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RACCONTI

 

NEMA PROBLEMA (pensiamo ad altro…)

1

Probabilmente il momento migliore dell’essere padre è quando tuo figlio ti scopre debole, come lui, più di lui, eppure continua ad ammirarti, a stimarti perfino.

Io mi accorsi della debolezza di mio padre che avevo quasi quarant’anni e, Dio come me ne innamorai! No, no, aspettate, io ho sempre amato mio padre, ma allora mi innamorai proprio della sua debolezza, di quel sentirsi uomo fragile che lui cercava disperatamente di nascondere a chiunque, e che per tutti quegli anni aveva celato anche ai miei occhi. Piccole cose, s’intende: scatti d’ira spesso gratuiti, qualche errore che "io" non avrei commesso, qualche parola sbagliata… No, fisicamente era in gran forma, per questo avrei solo potuto invidiarlo, erano altri i difetti che, di colpo, riuscivo a cogliere. E se fino ad allora avevo amato ed ammirato mio padre in quanto mio unico eroe, ora lo amavo perché era "mio" padre, e lui amava me.

Peccato che quello stato di grazia durò poco: mio padre fu una delle vittime del bombardamento dell’otto maggio, l’anno scorso. Se ne andò insieme alla nostra casa, via! Come se fosse sempre solo esistito nella mia memoria.

Non rimasi sotto le macerie unicamente perché, quando la bomba centrò con precisione estrema tutto quello che avevo, io ero sottoterra, nell’ospedale civile della Città, a ricucire le vittime del bombardamento della notte prima. Lo sapete, vero? Quelli bombardavano una volta di giorno e una volta di notte. Sì, allora io facevo l’infermiere, sempre meglio che essere al fronte, no? Dovetti imparare i rudimenti della tecnica sanitaria molto in fretta, ma forse ero già destinato a quel mestiere: prima che la guerra arrivasse anche da noi a sud, io ero liutaio, aggiustavo le chitarre, le riportavo in vita. Ora però c’era altro da fare. Una bomba sopra una casa sembra proprio che faccia più danni di un legno da raddrizzare, anche se si tratta del manico storto di una Stratocaster del 1957. Specialmente se la casa è abitata.

Era più saggio, più urgente direi, provare a riparare le donne e gli uomini.

Bene, dicevo: ero là sotto e provavo a riattaccare un braccio ad un ragazzino che avrà avuto sì e no dieci anni. Non avrebbe ripreso l’uso dell’arto ma almeno sarebbe stato simmetrico, cristo!

Mi stava aiutando un’infermiera, Despina.

Despina era una bella donna, con una seducente cascata di riccioli biondi che arrivavano a lambire una parte decisamente apprezzabile del suo fisico e due occhi colore del cielo. Ma non il cielo che c’è durante la guerra, eh? Un cielo terso, senza nuvole né bombardieri.

Passandomi il collante di sutura con il quale avrei dovuto ridare un minimo di estetica al bambino, Despina sfiorò le mie dita. No, no, avevamo finito da una settimana i guanti sterili: mi toccò proprio le dita!

Che scossa!

Come quando ti prude il palato, e più cerchi di darti sollievo strofinandoci sopra la lingua, più peggiori la situazione! Non è che soffri, ma ti viene un nervoso! E allora lasciai cadere gli attrezzi che dovevano garantire al bambino la speranza di conservare un braccio sinistro, e strinsi forte la mano di Despina. Dio, come mi piaceva quella donna! Lei non ritrasse la sua mano. Erano tempi di precarietà, quelli. In quel momento, infatti, sentimmo urlare le sirene che anticiparono di un solo istante il rantolio basso del bombardamento. Gli aerei nemici stavano lavorando di nuovo. Già vedevo la polvere alzarsi dalle macerie, la polvere che ti riempie i polmoni. E allora? Con quelle belle prospettive per il futuro non valeva la pena di consumarsi cercando di respirare quanto più si poteva qualcos’altro che non fosse quella polvere?

Despina accostò la mia mano alle sue labbra e cominciò a leccarmi la punta delle dita. Nessuno poteva vederci, tanto meno il nostro povero paziente (che, incosciente, combatteva contro un’insorgente setticemia).

Despina aveva un collo bianco, lungo e sottile, perfetto, a formare con le spalle una curva sensualissima, che sembrava aspettare solo le mie labbra… E stavo per mordere il collo di Despina, e stavo anche per affondare il volto in quella scollatura che, in barba alla guerra, mostrava orgogliosa due floride colline risparmiate dai bombardamenti, quando entrò, in quella specie di sala operatoria, con il fiato a spaccargli i polmoni, un ragazzo che conoscevo di vista:

"Signor Wedel, signor Wedel… hanno centrato casa sua!"

Inutile che vi dica cosa trovai (o meglio, cosa non trovai più!) quando, con la mano di Dio che mi strozzava impietosa e lacrime acide che mi accecavano, arrivai a casa: non c’era più niente, oh, niente! Nemmeno la polvere che si alzava! Sì, va bene… trovai un braccio… una mano… l’anello di papà… l’unica cosa che mi rimane ancora di lui.

