«Un dibattito iniziato male» Un intervento Gianfranco Pagliarulo (coordinatore nazionale del Dipartimento Informazione e Stampa Prc) |
Liberazione 29 agosto 1998
1) Da parte delle compagne e dei compagni del gruppo dirigente del Prc è comune la preoccupazione per l'allarme sociale, i nuovi attacchi al mondo del lavoro (Modigliani docet), il pericolo delle destre e del neocentrismo, lo scollamento drammatico fra politica e società. Non vedo "guardiani della rivoluzione" e quinte colonne che la boicottano. Nessuno ha messo in soffitta l'impegno per la svolta riformatrice, o comunque prescinde dal merito. Spesso invece si presentano le opinioni di alcuni come politiciste, moderate, fuori linea, mentre quelle di altri sarebbero sensibili alle esigenze delle masse, veramente rivoluzionarie, espressione della linea. Si è così giunti in questo mese ad una grave crisi del gruppo dirigente del Prc e a una caduta di immagine. Qualcuno si appella alla verità dei fatti. Eccola: l'aspra polemica pubblica fra compagni del gruppo dirigente del Prc è nata dai reiterati e violentissimi attacchi alla proposta fatta all'inizio di agosto da Nerio Nesi al ministro Ciampi di una "nota aggiuntiva" che accompagnasse la finanziaria. Il dibattito è iniziato male: di tale proposta, che può essere condivisa o criticata, si è negata la legittimità, la coerenza con la linea del partito, l'utilità pratica, la correttezza, la liceità politica e storica. Non vedo il motivo né di demonizzarla, né di esaltarla come soluzione del problema. La linea decisa da Cpn sintetizzata, com'è noto, nel binomio svolta o rottura, ha come oggetto i contenuti della politica economico-sociale del governo, e come sfondo i problemi legati ai rapporti di forza fra i partiti e fra le classi dei quali si è a lungo parlato. Abbiamo chiesto una svolta di indirizzo in mancanza della quale saremo costretti alla rottura. Abbiamo fatto benissimo. Questo vuol dire lavorare duramente per costruire la svolta, a partire dal documento presentato al governo, per svilupparlo nelle sue varie implicazioni, come per esempio la battaglia per una programmazione democratica. Il fronte della battaglia politica è dato infatti dalla conquista di risultati concreti. Se da parte del governo Prodi saranno dati soltanto segnali negativi, saremo costretti alla rottura, eventualità che ritengo negativa ma possibile, oltre che prevista dal Cpn. In questa circostanza, che si caricherebbe sicuramente di toni drammatici - l'attacco dal centro di D'Antoni al governo la dice lunga - occorrerà tener conto delle opinioni degli iscritti e del popolo di sinistra, per avere meglio il polso della situazione. Non si può prima evocare quotidianamente la rottura e poi dichiarare di minacciarla per "alzare il prezzo" della. trattativa. Questo sì che sarebbe davvero una forma nuova e pericolosa di doroteismo. È stupefacente, da questo punto di vista, l'articolo della Rossanda sul Manifesto del 26 agosto, in cui per alcuni aspetti si mette in guardia il Prc dall'aprire una crisi di governo.
2) La sproporzione fra il "gesto" politico (la proposta di Nesi) e la virulenza delle reazioni alla proposta e al suo portatore conferma la diagnosi grave che faceva pochi giorni dopo Diliberto registrando "un degrado complessivo della vita di partito". Un partito non è ciò che vorrebbe essere, ma ciò che è nella vita quotidiana; dobbiamo cioè interrogarci sul modello organizzativo di fatto del partito ove da una parte si evoca sovente un carattere movimentista o si afferma la necessità che sia o diventi un partito di massa, dall'altra si pratica un tentativo di direzione di tipo dirigista (ne è testimonianza la vicenda Nesi) teso non necessariamente al rispetto "della linea", ma di una interpretazione della linea, che sarebbe giusta, mentre le altre sono sbagliate o illegittime. C'è il pericolo che così possa diventare un valore la fedeltà non "alla linea" o "al partito" ma a questo o quel dirigente, e che vada avanti una cultura del sospetto in cui si giudica l'altro compagno per ciò che penserebbe ma non dice. È stato scritto: "non è lecito lavorare per traumatizzare un partito che ha già sofferto separazioni e scissioni". Giusto! Ma chi è che lavora in questa direzione? Chi è che da tempo attacca con furore sui media il presidente del partito ed evoca il fantasma della conta?
3) Caprili si chiede "perché dovremmo impedire ad altri pezzi della sinistra di interrogarsi su questi temi ed offrire indicazioni, proposte, prospettive". Si tranquillizzi; nessuno sta impedendo alcunché. Se il nostro lavoro di costruzione di una rete di alleanze e convergenze comprendesse anche questo, non ci troverei niente di strano. Ciò che non condivido è invece limitare tale nostra azione solo a questo o principalmente a questo, sia sul tattico che - a maggior ragione - sul piano strategico. In una interessante conversazione di Alfonso Gianni con Fausto Bertinotti sul primo numero di Quaderni (pubblicazione dell'Ufficio di programma del Prc), si affronta la questione della costruzione di un programma generale del Prc. Si accenna alle più significative esperienze di programma in Europa nel dopoguerra, da Bad Godesberg (1949) al programma della socialdemocrazia tedesca del 1989, ma non c'è traccia della dichiarazione programmatica del Pci, approvata alla fine dell'VIII Congresso nazionale (dicembre 1956) che, giusta o sbagliata che sia stata, costituisce uno dei riferimenti, e le cui radici affondano nel ragionamento sulle "forze motrici" e sulle alleanze, insomma in tutta l'elaborazione gramsciana che atteneva all'analisi nazionale (questione meridionale e cattolica) e poneva su basi nuove l'intero problema della rivoluzione in Occidente. Sempre nella stessa conversazione si parla di un programma "che contribuisca alla ridefinizione e alla definizione del Prc in Italia e in Europa", dunque alla sua identità; inoltre si sostiene che lo stesso programma va costruito con le altre culture critiche. Cè poi un'esplicita presa di distanza dalla categoria gramsciana di blocco storico, ma non vedo la proposta di strumenti alternativi. Temo un percorso di trasformazione nel partito delle "culture critiche" ove si può stemperare la cultura critica che noi abbiamo liberamente scelto e che abbiamo chiamato comunista e temo, contestualmente, una disattenzione nei confronti dell'insieme della società. Ecco perché non mi pare che i riferimenti di Diliberto "a Togliatti, Longo e in parte Berlinguer", rappresentino un "deprimente uso ad esclusivo fine polemico di una cosa seria come la storia del Pci". Invece, senza nessun continuiamo fuori del tempo e dell'opinione di tutti noi, va ripensata la più grande esperienza di partito comunista di massa del dopoguerra, bandendo quel silenzio-rimozione che da troppo tempo nel partito avvolge questa storia, affiancato da una costante rivalutazione solo di determinate pratiche e teorie di sinistra che, quanto meno in Italia, si sono dimostrate minoritarie e perdenti. Questo è l'ambito corretto di una effettiva riconsiderazione del meglio anche di queste esperienze.