se non certa) di riforme.
In tutta la vicenda il partito della Rifondazione comunista ha avuto ed ha svolto un ruolo di primo piano, assumendosi responsabilità molto grandi che ha saputo sostenere con notevole coraggio e con una lucidità sempre costante, malgrado le infinite tensioni che lhanno attraversato, vuoi per linaudita, potentissima aggressione esterna cui è stata sottoposto, vuoi per lintenso dibattito e per il confronto appassionato che si è avuto al suo interno. A posteriori si possono giudicare in modo obiettivo, o almeno più obiettivo che nel corso della crisi, gli indirizzi strategici e tattici seguiti dai comunisti.
A noi pare che il merito da ascrivere alla scelta ed allopera del Partito sia stato un merito alto, contemporaneamente - appunto - di carattere strategico e di carattere tattico, come cercheremo pacatamente di dire. La crisi ha messo in evidenza, agli occhi ed alle coscienze di milioni e milioni di persone, temi reali, attuali, veri; temi di enorme rilievo e significato e pur tuttavia da sempre misconosciuti o rimossi dagli attuali, terribili dominatori della pubblica opinione - giornali, riviste, reti radiotelevisive - quasi tutti allunisono nel condurre una campagna unidirezionale a vantaggio delle tesi moderate, e comunque sempre contro ogni prospettiva diversa, alternativa nei confronti della politica vigente.
Non occorre insistere su questo aspetto, ma dovrà pur aprirsi una polemica vigorosa da parte dello schieramento democratico per affermare il diritto a esplicitare un pluralismo effettivo nelle comunicazioni di massa, intendendo per pluralismo effettivo non semplicemente la presenza delle differenti espressioni politiche in quanto partiti o raggruppamenti ma confronto fra diverse ed opposte concezioni e culture. Mentre nella condizione attuale tutte le differenze sono, più o meno, garantite pur che si ritrovino, però, entro i confini del "pensiero unico", dato ormai come un riferimento ovvio ed inconfutabile: modo non soltanto ingiusto di presentare e commentare le cose ma oggettivamente erroneo, anche dal punto di vista di una comunicazione che vuole o pretende di essere "informata", perché non coglie la portata delle novità che vanno crescendo in Europa e in tutto il mondo, in controtendenza rispetto alle concezioni dominanti e considerate per ciò stesso - a torto - universali ed esclusive.
Il merito, dunque, di Rifondazione comunista è stato quello di prospettare con duttile fermezza una specifica strategia, fondata su presupposti alternativi: non già il pur necessario contenimento della spesa pubblica e il suo risanamento ma - al suo interno - i contenuti di una politica economica e sociale fortemente innovativa e nello stesso tempo perseguibile. Qui è sorto il contrasto e qui, anche, è emersa la forza della nostra proposta. Poiché la nostra proposizione non era, non è dettata esclusivamente da sacrosante ragioni di principio (e non ci si venga più a dire, per favore, da "ragioni di propaganda!") corrispondenti a quella visione dei problemi della vita degli uomini e della società che ci è propria e che è propria dei movimenti coerentemente antagonisti; ma è determinata da una precisa, realistica analisi delle condizioni esistenti e del loro logico, razionale sviluppo. Quando si è trattato di mettere al centro dellimpegno parlamentare contenimento e risanamento non ci siamo tirati indietro, ma - anzi - abbiamo contribuito in modo determinante, come si sa, a varare per il 1997 provvedimenti finanziari molto pesanti, con sacrifici consistenti, sopportati soprattutto da parte dei ceti medio bassi e dalle masse popolari.
Allora dicemmo di sì, e per tutto lanno abbiamo detto di sì, una volta ottenuta la garanzia di salvaguardare - pur in quel rigido contesto - le condizioni minime di difesa dello stato sociale, non intaccando, come è noto, pensioni e sanità. Ma non avrebbe avuto senso alcuno, per una forza politica come la nostra, continuare a dire di sì a delle scelte generali che ricalcavano quelle tradizionali (non innovative) del passato e nello stesso tempo peggiorative nei settori chiave dello stato sociale: sanità, appunto, e pensioni, e ciò malgrado il successo della politica finanziaria con il calo dellinflazione e del debito pubblico.