Stavo sfilando quell’anello dalla mano che avevo trovato fra le macerie, senza singhiozzi perché senza fiato, quando mi accorsi che qualcun altro era chino a scavare tra i resti della mia casa. Era un ometto impolverato. Quando i nostri occhi si incrociarono, nei suoi guizzò uno sguardo da lucertola. Con immensa fatica gli urlai:

"Ma che fai, sciacallo!"

Si voltò verso di me: il suo sguardo divenne da cobra.

"Quello che stai facendo tu, amico, cerco di sopravvivere."

E con estrema indifferenza mi voltò le spalle e ricominciò a scavare tra i calcinacci…

Ripresi, serrando la gola per non piangere:

"Senti, bastardo, questa è… era casa mia! Vattene adesso! C’è mio padre qui sotto!"

Lui non mi guardò neanche in faccia, questa volta:

"Si, si… molto commovente, quasi ci credo. Dai, cercati della roba e non rompermi i coglioni.

Ehi, ma questi occhiali hanno la montatura d’oro!"

Gli occhiali di papà! Una botta improvvisa alla testa mi fece vacillare, eppure niente mi aveva colpito. Con le tempie che mi esplodevano di rabbia e di dolore raccolsi un pezzo di muro sbrecciato e colpii ripetutamente l’uomo-rettile. Il primo colpo gli schiantò l’occipitale, e un bello schizzo di sangue andò a innaffiare i resti di quella che un tempo era stata la cucina. Con il secondo colpo arrivai alla nuca, mettendo allo scoperto atlante ed epistrofeo. Conclusi solo quando la mia arma, il mio pezzo di muro, non fu completamente dentro la cassa toracica. E io mi trovai con le braccia affondate nel corpo di quell’uomo, lordo di sangue fino ai gomiti. Improvvisamente mi resi conto, comunque, di ciò che avevo fatto: a me le troppe emozioni hanno sempre provocato l’epistassi, così, gocciolando sangue anche dal naso, mi voltai di scatto e mi misi a correre!

Basta! Mi ritiro! Cedo! Voglio tornare a casa! (quale?)

Allora fatemi tornare nel ventre di mia madre, fatemi tornare mezzo ovulo e mezzo spermatozoo, fatemi tornare mera ipotesi!

Stavo correndo per allontanarmi il più possibile da quello che restava di casa mia e da quell’incubo, quando una stretta vigorosa e calda mi bloccò: era Despina, la mia Despina. Evidentemente ero arrivato di corsa fino alle botole dell’ospedale-rifugio, e… lei mi stava aspettando?

Despina, oh cara, tienimi stretto, e porta via tutto questo orrore!

Immagino che avesse intuito tutto: "Ermis, fermati… stai calmo, Ermis… è tutto finito… Ermis…"

Despina mi strinse forte al suo petto, mentre io mi stavo sciogliendo in un pianto senza freni che trovavo preferibile ai singhiozzi isterici. Allora abbracciai forte anch’io Despina e riuscii a balbettare: "Andiamo via, Despina… torniamo giù… andiamo via da qui…"

Scendemmo allacciati le scale che ci portavano all’atrio dell’ospedale. Despina mi cingeva i fianchi, mentre io la stringevo forte intorno alle spalle. Ogni passo ci fermavamo, e lei mi baciava gli occhi, e - giuro! – nessun fazzoletto avrebbe asciugato meglio le mie lacrime.

"Hai degli occhi bellissimi, Ermis."

Mi sentivo meglio. Ricominciai a respirare con una certa regolarità.

Scendemmo fino all’ultimo piano, dove c’erano i dormitori, ed entrammo nella mia camera.

"Quanti anni hai, Despina?"

"Ventidue, Ermis… sono nata al nord, sotto i bombardamenti…"

"Allora qualcosa di buono la guerra l’ha tirato fuori!"

D’accordo, era il momento per dire tutt’altro, ma a me venne quella frase lì…

E mi venne anche un abbozzo di sorriso. Dio, da quanto tempo non sorridevo! E sorrise anche Despina: bellissima! Le sue labbra formavano un arco perfetto: non potevo lasciarle lì tutte sole! Abbracciai la ragazza e finsi un passo di valzer, mentre il sorriso stava diventando quasi una risata entusiasta. Ci lasciammo cadere sul mio letto. La guerra, il mondo fuori, potevano aspettare.

A quel punto m’importava soltanto di coprirla di carezze, e di baciarle tutto il corpo, senza lasciare il benché minimo lembo di pelle privo del contatto con le mie labbra. La liberai subito dal camice che indossava. Ero anche riuscito a sganciarle il reggiseno con una mano sola, la sinistra, mentre con indifferenza le sfioravo la schiena. Sentivo Despina gemere al tocco delle mie mani. Lei era completamente nuda. La ragazza mi aiutò a spogliarmi, mentre le nostre bocche continuavano a cercarsi con foga. Mi sdraiai sopra di lei, che allargò le gambe per accogliermi, cingendomi i fianchi con una stretta vigorosa. Cercai di penetrarla con estrema delicatezza, ma l’ultimo sforzo le strappò ugualmente un piccolo grido di dolore. Non avevo avuto grandi ostacoli da abbattere, ma il percorso si era rivelato lo stesso angusto. Dopo alcuni minuti, nei quali dovetti immaginare scene meno sensuali di quella che stavo vivendo per non terminare in maniera indecorosa quel preziosissimo incontro, mi avvidi che Despina si stava lamentando. Mi guardava fisso negli occhi e, a denti stretti, dissimulava una qualche sofferenza. Mi ci volle poco per capire che la ragazza non era avvezza a manifestare in maniera esplicita il suo piacere, e stava così trattenendo l’urlo liberatorio che il suo orgasmo le proponeva.

