Patto di Natale

Bisogna cambiare strada se si vuole davvero far crescere l’occupazione

Giorgio Cremaschi

Liberazione 27 dicembre 1998

Secondo il rapporto annuale di Mediobanca, il 1998 sarà un anno d'oro sia per le imprese industriali che per quelle finanziarie e bancarie. Per queste ultime già nel primo semestre dell'anno si registrano oltre 4mila miliardi di utili, dopo un periodo di sofferenza. Ancora meglio andranno i conti delle principali industrie. Se si confermerà a fine anno la tendenza della prima metà, anche tenendo conto del rallentamento economico, i primi 27 gruppi industriali del paese realizzeranno almeno 12mila miliardi di utili, l'equivalente di una finanziaria. Sempre secondo i dati del rapporto, l'incremento dei profitti delle grandi imprese rispetto all'anno precedente sarebbe superiore al 60%, altro che tassi d'inflazione programmati! Quest'andamento dei conti delle imprese è essenzialmente dovuto a due ragioni: l'aumento della produttività del lavoro, che ha fatto si che prodotti e servizi in misura pari o superiore al passato siano stati forniti dalle imprese con minor personale, visto che in tutte le grandi aziende l'occupazione è diminuita in misura rilevante; la riduzione delle imposte realizzata tramite l'Irap, l'eliminazione dei contributi sanitari. Altre provvidenze di legge hanno poi fatto si che il costo del lavoro subisse una riduzione in valori assoluti, in misura pari ad almeno 2 punti secondo l'Istat. Se a queste condizioni interne si aggiunge il dato internazionale della caduta dei prezzi delle principali materie prime, a partire dal petrolio, nonché la riduzione dei tassi d'interesse bancario al livello degli anni 50, si può cogliere il quadro complessivo delle condizioni nelle quali opera oggi il sistema delle imprese: esso vive uno dei momenti più favorevoli dal dopoguerra.

Gli attacchi del pensiero liberista

Partendo da queste condizioni, logica avrebbe voluto che la trattativa tra le parti sociali avesse come oggetto principale l'intervento sulle ragioni che, nonostante l'anno d'oro per le imprese, hanno sinora impedito la riduzione della disoccupazione. Se gli eccezionali profitti non si traducono in investimenti produttivi e in ogni caso questi ultimi, ove avvengano, non producono occupazione, lo scopo principale del confronto sociale avrebbe dovuto essere quello di promuovere la domanda, cioè mettere in campo interventi pubblici e incentivi e disincentivi rispetto al capitale privato, tali da promuovere davvero la creazione di posti di lavoro. A questo aveva timidamente accennato quest'estate il ministro del tesoro, con la sua proposta di un patto sociale ove ai nuovi sacrifici chiesti ai lavoratori sul terreno della flessibilità e dei salari, corrispondesse, un impegno delle imprese a favore dell'occupazione. Allora il solo balenare dell'ipotesi di qualche forma di vincolo o penalizzazione fiscale verso i profitti sollevò un tale coro in difesa della libertà dei mercati, che lo stesso ministro Ciampi dovette fare una precipitosa retromarcia. Il confronto tra le parti sociali è così diventato l'ennesima trattativa per abbassare il costo del lavoro ed agevolare il profitto d'impresa, senza porsi il problema principale del perché le ricchezze si accumulino, ma non si redistribuiscano in posti di lavoro. Si è quindi realizzata l'ennesima rappresentazione dell'ideologia liberista dominante, secondo la quale il salario è sostanzialmente un costo da ridurre il più possibile, mentre di profitti non ce ne è mai abbastanza per fare il bene dell'economia.