Le nostre proposte, peraltro, non erano nuove né acerbe. Le abbiamo presentate, chiarite, documentate, sostenute, per mesi e mesi, proclamando in tutta luce - pubblicamente e riservatamente a chi di dovere - che in assenza di novità innovative non si poteva contare sul nostro appoggio politico né sul nostro voto per una legge finanziaria così disegnata. Non se ne è tenuto conto, né alcuna trattativa vera e propria si è mai aperta con noi, malgrado che fosse ben chiaro il peso determinante dei nostri voti per lapprovazione della legge.
Naturalmente lungi da noi la pretesa di vedere attuate dal governo tutte le proposte che siamo andati maturando nel corso dei mesi; e pur tuttavia non abbiamo volutamente mai rinunziato a indicare il più convincentemente possibile la validità delle posizioni, contribuendo così a rendere consapevoli settori sempre più vasti di lavoratori e di cittadini della necessità del cambiamento. E merito nostro, senza alcuna enfasi, se il tema della riduzione dellorario di lavoro è finalmente stato messo allordine del giorno: sino a non molto tempo fa era considerato una astruseria assurda. E merito nostro avere riproposto come tema irrinunciabile quello delloccupazione e, solo per titoli, quello dellevasione fiscale, della sanità e della scuola pubblica e della casa e delle privatizzazioni. Oltre al tema, divenuto paradigmatico dinanzi a tutto il Paese, della tenuta del sistema pensionistico.
La crisi si è formalmente aperta nella prima quindicina di ottobre ma era incombente da mesi, così come avevamo avuto modo di dire - a tempo debito - sulle pagine di questa nostra rivista, e proprio per lo scontro su quei temi. Anche su altri temi della massima importanza si è avuto un confronto acutissimo (penso, per esempio, alla questioni istituzionali, ed in particolare alla scelta di un sistema presidenzialista); ma su di essi non abbiamo coinvolto il nostro rapporto con il governo, dimostrando anche per questo un senso infinito di responsabilità. Senza continuare oltre si può dire (spero che questo nostro giudizio sia considerato equilibrato, oggettivamente valido) che siamo riusciti a delineare una strategia di rinnovamento, una linea concretamente alternativa, un complesso strategico non solo di esigenze, ma di proposte e di soluzioni.
Di fronte al metodo (nessuna trattativa ma semplici e non mai concludenti consultazioni) ed al merito della politica del governo (né innovazione per il futuro né equità per il presente) non potevamo non provocare un chiarimento di fondo, con la conseguente, prevedibile e prevista, crisi politica della maggioranza sino alle dimissioni formali del governo. Non potevamo fare diversamente, non dovevamo fare diversamente. Chi aveva stabilito con noi unintesa parlamentare non poteva non saperlo: soltanto una concezione ed una pratica arroganti dei rapporti politici potevano consentire ad alcuni di ignorare o di trascurare un tale dato di fatto.
Per quanto riguarda noi, non cera da avere dubbi o incertezze, né vi furono, perché alla base della nostra posizione politica stava la stessa nostra ragione di esistere come libera forza politica. Eppure noi stessi non abbiamo valutato appieno, ferma restando la necessità di assumere quella posizione di rottura, tutti gli effetti della crisi. Siamo stati facili profeti nel prevedere che contro di noi si sarebbe scatenata unoffensiva senza precedenti. Lavevamo messo nel conto, non è di questa consapevolezza che abbiamo avuto carenza, sapendo anzi quanto più virulenta essa sarebbe stata anche rispetto a precedenti campagne contro di noi, come per esempio al tempo del voto sullAlbania oppure, ancor prima, dellopposizione verso il governo Dini.
Non avevamo, viceversa, previsto che contro di noi, nel momento decisivo, si sarebbero mossi settori e personalità che avevano condiviso sino a quel momento le ragioni della nostra battaglia: questo è stato un nostro limite politico. Né avevamo calcolato pienamente che tanto dirompente sarebbe stato il trauma entro il popolo. Dico, non a caso, il popolo perché tra le masse popolari, nellaccezione più ampia di questa espressione, abbiamo avuto sempre, anche nei momenti di più aspra polemica in atto, non solo motivi di consenso e di fiducia, come è ovvio, tra quella parte ormai non piccola che ci sostiene e che ci vota, ma comunque e sempre moti di stima e di rispetto anche da parte di chi non condivide e contrasta le nostre posizioni.