Ansimando riuscii a dire:

"Dai, amore, libera la tua voce… "

E la voce di Despina, così svincolata, si unì alla mia in un grido beatamente primitivo, coprendo il rumore del mondo che, intanto, stava crollando da qualche parte.

2

Fui svegliato di soprassalto da quella specie di temporale artificiale che era il bombardamento. Ma non mi interessava quello che stava succedendo fuori, io ero lì sotto, al sicuro e con una splendida donna al mio fianco. Despina si svegliò assieme a me, e si rannicchiò subito sotto il mio corpo:

"Non ho mai fatto l’abitudine a questo rumore, al rumore delle bombe, Ermis…"

La strinsi forte e la baciai. Era calda e morbida, un sogno di donna.

"Ma se ci sei nata, sotto le bombe, Despina bella!"

"È per questo che sono scappata a sud, con la mia famiglia, allora i quartieri meridionali non venivano bombardati… ma adesso è tutto come a nord anche qui…"

La voce di Despina tremava un po’, e io la trovai irresistibilmente sexy, con le parole che si facevano largo a fatica tra i denti. Andai a cercarla immediatamente, quella voce, e strada facendo incrociai la lingua di Despina. Un incontro non troppo casuale, d’accordo, in ogni caso molto piacevole. La baciai a lungo, mentre fuori il bombardamento continuava.

"Ermis, ma finirà questa guerra?" la voce di Despina ora aveva sì una nota di tristezza ma aveva smesso di tremare… era più rilassata.

Va bene, allora parliamo? Ok, mi accendo una sigaretta…

"Già, Despina, a volte mi chiedo come mai dopo 70 anni di bombardamenti la Città stia ancora resistendo al nemico… come mai riusciamo a vivere sotto le bombe quasi fosse "routine"…"

"Sì, Ermis, come i pesci possono vivere sotto tonnellate d’acqua, e per loro è naturale, noi abbiamo imparato a vivere "con semplicità" sotto le bombe… è istinto di sopravvivenza, adattamento naturale, ma lo sai, no? È quello che ripete ogni giorno l’ologramma del Presidente…"

"Si Despina, ma a me sono sempre sembrate un mucchio di stronzate, sai… ti sei mai chiesta come dopo tutto ‘sto tempo non sia tutto, dico tutto, a pezzi, e non siamo tutti morti? "

"Ah, Ermis, Ermis… non lo so io, ieri è stato il primo giorno che sono uscita "di sopra" negli ultimi sei mesi, qualcuno dice che gli edifici distrutti vengano immediatamente ricostruiti, non chiedermi come. E poi, per fortuna, abbiamo i numeri dalla nostra parte."

"Sì, come le formiche e le termiti."

"Ma sai quant’è grande la città?"

"No, a dire il vero non me lo sono mai chiesto…"

"Io non lo so di preciso, Ermis, ma si dice che quando sorge il sole nei quartieri a Est è perché è appena tramontato in quelli a ovest."

"Hey! Il mio amore Despinella sta esagerando! Va bene, Despina, e la gente? Secondo te perché non muore quasi mai nessuno?"

Inutile dire che quel "quasi" fu per me una stilettata, ricordandomi che mio padre era stato un "quasi". Ma me l’ero cercata, no?

"Ermis, ma non vedi che tutti passiamo la maggior parte del tempo nei rifugi? Quando suona l’allarme resta fuori solo qualche pazzo… oh, scusami, Ermis…"

"Già, sembra proprio che muoiano solo i pazzi e gli sfigati, come mio padre che aveva deciso di passare tutto il giorno fuori dai rifugi, oppure quel ragazzino di ieri che è rimasto chiuso fuori … ma è stato solo un brutto incidente, no? Senti Despina, amore mio, ma tu davvero non hai voglia di vivere in un posto senza guerra?"

"Certo, Ermis, io sono stufa di questa vita, proprio come te."