Il sindacato finisce sulla difensiva

È chiaro che, con queste premesse totalmente sbilanciate a favore dell'impresa, la trattativa tra sindacati, governo e organizzazioni padronali poteva avere una sola direzione di marcia. Il sindacato, che avrebbe avuto tutte le ragioni per mettere sotto accusai il sistema delle imprese per il disimpegno sull'occupazione e per rivendicare un cambiamento negli assi della politica economica, finiva sulla difensiva, costretto a difendere il sistema contrattuale da ulteriori tagli e peggioramenti. Viceversa il sistema delle imprese poteva presentarsi come vittima di passate angherie stataliste e rivendicare la libertà di profitto precedentemente oppressa. Il governo infine, una volta accettata la tesi liberista secondo la quale il lavoro viene dall'impresa e se il lavoro manca è perché il livello dei profitti non è ancora adeguato, si è persino potuto schierare su una posizione centrale di antico sapore democristiano: soldi alle imprese si, purché non esagerassero nei confronti dei sindacati. I quali, grazie anche alle rigidità adottate dal gruppo dirigente della Cgil nella fase finale del negoziato (all'inizio le "aperture" erano state più ampie), hanno potuto portare a casa il risultato difensivo di non veder peggiorata l'intesa del 23 luglio, con il mantenimento, per la maggioranza delle categorie dei lavoratori, di due livelli di contrattazione, nazionale ed aziendale, senza però riuscire a ridistribuire la ricchezza né in salari, né in posti di lavoro.

Nessun vincolo per le aziende

Il senso dell'intesa resta dunque quello di definire freni e condizionamenti concertati rispetto ad un liberismo che resta l'indirizzo portante delle scelte economiche. Così oltre 10mila miliardi di minor costo del lavoro verranno dati al sistema delle imprese nei prossimi anni, senza alcun vincolo formale che impegni le aziende a favore dell'occupazione. Non a caso non si fa cenno nell'accordo alla riduzione dell'orario se non, genericamente, rispetto alla formazione dei lavoratori. D'altra parte anche i capitoli sulla formazione contenuti nell'accordo pagano il loro pedaggio al liberismo. L'obbligo formativo a 18 anni può rappresentare un passo avanti. Il rischio però è che esso prefiguri un ritorno ad una stabile separazione tra quei giovani che potranno assolvere l'obbligo nelle scuole vere e proprie, e quelli che vi ottempereranno con una formazione professionale legata a prestazioni in impresa, che somiglia alla riproposizione del vecchio avviamento. Ma soprattutto la formazione, in questo contesto, diventa una riscrittura delle politiche dell'offerta a carico della forza lavoro: non sono le imprese o le politiche industriali del governo che devono offrire condizioni di lavoro più qualificato, sono i lavoratori che non sono sufficientemente preparati. Si dimentica così che proprio nelle zone del Nord-Est ove c'è stato il maggiore sviluppo, esso è avvenuto con la diffusione di lavoro non qualificato, al punto che la si sono registrati fenomeni di riduzione del tasso di scolarità. Questo mentre scompariva l'informatica nazionale ed entravano in crisi tutti i settori ad alta qualificazione del lavoro. In questo contesto anche progetti positivi di crescita del patrimonio professionale dei lavoratori avvengono sotto il peso dello stesso squilibrio che segna il rapporto salari-profitti: tutto è a carico del lavoro nulla dell'impresa che deve solo obbedire alle leggi del mercato. L'intesa di dicembre segna dunque ancora un volta il limite di una impostazione politica, seguendo la quale il mondo del lavoro potrà al massimo temporaneamente rallegrarsi di essersi risparmiata qualche nuova bastonata.

Per una nuova politica

Ma se si vuole davvero far crescere l'occupazione e conservare i diritti sociali del sistema europeo, allora bisogna cambiare strada. Il salario deve uscire dal banco degli accusati ove siede ingiustamente da venti anni e le politiche economiche debbono pensare a promuovere uno sviluppo adeguato ai grandi problemi sociali civili ed ambientali delle nostre società. Qui bisogna impostare un'agenda diversa da quella che finora ha governato il confronto sociale. Le prossime scadenze, dal rinnovo del contratto dei metalmeccanici, al confronto su flessibilità e stato sociale che l'accordo di dicembre preannuncia, ci dicono che è giunta l'ora di mettere in campo una nuova politica, sostenuta da quanto più è mancato nel confronto tra le parti sociali: la partecipazione e la mobilitazione del mondo del lavoro in carne o ossa.