Ora questi sentimenti lasciavano il campo ad una incomprensione, anzi ad una avversità marcatissima. Si è colta peraltro una certa difficoltà da parte del partito, o per lo meno di parte di suoi settori decisivi, di cogliere tali stati danimo, di interpretarli, di capirne le cause più profonde. Come se il disorientamento o lostilità registrate questa volta in mezzo al popolo fossero dovute soltanto alla campagna forsennata della stampa, della televisione, dagli avversari lontani e vicini. O anche - ed è cosa nuova, tutta da registrare con severissima attenzione - allazione esplicita contro di noi da parte del sindacato confederale, ed in primo luogo dalla Cgil, dai suoi massimi esponenti giù giù per tutte le sue possenti strutture organizzative. Laddove le difficoltà a fare intendere le nostre ragioni stavano nellesistenza di un reale convincimento di massa, popolare appunto, che apprezzava la nostra radicalità ed il nostro "tenere duro" sulle questioni che siamo riusciti finalmente a mettere in luce con forza - a partire da quella dello stato sociale e della necessità di un cambiamento economico e politico in avanti - ma che non si capacitava della inevitabilità della rottura.
Si sono presentati in tutta la loro immensa dimensione nuovi "tabù" di questa fase della nostra storia politica: primo fra tutti quello che non bisogna fare cadere il governo di centrosinistra e non tanto per i suoi valori in se stessi ma perché esso è meglio del ridare il potere nella mani delle destre di Berlusconi e Fini. Un "tabù". La nostra opera di chiarimento su questo punto essenziale (non è con i cedimenti alla politica moderata da parte di un governo di centrosinistra, che di fatto rischia di essere tale solo di nome, che si combatte il pericolo di destra, anzi lo si rafforza) trovava infatti di fronte a sé come un muro invalicabile. Né appariva chiaro a tanti ciò che per noi è invece chiarissimo e cioè che la rottura era necessaria e giusta in questo caso e che essa può essere necessaria e giusta anche in avvenire perché il partito della Rifondazione comunista non può avere una strategia che lo vincoli a sostenere il governo di centrosinistra comunque, ad ogni costo.
Non è tuttavia tanto sulle difficoltà a superare questo muro di incomprensione che intendevo mettere laccento quanto sulle difficoltà di alcuni settori del partito a rendersene conto. E venuta così allo scoperto una situazione che avevamo ben chiara sin dal nostro nascimento come partito politico ma che si è rivelata portatrice di conseguenze superiori alle nostre stesse valutazioni. Convivono nel partito condizioni differenti come se ci fossero tre partiti nello stesso partito. Non penso - ovviamente - alle differenze politiche ed alle differenti formazioni culturali, che sono ben altra cosa, ma allo stato del partito nel suo insieme, come un tuttuno. Cè il partito degli eletti, non solo degli eletti a cariche pubbliche (ed ormai ce ne sono molti, dal Parlamento ai consigli locali) ma eletti a funzioni dirigenti di partito, quelli nazionali, quelli federali e regionali, quelli dei circoli: diverse migliaia di compagni. Essi costituiscono il nerbo del Partito, la sua ossatura, la sua forza. Cè il partito degli iscritti, i 120.000 compagni che sono soltanto parzialmente attivi, e comunque ben presenti e decisivi nelle grandi manifestazioni, nelle campagne elettorali, nelle feste di Liberazione. La verità è che spesso i dirigenti (gli eletti) non hanno un rapporto continuativo e creativo con tutti gli iscritti (quanti sono nei circoli i compagni attivi realmente?). Eppoi un rapporto ben più labile si registra con gli elettori, con i tre milioni e mezzo di persone che votano per noi. Per cui il nostro Partito si presenta ed è ancora un partito di opinione, come una formazione politica che esprime una politica alternativa, antagonista, ma che non ha un corrispondente insediamento sociale né unadeguata presenza organizzata. Vuole essere, deve essere un moderno partito politico di massa ma tale ancora non è.
