
|
Questi racconti di Michele Monina, così eccessivi
e imperturbabili, implacabili e evanescenti, sembrano
prefiggersi uno scopo perverso: dimostrarci e convincerci
che esiste per lo scrittore oggi una sola possibilità
di fare narrativa, che sarebbe quella di attingere le sue
vicende e i suoi personaggi dal flusso ininterrotto che si
sprigiona dagli schermi televisivi.
Mondo parallelo, sovramondo, ipermondo, la TV è
arrivata a fagocitare tutte le storie e tutte le immagini,
tutti i volti e tutte le voci. Ha immagazzinato tutto il
nostro passato, inghiotte giorno dopo giorno il nostro
vissuto quotidiano, assimila i nostri desideri e il nostro
futuro. E dopo una sapiente digestione ci restituisce tutto
quanto sotto forma di merce-spettacolo. Ci ripropone
l'universo, la nostra vita e i nostri immaginari in una
totale trasparenza virtuale, che s'impone universalmente e
definitivamente come l'unica autentica realtà
percepibile e conoscibile. (Considerazioni, queste, ormai
talmente scontate e accettate che appare superfluo doverle
dimostrare.)
Ecco dunque il campo d'azione che il narratore si trova
attualmente di fronte, e con cui la sua scrittura deve
necessariamente interagire. Non si tratta però questa
volta di innestare nella letteratura un particolare universo
linguistico, operazione cui da sempre gli scrittori si sono
esercitati, un tempo nei confronti della cultura popolare,
recentemente di quella di massa. La TV non è infatti
una nuova forma di cultura di massa, dotata di un suo
definito codice linguistico, come il cinema e la canzone, il
fumetto o la fantascienza. E' un tubo onnivoro (catodico e
digerente) che incessantemente assorbe, immagazzina e
veicola ogni forma espressiva, e insieme anche la cronaca e
lo sport, la pubblicità, la meteorologia, i talk show
e tutto il resto.
Per fabbricare storie sarà dunque sufficiente
lasciarsi attraversare da questo inesauribile flusso e,
poiché tutti i programmi contengono inevitabilmente
elementi narrativi, sezionarne brandelli e poi ricomporli in
semplici sequenze dotate di uno svolgimento temporale
accettabile.
Ma non basta, occorre anche che le storie siano vissute
in prima persona dal lettore. In Neuromancer di Gibson
un'apparecchiatura futuribile offre la possibilità di
vivere i film preferiti incarnandosi in un personaggio,
assumendo il suo aspetto, compiendo le sue azioni,
sperimentando le sue sensazioni. Non si tratta, in fondo,
che di un perfezionamento tecnologico rispetto al normale
atteggiamento del telespettatore, di una metafora
estrema.
Allo stesso modo i racconti di Monina identificano il
lettore nei protagonisti di film o di fatti di cronaca, in
presentatori o personaggi di trasmissioni televisive e lo
immergono in una serie di situazioni tutte mutuate dalla
realtà virtuale del piccolo schermo, la matrice
universale di ogni possibile narrazione. In questo mondo
immateriale lo zapping che ritma l'esistenza del
lettore-personaggio sembra non avere mai fine, a meno che
non intervenga una casuale interruzione violenta, da cui
sarà sempre possibile risorgere in una successiva
puntata. Violenza e crudeltà sono comunque sempre
prive di ogni connotazione tragica, riassorbite nel monotono
rituale dello spettacolo.
Dopo aver seguito Monina per tutte le tappe della sua
inesorabile dimostrazione, si è però colti dal
dubbio che i suoi propositi non si arrestino qui. Questa
overdose di materiale televisivo, triturato, ridotto a
magma, viscida poltiglia, vomito lutulento, non porta in
sé piuttosto il suo annullamento? Forse i racconti di
Monina hanno il valore di un'esperienza limite che, invece
di dimostrare la necessità, sancisce
l'impossibilità e l'inutilità di ogni
ulteriore uso letterario di questo materiale, svuotato di
ogni risonanza, bloccato nella sua ebete
ripetitività.
Improvvisamente stacchiamo gli occhi dalle figure della
pagina/schermo e abbiamo la sensazione della sua assoluta
non necessità. L'assioma "la TV è la
realtà" appare totalmente insensato e fasullo,
l'esaltata celebrazione per le subculture che ne scaturiva
si rivela un ennesimo populismo patetico e provinciale.
Mentre l'immaginario tardo-occidentale migra verso il
nuovo mito virtuale della Rete, che si offre di appagare
oltre alla sua sete di onniveggenza anche quella di
onnipresenza, possiamo gettare un ultimo sguardo di simpatia
per il vecchio elettrodomestico audiovisivo, la goffa
scatola ormai vuota che ha nutrito l'effimero tempo libero
di qualche generazione. Ma forse, tutto sommato, "un posto
meno spaventoso" (citando Monina) di quelli che attendono al
varco le generazioni future.
|