Trasformazione sociale,

partendo dai diritti

Paolo Ferrero

Liberazione 30 novembre 1997

Attorno al futuro del lavoro molti stanno discutendo. Il ragionamento che va per la maggiore è quello che, partendo dalla globalizzazione dell'economia capitalistica, prevede che il lavoro sarà scarso e disponibili solo per quei sistemi sociali che garantiranno costi bassi ed enorme flessibilità. Conseguentemente la scuola deve servire a diventare imprenditori di se stessi, gestendo la propria precarietà dai 15 ai 70 anni.

Su questo schema economisti progressisti sottolineano la possibilità di sviluppo del Terzo Settore, in cui la dimensione del volontariato e quella del lavoro tendono a confondersi. Ci dicono che se sviluppo economico e sviluppo sociale tendono a divaricarsi radicalmente, tutto il corpo sociale deve essere proteso - schizzofrenicamente - da un lato ad adeguarsi alle esigenze di mercato e dall'altro ad aggiustare - con risorse scarse - tutti i guasti prodotti dal mercato stesso. Questo è il futuro che ci propongono per noi e per i nostri figli: la legge della giungla per sopravvivere e l'etica del dono per vivere meglio.

Si tratta di una prospettiva assurda, che ci viene proposta in nome della modernità e del progresso, dalla cui critica dobbiamo partire per ricostruire una prospettiva di trasformazione sociale.

Tre mi paiono i nodi da cui partire nel tentativo di riunificare interessi materiali delle classi subalterne e progetto di trasformazione sociale.

In primo luogo la riduzione dell'orario di lavoro intrecciata con la lotta allo sfruttamento e la difesa delle pensioni di anzianità. La tendenza capitalistica è quella di intrecciare l'aumento del plusvalore relativo (lo sfruttamento) con l'aumento del plusvalore assoluto (l'allungamento dell'orario di lavoro). La nostra risposta deve cogliere questo intreccio lavorando sulla riduzione della quantità di forza lavoro che complessivamente - nell'arco della vita - dobbiamo vendere sul mercato per garantirci i mezzi della sopravvivenza.

La conquista di una "flessibilità operaia" contrapposta alla precarizzazione padronale. Nessuno dice che un lavoratore deve fare per tutta la vita lo stesso lavoro e con lo stesso orario. Il nodo è chi sceglie, chi decide, se il padrone o il lavoratore. Dobbiamo cioè inventare delle forme di tutela flessibili (sia per il lavoro salariato classico che per il lavoro autonomo eterodiretto) che richiedono un forte intervento di regolazione statale.

La valorizzazione del volontariato (lavoro non pagato) per costruire forme di socialità in aggiunta ai servizi resi dallo stato.

La lotta contro il lavoro precarizzato e privo di tutela, sia quando venga attivato dalle imprese che quando venga attivato dallo stato (larghissima parte del cosiddetto Terzo Settore).

Più lavoro tutelato, più volontariato, meno lavoro precarizzato.