Si diviene partito di massa innanzi tutto se si ha una politica di massa, e questo significa che la nostra identità di forza antagonista deve sapersi esprimere in tutti i campi della vita delle masse, con la capacità di analizzare i fenomeni sociali, civili, culturali in modo alternativo rispetto alle concezioni ed alle pratiche dominanti, ma nello stesso tempo con la forza di sapere affrontare i diversi problemi sia con la critica e con la denunzia e sia con la proposizione di soluzioni adeguate. Non vi è, non deve esservi separazione fra momento sociale e momento politico: non vè alcuna prospettiva di successo per lazione sociale se essa non sa trovare sempre lo sbocco politico.
Partito di massa si diviene se contemporaneamente si è presenti con un insediamento reale nei luoghi fondamentali dello scontro sociale: aziende, scuole; e se si riesce ad essere presenti nelle istituzioni democratiche elettive e nelle molteplici espressioni della vita della masse, nelle organizzazioni che ne rappresentano gli interessi e le vocazioni. Prima fra tutte, lorganizzazione sindacale, dove purtroppo la presenza dei comunisti è poco visibile ed incisiva e, per quanto riguarda la Cgil, è anche emarginata organizzativamente.
Si pensi che questa grande Confederazione sindacale conta ben 16.000 (sedicimila) funzionari e di questi soltanto 470 sono di Rifondazione comunista, mentre nel recente passato il Partito socialista, il Psi, (che aveva un ben minore insediamento operaio rispetto a Rifondazione) contava di diritto sul 33% dei funzionari e cioè su almeno 5.000 di essi. Daltronde il dibattito politico sul sindacato deve svilupparsi con rinnovato vigore: così non si può continuare. Una sinistra sindacale è necessaria, ma di fatto essa non cè; non ci sono riusciti a determinarla ed a renderla efficace ed incisiva i nostri compagni dellarea comunista, malgrado i loro sforzi immensi, né i compagni di Alternativa sindacale. Questo compito (contribuire a creare e fare vivere una vera, reale sinistra sindacale) è il compito primo di un partito comunista.
Si diviene un partito di massa se si riesce a stabilire una presenza ed una capacità di iniziativa nelle grandi organizzazioni delle categorie produttive, come quelle degli artigiani e quelle dei coltivatori, nonché nelle associazioni di antica e recente formazione, dal movimento cooperativo a quelli associativi di varia natura; senza tutto ciò sarà difficile emergere dalla condizione di partito di opinione e garantirsi dal precipitare in ambiti angusti e testimoniali. La presenza dei comunisti in molte delle moderne, attuali organizzazioni in cui si esprime la società contemporanea, cioè nei movimenti ambientalisti, pacifisti, antirazzisti, nei nuovi movimenti delle donne, dei giovani, nei centri sociali che riescono ad aggregare ed a far valere forze antagoniste fondamentali (questi ultimi stanno compiendo un itinerario impegnativo e del tutto autonomo che va attentamente valutato e rispettato verso la loro immissione nella politica; e vale a dire, nella comunità non solo come forze sociali ma come forze socio-politiche); tale presenza è un punto sicuro ed indispensabile della nostra agibilità politica ed ideale. Ma non sufficiente.
La crisi politica ha messo in chiaro il permanere di nostre inadeguatezze. Se non le si superano non riusciremo a divenire quello che noi vogliamo e di cui ha oggettivamente bisogno la società: un moderno partito antagonista di massa. I risultati che siamo riusciti a conseguire con la crisi del governo e con la sua conclusione positiva rappresentano, possono rappresentare una condizione complessiva più favorevole. Si avanza, si può avanzare, dal momento del contenimento a quello del cambiamento. Merito, dunque, di una visione strategica coraggiosa e di una altrettanto coraggiosa capacità tattica. Abbiamo operato non per far cadere il governo, e giungere quasi inevitabilmente ad una lacerazione grave fra le forze della sinistra e di progresso e a una spaccatura insanabile dei nostri rapporti con larghissimi strati popolari, ma abbiamo operato per affermare - con la crisi stessa - un segno nuovo e positivo negli indirizzi economici e sociali. Senza la crisi non vi sarebbe stata possibilità di ottenere i primi atti concreti per il cambiamento. Se non avessimo "tenuto duro" non vi sarebbero state novità e conseguentemente vi sarebbe stata invece una inaccettabile subordinazione di Rifondazione comunista per il presente e per il futuro.