"E allora andiamocene Despina, scappiamo. Sai, mio padre aveva in programma di andarsene dalla Città entro breve, anche lui. Ci sarà pure un posto dove vivere in pace, no? È strano, sono pochi quelli che se ne vanno da questo inferno, vero? Non mi viene in mente nessuno che conosca…"

"Sarà perché il Presidente ripete che la Città ha bisogno di tutti noi, ma comunque ognuno è libero di andare dove vuole, lo sai, e c’è sempre qualcuno che vuole andarsene,"

3

Teuta doveva solo passare il ponte. Ora si trovava davvero a pochi passi dal confine, a pochi passi dalla pace. A lei non importava davvero nulla se avessero ragione i suoi governanti (a proposito, l’ologramma del Presidente campeggiava luminoso anche lì sulla frontiera) oppure se avesse ragione il nemico. Teuta sapeva solo che, a settantatre anni, era davvero stanca di vivere sottoterra per paura delle bombe, oppure perché, si diceva, quando arrivavano i mercenari del nemico (e tutti i mesi riuscivano a rompere le difese e dilagavano in Città, e ci voleva Dio sa cosa per ricacciarli oltre le linee di difesa) facevano delle cose davvero terribili… e gratuite anche… una vecchia amica di Teuta le aveva raccontato di suo figlio, fermato dai mercenari, lui che neanche faceva il soldato, che gli chiedono: manica lunga o manica corta? Il ragazzo, terrorizzato, guarda i mercenari e li vede tutti con camicie abbottonate fino ai polsi; allora abbozza un sorriso e dice : manica lunga, fratello, hai la manica lunga… e quelli con un colpo di accetta gli tagliano una mano, per far vedere dove finisce la "manica lunga". Non contenti poi l’altro braccio l’hanno tagliato modello "manica corta", giusto per sottolineare il concetto. E così adesso quel povero ragazzo è monco sopra il gomito sinistro e gli manca la mano destra!

Settant’anni di bombe e di questi racconti di atrocità avevano davvero convinto Teuta che a lei non importava chi avesse ragione; le sarebbe solo piaciuto passare la frontiera e vivere in un Paese che non fosse in guerra con nessuno. Ora ce l’aveva quasi fatta, là in fondo c’erano le porte della Città. Alle spalle aveva ancora le luci dell’ultimo quartiere… chissà come era il Paese al confine? Boschi? Fiumi? Montagne? Il mare, forse? Teuta aveva sempre solo vissuto nella Città, naturalmente, ma si parlava tanto di queste cose, nei rifugi…

Mentre si avvicinava al confine Teuta teneva gli occhi fissi sull’immagine del Presidente… da che si ricordasse lei il Presidente era sempre stato così, brizzolato, con tutti i capelli in testa moderatamente lunghi, eternamente sorridente e con la mano destra aperta in segno di saluto… Era sempre rimasto uguale, si… ed era sempre stato lui il Presidente della Città, naturalmente. La guerra lo aveva obbligato a decretare lo stato di emergenza, e quindi niente nuove elezioni da più di settant’anni.

Teuta a questo punto era proprio ad un passo dal confine. Affiancò l’ologramma del presidente, cauta e silenziosa come una gatta, e via, con un balzo, felino anch’esso, attraversò la linea immaginaria che, per lei, separava la guerra dalla pace.

Oltrepassate le due casematte sguarnite del posto di guardia di frontiera (evidentemente il nemico non stava nel Paese confinante) Teuta si voltò un ultima volta verso la Città, guardando con maggiore simpatia l’effigie del Presidente. Sì, aveva proprio vissuto in un Paese libero, lei, dove la gente poteva muoversi ed andare dove voleva anche in tempo di guerra. Se doveva spostarsi a piedi o con mezzi di fortuna la colpa era tutta del nemico, e se doveva scappare di notte come una ladra era per non rischiare di incontrare i mercenari, e chi li pagava questi mercenari? Ma sì, era proprio così, aveva ragione il Presidente! La Città stava solo difendendo la Libertà e la Democrazia contro il nemico. Ma a Teuta ora importava di più la Pace. E nella sua nuova terra l’avrebbe trovata.

4

Bene, Despina ed io decidemmo di andarcene.

Cosa avrei potuto sognare di meglio che andarmene da quella città di merda, via dalla guerra, insieme a quella ragazza? Beh, forse c’erano migliaia di sogni migliori, ma in quel momento il mio mi sembrava il più bello di tutti!

Sapete, no, che la metropolitana funzionava, come tutto quello che c’era sotto terra? Così decidemmo di uscire dalla Città arrivando fino al capolinea della linea che passava vicino all’ospedale, e poi avremmo proseguito in superficie, a piedi. La linea puntava verso nord, avremmo cercato di passare il confine settentrionale, quindi. Avrei dato molto nell’occhio però, una volta "fuori" in superficie, perché gli abitanti dei quartieri settentrionali sono diversi da noi del sud. Non che fosse un problema, dato che nessuno ci impediva di muoverci dove volevamo, ma in superficie potevano esserci i mercenari, che magari controllavano il quartiere, chi lo sa… sarebbe stato più saggio non essere troppo vistosi. Despina era di origini nordiche, quindi sarebbe stata perfettamente a suo agio in mezzo a gente bionda, con la pelle chiara e gli occhi azzurri. Per me era diverso. Così, prima di lasciare l’ospedale, passai dal magazzino a comprarmi i dermi per schiarirmi la pelle e i capelli (pagandoli con l’ultima muta di super-scalate, corde per chitarra, dico…). Capelli biondi e occhi neri stavano da dio!

