«La necessaria rottura con il governo Prodi»

Marco Ferrando

(direzione nazionale Prc)

Liberazione 19 agosto 1998

Il bilancio economico-sociale del governo Prodi è scolpito ormai da cifre impressionanti. Questo governo non ha realizzato solamente l’operazione di risanamento capitalistico-finanziario più imponente dell’intero Occidente. Ha conseguito con esso il record europeo in fatto di privatizzazioni (dati ’97). Il record continentale in fatto di incentivi ed agevolazioni al profitto di impresa, un salto storico nelle politiche di flessibilizzazione del lavoro. Le conseguenze sono inequivocabili: i profitti padronali hanno raggiunto nel ’97 il massimo storico degli ultimi 10 anni (14,416 miliardi) mentre al polo opposto si accresce drammaticamente la povertà, si sopprimono ogni anno 20 mila posti di lavoro, precipita ulteriormente la condizione sociale di grandi masse nel Mezzogiorno. Sono ripeto, dati pubblici, che nessuno oggi mi pare contesti, ma che dovrebbero interrogare seriamente il bilancio e il futuro della nostra azione politica.

In primo luogo, il bilancio. Nessun nostro documento potrà più ora affermare: "Non abbiamo ancora ottenuto la svolta, ma abbiamo difeso l’equità". No. L’enorme trasferimento di ricchezza sociale al profitto privato, in nome dell’Europa, è stato pagato dall’accresciuta miseria delle classi subalterne. Una accresciuta miseria che non è stata e non è il prodotto di una colpevole disattenzione o insufficienza, fosse pure gravissima del governo. È al contrario il risvolto obbligato e strutturale dell’intera politica sociale che esso ha perseguito per due anni, col sostegno della sua maggioranza. Certo: noi abbiamo negoziato, limato, temperato con infaticabile impegno quella politica e i suoi effetti sociali. Ma abbiamo appunto negoziato la politica avversaria sul terreno avversario. Il fatto che questa politica sia avanzata in un quadro di stabilità governativa, in assenza di un’opposizione a sinistra e sullo sfondo di una pace sociale senza pari in Europa ha rappresentato per la borghesia italiana un vantaggio ben superiore alla snervante "scomodità" della contrattazione dei propri interessi col nostro partito. È ciò che Gianni Agnelli ha del resto chiaramente riconosciuto augurando sinora esito felice ad ogni "verifica" di maggioranza. Oggi settori borghesi pensano di poter fare a meno anche di quella scomodità liquidandoci dalla maggioranza, dopo aver incassato per due anni i nostri voti? È possibile. Ma perché per due anni le classi dominanti si sono rafforzate socialmente e politicamente a fronte del logoramento nostro, della passivizzazione della nostra base sociale, del più generale disincanto del popolo della sinistra, del rilancio del blocco sociale della destra. Non è questa allora un’ulteriore ragione di riflessione?

In secondo luogo il bilancio economico sociale del governo interroga seriamente la domanda della "svolta", su cui oggi si concentra il confronto tra i comunisti. Dovremmo innanzitutto riflettere più a fondo, anche alla luce dell’esperienza, sulla stessa credibilità di una svolta riformistica entro l’attuale crisi capitalistica e nel processo di costruzione del polo imperialistico europeo. Peraltro se lo stesso keynesismo di Jospin (imprudentemente osannato) si sta risolvendo nel governo della flessibilità e delle privatizzazioni, immaginiamo cosa è possibile attendersi in Italia dalla tecnocrazia liberale di Bankitalia e dai suoi ministri.

Ma l’interrogativo centrale che vorrei porre è un altro, semplice e rivelatore: cosa significa "svolta riformatrice"? Perché in realtà se volessimo assumere coerentemente le implicazioni di quella formula dovremmo arrivare a una conclusione obbligata: svolta riformatrice significa innanzitutto richiesta di abrogazione del 90 per cento delle misure, dei decreti, delle leggi varate da questo governo e dalla sua maggioranza in questi due anni. Crediamo sia possibile una svolta nelle politiche per il lavoro senza l’abrogazione di quelle misure di flessibilizzazione che svuotano di ogni efficacia occupazionale la stessa riduzione d’orario? Crediamo sia possibile una radicale riforma fiscale senza abolire quella massa gigantesca di agevolazioni per i profitti che ha regalato in due anni 42 mila miliardi al padronato? Crediamo sia possibile anche solo un recupero letterario delle vecchie illusioni riformistiche sulla programmazione senza chiedere l'abolizione di tutte le misure di privatizzazione introdotte dal governo nei settori strategici dell’economia produttiva e del sistema bancario? Si potrebbe continuare. Ma è chiaro che il bilancio materiale di questo governo è il primo insormontabile macigno sulla via della "svolta".

Questa verità è talmente fondata da essere usata dai nostri alleati di coalizione contro di noi e in termini capovolti: "Se abbiamo insieme votato questa politica per due anni, sino a concordare 125 mila miliardi di sacrifici, perché non potremmo continuare insieme lungo quel solco sia pure con possibili alleggerimenti e innovazioni?". "Se avete votato un Dpef che annuncia 9 mila miliardi di tagli, nuove privatizzazioni, nuovi incentivi ai profitti, perché dovreste rompere su una finanziaria il cui indirizzo è appunto definito dal Dpef?". È questa - come sappiamo - la musica quotidiana di Prodi, Veltroni, D’Alema.

Dobbiamo allora respingere questo tentativo dell’Ulivo di stringerci alla coerenza del percorso sinora seguito. Ma non potremo farlo credibilmente arrampicandoci sugli specchi di qualche aggettivo parlamentare (la fiducia "critica") a giustificazione e difesa della nostra vecchia politica. Potremo farlo nell’interesse generale dei lavoratori e del partito, se avremo invece il coraggio di un bilancio di verità di questi due anni: della politica del governo ma anche del sostegno che le abbiamo accordato. Se assumeremo di conseguenza la rottura col governo come premessa elementare di credibilità nella battaglia contro la sua politica, lavorando, dall’opposizione, per una svolta radicale dei rapporti di forza sociali e politici. Se assumeremo infine la collocazione all’opposizione entro una riflessione nuova sulla prospettiva strategica della rifondazione, fuori dall’illusione fallita di un "compromesso dinamico" con le classi dominanti.