Se fossimo andati allo scioglimento delle Camere ed a nuove traumatiche elezioni avremmo avuto dinanzi uno scenario molto pesante, nel quale avremmo avuto difficoltà grandi ad agire. Non solo noi, ovviamente, ma tutto lo schieramento democratico. Ed invece abbiamo contribuito ad ottenere impegni corposi, di quantità e di qualità, ed abbiamo contribuito (certo non soltanto noi) ad evitare le elezioni: due risultati in una sola volta, in una sintesi positiva per strategia e tattica. Bene.
Ora il quadro muta a favore dellazione delle classi lavoratrici, dei giovani, delle masse popolari. Permangono difficoltà, come si vede ad occhio nudo. La Confindustria strilla e si muove con unopposizione frontale; i sindacati non pare riescano a liberarsi da un complesso di riottosità, come se si sentissero feriti (anziché potenziati) dalla efficacia dellazione di Rifondazione comunista e dalla realistica disponibilità del governo verso di essa per la legge sulle 35 ore e per la salvaguardia delle pensioni di anzianità.
Con le loro esitazioni, con i se e con i ma nei confronti dei provvedimenti che dovrebbero essere loro stessi a rivendicare e ad attuare (così come i sindacati fanno in tutti i paesi dEuropa), finiscono per apparire ed essere subalterni alle posizioni imprenditoriali. Il Pds dimostra di non sapersi liberare da una protervia priva ormai di supporti fattuali oltre che di argomenti: lesistenza di due sinistre è un dato della realtà, in Italia ed in Europa. Fra di esse è possibile e comunque indispensabile cercare un terreno di intesa senza arroganze e senza provocatorie fughe in avanti; fra queste quella di proporre a Rifondazione comunista una presenza diretta nel governo mentre anche il Pds sa benissimo che non nostre inesistenti pregiudiziali ideologiche ma differenze programmatiche reali e forti rendono impossibile una nostra partecipazione nel ministero.
E prova di grande responsabilità prenderne atto, così come noi abbiamo fatto, anziché agitare propagandisticamente un tema inesistente. Si tratta, qui, di due sinistre fra di loro diverse ma che sarebbe bene non siano fra di loro contrapposte, bensì in leale competizione. Il Pds deve accettare la realtà mettendo da parte i suoi disegni nei nostri confronti, una volta di annientamento, unaltra di assorbimento. E noi mettendo da parte ogni pretesa di esclusiva a sinistra e cercando di agire con intelligenza e rinnovata disponibilità in quei mutevoli e sempre più ampi settori di cerniera fra le due sinistre; con una potenziata iniziativa nel campo sociale (nel mondo del lavoro, in quello della scuola, nel mondo della sanità) e nel campo della intellettualità più vasta, in una comune ricerca critica con questa sui contenuti di un programma alternativo, sulla natura stessa della rifondazione.
Si è aperta una nuova fase, per davvero, che può favorire una stagione politica costruttiva e più avanzata. La nostra immagine di forza antagonista e nello stesso tempo di componente unitaria, indispensabile di uno schieramento di rinnovamento e di progresso può configurarsi più nitida e convincente. Ad una condizione: che questa immagine non si illuda di vivere ed estendersi con la mera propaganda delle sue pur fortissime ragioni, ma sappia collegarsi, coniugarsi con i movimenti esistenti, reali (ancora pochi e deboli) e con quelli da costruire con tenacia, con determinazione, con più forte fiducia. A partire da un grande movimento in Italia, in Francia, in Europa - il moto modernissimo con cui inizierà il nuovo secolo - per la realizzazione delle 35 ore, come conquista di civiltà.