Scendemmo in metropolitana.

Il treno sarebbe passato entro le prossime due ore, così diceva la voce sintetica che ci accolse all’entrata.

La banchina era affollata di gente.

Sentivamo il rumore del bombardamento sopra la testa, attutito dal fatto che saremmo stati qualche decina di metri sotto terra…

Despina mi gettò le braccia al collo, cominciò a mordermi i lobi delle orecchie, urlandomi:

"Baciami, Ermis, e stringimi forte, e parlami, non le voglio più sentire le bombe!"

La situazione era davvero molto eccitante! Ma ci eccitavamo sempre con le bombe? Che depravati!

Nessuno ci degnava di attenzione, ma mi sembrò una buona idea cercare lo stesso un buco dove non fossimo troppo in vista. Perfetto: un vecchio chiosco da edicolante, vuoto.

Cominciai a scandagliare l’interno delle orecchie di Despina con la punta della lingua, e poi le mie labbra avvolsero tutto il padiglione auricolare, e baciavo e sussurravo:

"Despina, amore mio, le senti ancora le bombe?"

"Più forte, Ermis, più forte!"

Cominciai a gridare: "Despina, ti amo, hai capito? Mi sono innamorato di te!"

Lei si fece scivolare una mano tra le gambe, e cominciò a urlare più forte di me:

"Ermis! Anch’io ti amo!"

Se, come tutto lasciava supporre, stava avendo un orgasmo, devo dire che aveva imparato benissimo a "liberare la sua voce". Hey, non è che potevo rimanere proprio indifferente, no? E Despina lo sapeva. Senza smettere di urlare mi fece sedere e si piegò sopra di me. Cessò di gridare il suo piacere solo quando la sua bocca fu troppo occupata per emettere suoni. Ma a quel punto stavo urlando io!

La mia voce si confuse con il rumore del treno che intanto stava arrivando. Saltammo su una carrozza a caso, senza preoccuparci se fosse di prima o di seconda classe, visto che non avevamo i biglietti! Ma tanto non c’erano controllori, eravamo diventati una città di infermieri!

Questa volta qualcuno dei passeggeri sembrò notarci. Effettivamente doveva attirare l’attenzione vedere una coppia bionda, con lui che si faceva largo per trovare posto da sedere con i pantaloni in mano. E neanche lei troppo in ordine. Ci fermammo vicino alla mappa, che su ogni carrozza indicava il percorso della linea sotterranea, per consultarla. Dunque, per arrivare al capolinea avevamo da passare 103 fermate, era meglio mettersi comodi, no? Attraversammo tutta la lunghezza della carrozza cercando uno scompartimento vuoto, finché, dopo un paio di fermate, una coppia di orientali scese dal treno lasciandone uno libero per noi. Bene, seduti nel nostro scompartimento non sembrava neanche di muoversi, a quattrocento chilometri orari, come invece stavamo facendo. Evidentemente i ‘bot che controllavano quel treno erano stati programmati davvero bene, e ci evitavano scossoni o frenate brusche. Ci aspettavano almeno un paio di giorni di viaggio fino al capolinea, e il tempo sarebbe passato più velocemente dormendo. Così ci stendemmo sul letto dello scompartimento, dopo avere preso un sonnifero e l’equivalente di due giorni di cibo… facile no? Basta fare sciogliere la pastiglia sotto la lingua…

Mi addormentai con un seno di Despina come cuscino.

5

Teuta era così riuscita a fuggire dalla guerra! Non le importava assolutamente niente di essere una profuga, una disperata senza futuro, non le importava se sarebbe stata guardata con compassione o con disprezzo… ma la guerra lei l’aveva lasciata alle spalle. Ah, se gli abitanti del fortunato Paese vicino sapessero cosa aveva dovuto subire, Teuta, di certo l’avrebbero trattata con grande rispetto. Bisognerà farglielo sapere, a questi abitanti, chiunque essi siano!

In lontananza Teuta vide le grigie uniformi, tristemente familiari, della milizia mercenaria del nemico! "Ma allora questo Paese è il Nemico? Allora sono finita in pasto alle belve?" Lo sconforto e la disperazione che avrebbero dovuto annientare Teuta non fecero in tempo a prendere totalmente il sopravvento sullo stupore, perché, nascosta dietro una delle casematte che avrebbero dovuto delimitare il confine, scorse i soldati che si cambiavano le uniformi, per indossare quelle color kaki dell’esercito della Città. I militari si prepararono a formare una sorta di picchetto a presidio del ponte. Poi cominciarono a montare delle bocche da fuoco sul ponte. Uno di loro entrò nella casamatta dove, annichilita, si trovava Teuta.

"Signora, cosa fa qui dentro? Stia attenta, la città è piena di mercenari… e fra poco e l’ora del bombardamento. Credo che sarebbe meglio se lei tornasse nei rifugi… guardi, ce n’è uno là sotto, vicino all’entrata del treno sotterraneo…"

"Grazie, soldato, ma voi cosa fate qui? Io credevo di essere al confine Sud della città…"

"Noi stiamo preparandoci per difendere il ponte, dobbiamo installare una contraerea qui… credo che questo ponte potrebbe essere un obiettivo del prossimo bombardamento… quale confine, Signora? Qui siamo a pochi chilometri dal centro della Città…"

"Ma è impossibile, giovanotto, io sto scendendo verso sud da una settimana… e io abito proprio nel centro della Città… ci deve essere una spiegazione a…"

Il militare estrasse la pistola, e la armò puntandola dritta verso Teuta.

