Colpire i profitti, aumentare i salari Claudio Grassi |
Liberazione 8 agosto 1998
«Se Giorgio Fossa e i suoi amici della Confindustria fossero abbastanza spiritosi, comprerebbero un paio di casse di champagne di marca, andrebbero a palazzo Chigi e inviterebbero Prodi e Ciampi a brindare con loro». Apriva così su la Repubblica di ieri Giuseppe Turani (un economista certo non sospettabile di simpatie comuniste) il suo commento al Rapporto Mediobanca sui profitti delle imprese italiane nel 1997. Commento che aveva come titolo significativo "Azienda Italia, volano i profitti, mai così alti come negli ultimi dieci anni», a dimostrazione che ormai lo scarto immorale tra il rialzo del profitto capitalistico in Italia e il valore dei salari non è un "grido d'allarme ideologico" dei soliti guastatori comunisti, ma un fatto reale e sotto gli occhi di tutti. D'altra parte contro l'evidenza delle cifre fornite dal Rapporto Mediobanca c'è poco da far ricorso all'ideologia: le 1.749 imprese passate sotto il vaglio del suo Ufficio studi hanno registrato profitti complessivi (dopo le tasse) per 14.616miliardi, cinquemila miliardi in più del '96. Ma dal Rapporto di Mediobanca, oltre il fatto che i profitti del capitale italiano sono i più alti degli ultimi dieci anni, emergono altri dati, di decisiva importanza, ai fini di una riflessione politica nuova che dovrebbe ormai attraversare tutta la sinistra politica e sindacale italiana. Se infatti andiamo a verificare su quali basi si siano costituiti i mirabolanti profitti delle imprese, dovremo poi per forza ancora convenire con Turani quando ironicamente afferma: «Fossa e i suoi amici dovrebbero invitare al brindisi di palazzo Chigi, oltre Prodi e Ciampi, anche una delegazione di metalmeccanici, di tessili, di gasisti...». Perché il punto è che l'impressionante rialzo degli utili delle imprese non avviene per una crescita altrettanto forte del fatturato complessivo (le imprese piazzano solo un 6,5 per cento in più di merci sul mercato, rispetto al 1996, anno in cui il rialzo delle vendite era stato del 13,5 per cento) ma, essenzialmente, dall'aumento straordinario di produttività da parte dei lavoratori, che nel 1997 producono in media, a testa, il 10 per cento in più rispetto al 1996. Detto in altri termini, nel 1997 si alza a dismisura il tasso di sfruttamento delle imprese sui lavoratori e ciò determina anche in presenza di un mercato interno asfittico e inaccessibile per gli lavoratori - uno straordinario rialzo dei profitti.
Domanda: questi sacrifici dei lavoratori (che per le politiche liberiste subordinate a Maastricht hanno perso nel frattempo anche gran parte delle garanzie sociali), questo aumento dello sfruttamento (a fronte di una crescita della produttività del 10 per cento, il costo complessivo del loro lavoro compresi tutti gli oneri sociali non aumenta che del 4,5 per cento) portano in cambio una maggiore occupazione? Nemmeno per sogno. Anzi, nelle imprese analizzate da Mediobanca il numero dei dipendenti scende del 22 per cento, il che spiega nel migliore dei modi su quali basi di sfruttamento intensivo della forza lavoro residua si basi l'attuale profitto padronale.
Certo è che gli stessi dati relativi alla modesta crescita del fatturato da parte delle imprese e il fatto che essa sia stata sostenuta essenzialmente dalle esportazioni (che salgono dell'8,4 per cento) e dalle politiche della "rottamazione", pongono oggettivamente la questione della "chiusura" del mercato interno per via di quello che ormai va considerato il fenomeno del sottosalario di massa. I lavoratori non possono più spendere; la battaglia per il salario viene esorcizzata come il demonio da parte della Confindustria, del governo e delle forze sindacali; il profitto si costituisce e cresce solo sulla base dell'aumento dello sfruttamento dei lavoratori e sulla drastica riduzione della forza lavoro; le aree della disoccupazione e della povertà si allargano (restringendo ulteriormente il mercato interno): si vuol credere davvero che sia razionale un disegno che si riduca a una nuova compressione del salario, a un ulteriore allargamento dell'area della disoccupazione e a una ricerca del profitto basata solo su un continuo aumento dello sfruttamento sulle aree residue dei lavoratori? In verità i dati Mediobanca, oltre che mettere in luce una politica d'impresa incapace di uscire con una proposta di respiro - pur mercantile - dalle proprie contraddizioni, evidenziano il fallimento delle politiche di concertazione seguite agli accordi sindacali del luglio '93. Queste politiche hanno offerto le basi materiali all'attacco del Contratto nazionale di lavoro, ai fenomeni ormai di massa della flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro e al moltiplicarsi dei contratti "atipici", di "area" e di "emersione".
Le forze politiche del centro-sinistra e dell'Ulivo dovrebbero quindi riflettere sui dati Mediobanca e assumere con determinazione una politica riformatrice capace di invertire la tendenza di questi anni, colpendo gli interessi del grande capitale e migliorando le condizioni delle masse popolari.