I veri responsabili del rogo di Valencia

Nico Perrone

Liberazione 5 luglio 1997 (editoriale)

A Valencia è stata una strage. Ma si è già cominciato a parlare di fatalità, a insinuare responsabilità individuali, persino dei lavoratori morti.

Le responsabilità invece sono tante, e tutte riconducibili a identità politiche, burocratiche, imprenditoriali molto precise: tutte gridano giustizia, ma la giustizia non ascolta il pianto dei giusti e degli sfruttati, perché ha i suoi formalismi, che all’occorrenza consentono di deviare dalla verità.

C’è una prima responsabilità, enorme. Quella di una legislazione antinfortunistica e del lavoro - ispirata dai vertici dell’Unione Europea - che si sta sviluppando sotto i nostri occhi impotenti. Essa riduce i margini di sicurezza, talvolta in modo esplicito, altre volte mediante l’estensione di forme di lavoro precario, che nei fatti aprono la strada a meccanismi di deroga. Queste leggi hanno un solo referente: il profitto, che si vuole rendere più facile, più elevato, più sicuro, senza badare agli uomini che lavorano.

La sicurezza del posto di lavoro, l’applicazione di norme antinfortunistiche rigorose sono condizioni che fino a un certo punto si è riusciti a imporre, sotto il controllo dei sindacati, ai grandi complessi.

Una prima deroga a questo regime è venuta attraverso gli appalti, coi quali si affidavano a imprese improvvisate i compiti più rischiosi, e queste imprese a loro volta operavano con contratti di cottimo o a opera, trasferendo il pericolo su lavoratori che non figuravano più dipendenti dal grande complesso per il quale, o all’interno del quale, i lavori venivano effettuati, bensì da anonimi appaltatori e sabappaltatori. E’ il sistema che è stato usato, per anni, all’Italsider di Taranto, il cui risultato è consistito nella morte sul lavoro di oltre trecento persone: anche se l’Italsider ha potuto persino scaricarle dalle proprie statistiche degli infortuni e dai propri oneri assicurativi.

L’Italsider nel frattempo ha cambiato nome, padrone e consistenza industriale, ma il sistema degli appalti esiste ancora, anzi si è esteso sempre più ad altre aziende.

Accanto ad esso altri sistemi di sfruttamento irresponsabile si sono sviluppati: primo fra tutti il precariato diffuso. Il lavoro interinale - così si chiama il precariato organizzato dalle agenzie di collocamento e affitto di lavoratori a termine - è stato accolto anche in leggi dello stato italiano: si è così legalizzato il "caporalato" che, persino in base alle leggi fasciste sul collocamento, era del tutto vietato.

Ma soprattutto, in nome del profitto - sostenuto dai vertici europei - si è iniziata una pericolosissima deregulation nelle relazioni sindacali. Per la necessità del grande capitale di fronteggiare la concorrenza dei mercati del lavoro, sostanzialmente schiavili, dell’Asia, del nord Africa e dell’America latina, la figura stessa del sindacato si va trasformando. Esso non dev’essere più conflittuale, ma collaborativo: il che vuol dire acquiescente alle esigenze del profitto, che sono la flessibilità, l’assenza dei conflitti, la precarietà funzionale alle mutevoli esigenze produttive. In poche parole: adeguarsi al modello statunitense, dove il sindacalismo radicale venne additato come rivoluzionario e stroncato per lasciar posto a un sindacalismo, talmente liberista e acquiescente nei confronti del capitale, da aver ostacolato persino lo sviluppo di una legislazione previdenziale adeguata agli standards della Organisation International du Travail.

L’attenzione verso il lavoratore - quindi verso l’uomo -, cessa. Essa era caratteristica di una legislazione che aveva preso le mosse in Germania nel 1883 e si era sviluppata poi in tutta l’Europa e in altri paesi, fino a caratterizzare la nostra civiltà e la nostra cultura. Al suo posto c’è oggi una sola preoccupazione, quella per il profitto, che dà ansia ai vertici europei, allo International Monetary Fund, alla OCSE: i grandi motori dai quali traggono ispirazione le nostre innovazioni legislative.

Sorprendersi dunque di quello ch’è successo a Valencia, di quello che successe a Ravenna nel 1987 (13 morti nell’incendio della nave Elisabetta Montanari), di quello che succede tutti i giorni in una escalation d’infortuni che fa ascendere a 200 mila gli uccisi sul lavoro ogni anno nel mondo (1.200 soltanto in Italia) e a 160 milioni gli uccisi per malattie professionali, è un esercizio ipocrita e insultante. Far le mosse di mobilitare poliziotti e giudici alla ricerca di responsabilità minori, ignorando quelle di fondo, non dev’essere più accettato.

La sinistra - anche quella delle frange più moderate del progressismo - deve ritrovare il coraggio delle proprie responsabilità storiche - alle quali neppure i riformisti si sottrassero: che consistono nel rimettere l’uomo, la sua vita, il suo progresso al centro dello sviluppo.