6

Capolinea! Ci svegliammo giusto in tempo per metterci in ordine e prepararci ad uscire dalla metropolitana. Il treno si sarebbe fermato molto tempo nella stazione del capolinea, anche perché dovevano scendere tutti e c’era parecchia gente, che probabilmente andava a lavorare nell’ospedale sotterraneo Nord. La gente era proprio come me l’ero immaginata! Biondastra e decisamente più alta di me. Prima di uscire gettai un’occhiata nello specchio del mio scompartimento, vedendo riflessa un’immagine biondastra ma esattamente alta come me. Come avevo sospettato la maggior parte della gente si diresse verso l’ospedale della zona, e Despina ed io eravamo quasi gli unici ad aspettare l’elevatore per salire in superficie. Con noi c’era una coppia di militari, un uomo e una donna molto alti e dalla pelle verdastra (cosa gli danno da mangiare a questi poveri ragazzi?). Credo che se fossimo stati da soli avremmo anche potuto provare l’ebbrezza di fare l’amore in quel posto, ma non si sentiva rumore di bombe…

Quindi, appena arrivati in superficie, approfittammo di quei momenti di relativa tranquillità per leggere la bussola e incamminarci verso nord. Attraversammo un lungo viale alberato. Non c’erano tracce della rovina della guerra come intorno al "nostro" ospedale. Ma per la strada non c’era nessuno, e anche le case sembravano disabitate.

"Despina, o qui non hanno bombardato, oppure il Presidente ha fatto ricostruire tutto in un baleno! Nanotecnologìa!"

"Ma è deserto, Ermis… tutti vivono di sotto, comunque!"

"Boh?"

Tutto ciò mi rendeva vagamente nervoso, mi sembrava di essere in un ambulatorio perfettamente sterilizzato da tutte le forme di vita, anche umana. Cominciai a giocherellare nervosamente con l’anello di mio padre che ormai ostentavo orgoglioso al mio dito indice.

Despina mi strinse forte la mano, fermando l’agitazione che avevo lasciato si impadronisse delle mie mani.

Alla fine del viale si stendevano dei campi incolti e in lontananza era riconoscibile un ponte. Se la mappa che avevo memorizzato era giusta, quello era il ponte sul fiume che segnava il confine nord della Città. Ci arrivammo che il sole era perpendicolare sulle nostre teste, molto eccitati dall’idea che tra poco ci saremmo lasciati la guerra alle spalle. Molto eccitati.

Vedemmo sul ponte il movimento dei nostri militari che stavano sistemando qualcosa. Io dovevo avere Despina ancora una volta nella città. Ma ero ancora un po’ inibito per farlo all’aperto, che dite? All’inizio del ponte che separava la Città da territori più pacifici, notai una casamatta, apparentemente sguarnita, a dimostrare che quel confine non era particolarmente "caldo".

Abbracciai Despina, la baciai e le sussurrai:

"Andiamo là dentro, Despi."

Non mi rispose neanche, ma la luce nei suoi occhi era inequivocabile. Occhi in fiamme, direi.

Silenziosamente ci avvicinammo alla casamatta… assolutamente non volevo che i militari si accorgessero di noi. Stavo per entrare quando mi parve di sentire delle voci all’interno…

"Noi stiamo preparandoci per difendere il ponte, dobbiamo installare una contraerea qui… credo che questo ponte potrebbe essere un obiettivo del prossimo bombardamento… quale confine, Signora? Qui siamo a pochi chilometri dal centro della Città…"

"Ma è impossibile, giovanotto, io sto scendendo verso sud da una settimana… e io abito proprio nel centro della Città… ci deve essere una spiegazione a…"

Riuscii a sbirciare all’interno e vidi una vecchia signora paralizzata dal terrore. Di fronte a lei un giovane soldato con una pistola spianata stava per esplodere un colpo. Senza stare troppo a riflettere balzai nel locale e aggredii il soldato alle spalle. Mio padre me lo ripeteva sempre: "Di solito ha ragione il più debole…"

La pistola volò via dalle mani del soldato senza sparare, e lui, colpito dai miei pugni uniti sulla nuca, cadde sulle ginocchia. Sanguinava anche, il mio anello doveva averlo tagliato dietro le orecchie. Forse mi ero tagliato anch’io, perché un bruciore intenso mi si impadronì delle mie dita. Non urlò, il soldato, lo sentii solo biascicare qualcosa di indistinto, dal tono molto basso, come il borbottio di una pentola che bolle. Era ancora in ginocchio quando estrasse dalla fondina la baionetta, continuando a biascicare cose incomprensibili… lo disarmai con un calcio ben assestato, e la lama cadde proprio ai miei piedi. Sia benedetto il mio istruttore di karate! Il militare cercò allora di alzarsi, ma lo rimisi al suo posto con un altro Mae Geri in pieno volto.

Poi raccolsi la baionetta. Il soldato approfittò di quell’attimo di distrazione per alzarsi e recuperare la pistola. Era carponi ad un metro da me, e entro breve sarebbe stato armato (che fosse incazzato lo immaginavo già). Gli piantai la lama in gola prima che potesse afferrare la pistola, e un fiotto di liquido vischioso andò ad imbrattare il muro.

7

Stranamente tutto si era svolto relativamente in silenzio, e i militari sul ponte non sembravano avere avvertito nulla. Io mi preoccupai di vedere cosa stavano facendo, sbirciando da una fessura della casamatta, prima ancora di chiedere spiegazioni alla vecchia donna. Stavano continuando a mettere insieme quella che credetti fosse una contraerea. Poi il marchingegno che stavano installando svelò la sua funzione: era una sorta di obice gigantesco, puntato in direzione della Città. Quindi i militari azionarono una sirena. Era quella la sirena che avvertiva la popolazione di un imminente attacco aereo. Poi l’obice cominciò a sparare in direzione della Città.

Non ci capivo nulla!

Avevo immaginato che quei soldati fossero mercenari con le uniformi della nostra milizia, ma allora perché avvertire la popolazione con la sirena, prima del bombardamento? Però cominciai a spiegarmi come mai non si vedessero mai carcasse di aerei nemici, o anche solo aerei nemici in cielo… non c’erano aerei, si bombardava da terra! Non possedevamo la contraerea più imbelle della storia, che non riusciva mai ad abbattere uno straccio di bombardiere, anzi, stava solo diabolicamente facendo le veci di quei bombardieri, che evidentemente non esistevano!

Comunque adesso dovevamo pensare a salvare la pelle, eravamo a due passi dal confine, accidenti!

Anche le installazione di frontiera come quella casamatta dovevano avere accesso ai rifugi, o quanto meno un posto dove ripararsi. C’era la porta di una botola, che sollevai, aiutato da Despina. C’era un vasto locale, effettivamente, là sotto.

Ci sistemammo. Eravamo in quattro, quindi, due donne, un cadavere, ed io.

La vecchia che stava per essere uccisa dal soldato, riuscì a balbettare un "grazie" solo allora.

"Signora, spero che voglia spiegarci perché…"

"Ma non lo so, vi giuro che non lo so… questo giovanotto era stato così gentile… si preoccupava che venissi uccisa dai bombardamenti… diceva che il ponte era un obiettivo del nemico… poi quando gli ho detto che venivo da nord per fuggire dalla guerra e andare in un altro Paese…"

"Da nord? Ma a nord, oltre il ponte non c’è il Paese confinante con la Città?"

"No, Signore, a nord c’è tutta la Città… il centro, dove abitavo io…"

"Ma se noi stiamo scappando a nord! E il centro è a sud, dove abitavamo noi! Vero Despi?"

Despina intanto stava piangendo affranta, povera gioia. E tra i singhiozzi disse:

"Ma non hai capito Ermis? Non c’è un Paese confinante, né a nord e né a sud, ah, c’è solo la Città…."

Devo ammettere che continuavo ad essere vagamente confuso, cazzo!

La voce mi uscì stridula dalla gola:

"Despina, c’è solo la Città e siamo anche senza un vero nemico, a quanto pare, visto che ci bombardiamo da soli…credo proprio che questi soldati siano dei nostri, sapete…perché stiano bombardando la Città, avvertendo la gente in anticipo con le sirene, non me lo spiego. Potrei uscire a chiederglielo, che dite?" Inutile sottolineare che nessuna delle due donne rise.

Anzi, la vecchia stava indicando tremante il corpo del soldato ucciso.

"Signore, Signore! Guardi il morto!"

Dalla ferita mortale nella sua gola stava uscendo un filo di fumo. Mi avvicinai per guardare meglio: oh, sono stato infermiere per un sacco di tempo, ne ho viste di ferite eh? Ma così mai, giuro! E neanche i tessuti intorno mi parevano tanto normali. E mi era sembrato un po’ troppo vischioso, quello spruzzo di sangue!

"Ma che cos’è, Ermis?" Despina mi scivolò alle spalle, mettendo il mio corpo fra se e il cadavere. Anche in una situazione così drammatica provai un brivido piacevolissimo nel sentire i suoi seni sfiorarmi la schiena.

Giocai a fare l’eroe, come quando da piccolo impressionavo le mie compagne di scuola prendendo le lucertole in mano:

"Credo che dovremmo fare un’autopsia, tesoro, se vogliamo capirci qualcosa. Va bene, dai, ci penso io. Passami la baionetta."

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Non so se un medico avrebbe approvato, ma cominciai proprio ad aprire il cadavere dalla ferita fumante. Mi aspettavo naturalmente di trovare un po’ di vene, un po’ di arterie, magari le corde vocali, chissà… e invece trovai un bruciore intenso ad aspettare le mie mani dentro quella ferita! Cazzo! Non era sangue il liquido che impregnava la piaga, ma qualcosa di molto irritante, un acido forse, che bruciava il tessuto epiteliale del cadavere, da cui il fumo! Riuscii a ritrarre le mani senza danni eccessivi, a parte il dolore, e, più cautamente, cominciai ad ispezionare il resto del corpo senza vita. Senza abiti il cadavere aveva un aspetto assolutamente comune, se evitiamo di pensare che fra le gambe non aveva nulla! Oh, niente! Né cazzo, né palle… niente! Che uomo sfortunato! Ma, tralasciando le considerazioni di questo carattere, dovevo andare un po’ più a fondo alla faccenda, no? Così, facendo sempre molta attenzione a non ustionarmi con quella specie di sangue, cominciai ad aprire la scatola cranica dell’ex-soldato. Meglio tardi che mai, vero? Là dentro trovai quello che supponevo essere il cervello, solo che emisfero destro e emisfero sinistro erano completamente differenti. Il destro, lucido e gonfio, conteneva un bel numero di minuscole perline trasparenti, mentre il sinistro, di forma allungata, era tutto cosparso di una polvere giallastra, che mi ricordava vagamente il polline. Stavo riflettendo su quanto i miei occhi, indecisi tra credulità e scetticismo, stavano osservando, quando un tonfo sordo e il grido di Despina mi riportarono a terra. Le avevo dato da tenere la parte superiore del cranio che stavo aprendo e lei lo stava stringendo per la capigliatura. Ora però la calotta era caduta per terra, e Despina aveva in mano solo i capelli, sfilati dal cranio. Mollai tutto e raggiunsi Despi, che intanto guardava attonita il ciuffo di peli che le era restato tra le mani:

"Guarda, Ermis, hai mai visto niente di simile?"

Ogni capello terminava con un bulbo, il bulbo che si era sfilato dal cranio, esattamente uguale a quelle perline che avevo trovato nella parte destra del presunto cervello, solo che non era trasparente, ma opaco e di un colore ocra molto chiaro.

 

9

Non c’era certo bisogno di essere un biologo per capire che quel coso non era umano. Forse sarebbe stato più utile un botanico, capito? Sempre verdastri, i soldatini, perché non ci ha mai pensato nessuno? E quello era un esemplare dei nostri militari, di quelli che, bene o male, garantivano al Presidente il controllo della Città. In che brodo ci stavano cucinando? Se una specie, aliena o chissà cosa, aveva preso il controllo della Città (la Terra?) e da tanti anni inscenava una presunta guerra per chissà quali motivi, a che scopo tenere in vita praticamente tutta la popolazione, avvisando in anticipo dei bombardamenti e costruendole rifugi in grado di resistere a tutto? Allora: avevamo i nostri soldati, che non sono esseri umani ma una strana specie vegetale eterogama, impegnati a bombardare la Città, cercando però di non fare vittime!

Mi feci riprendere dal nervosismo, e ricominciai a torturarmi il dito cinto dall’anello. Improvvisamente una delle pietre incastonate in quell’anello mi restò in mano. Avrei dovuto incollarla di nuovo, non potevo lasciare così l’unica cosa che mi restava di papà… ma… non era proprio una pietra...

10

Avevo già visto micro-strutture come quella. Era un documento visivo-sonoro che non aveva bisogno di interfaccia per essere letto, bastava esclamare a voce alta e chiara una pass-word e sarebbe stato possibile aprire il documento. Avvicinai la pietra alla bocca e scandii "Athos"… che era il nome di mio padre… banale come pass-word ma dovevo iniziare da qualche parte… naturalmente non funzionò, così rinunciando ai nomi propri mi diedi da fare con date di nascita e mi sforzai di pensare una parola che mio padre poteva amare al punto di sceglierla come parola d’ordine per un compito così importante: va bene, avete capito tutti, comunque io non ci arrivai, sapete? Il merito fu tutto di Despina, che a un certo punto, forse un po’ annoiata, chiamò forte per attirare la mia attenzione:

"Ermis!"

Era facile, vero? Dalla pietra uscì un raggio di luce, e l’ologramma tridimensionale un po’ tremante di mio padre prese posto tra noi. Poi cominciò a parlare, e spiegò quello che in parte avevamo intuito… nessuna guerra… nessun posto dove vivere in pace… la certezza che una specie vegetale stava soppiantando i mammiferi nel dominio del pianeta… e noi che servivamo a far da tramite alla riproduzione di questa razza, che senza l’adrenalina che stavamo producendo in abbondanza (in quelle condizioni di eterno terrore!), non avrebbe avuto modo di fecondarsi. Cosa potevamo fare?

Alzai gli occhi per guardare la vecchia: sembrava svuotata, con lo sguardo puntato verso non so cosa salì la scala che portava in superficie, e sparì… di lei non sapemmo più nulla.

Despina non parlava, ma aveva gli occhi persi da qualche parte. La abbracciai. Scoprimmo che scopare fa passare anche lo stupore, oltre che la paura.

 

 

 

 

ALESSANDRO SAMPIETRO, 1999