MARIO SIRONI

- Genio Compositore -

VOL. IV





LO STILE

 

 

 

Sironi procede per tentativi prima di pervenire ad un suo stile pittorico. Egli è un ricercatore inesausto, sempre insoddisfatto dei risultati ottenuti. Un’opera esemplare di questo suo modo sperimentale è rappresentata da “Tre vaporiere” (A.1911), che, fra l’altro, è un’importante documento storico, essendo questi, molto probabilmente, gli ultimi “vapori” in navigazione nel Mediterraneo. Queste imbarcazioni sono infatti a propulsione meccanica (in sostituzione della vela) ed hanno ancora due grandi ruote laterali ed un’elica poppiera. Probabilmente costruite alla fine dell’Ottocento, esse sono modellate sull’esempio dei clippers (“tagliatori”), ossia navi snelle e veloci - non di grande stazza proprio per aumentarne velocità e manovrabilità.

 

Tre vaporiere

"Tre vaporiere"
smalti su tre formelle di maiolica unite insieme, ciascuna firmata in basso a destra "SIR",
cm.5x10 cad., A.1911
Coll. privata, Roma

 

La prima nave - a partire da sinistra - ha infatti la forma del veliero; è lunga, affusolata, ha due pennoni con bandierine rosse, due alte ciminiere nere, che vomitano fumo nero. In mezzo ad esse la grande ruota rivestita di bianco metallo. A poppa una bandiera con un angolo quadrato blu ed il resto rosso (americana?). Ai lati dei due fumaioli due piccolissime figure scure di marinai - sul ponte sono anche visibili due scialuppe bianche. L’agile vapore fende benissimo le placide acque del mare sollevando con la chiglia una lunga scia di spuma bianca. Sulla fiancata sono visibili almeno cinque oblò. Si tratta forse di una nave da trasporto (merci leggere) e da crociera passeggeri.

Nella maiolica dipinta, accanto alla prima, possiamo osservare una seconda vaporiera quasi identica alla precedente, solo che qui gli alberi non sono “ornamentali”, ma dei veri pennoni, v’è inoltre una sola scialuppa, e vi sono sei oblò sulla fiancata, tre a prua e tre a poppa. La bandiera ha gli stessi colori della prima.

Le due prime vaporiere sono dirette verso ovest, mentre l’ultima (la terza), senz’altro la più bella, è diretta ad est, ossia volge la prua in senso inverso. Essa è la più lunga, ha quattro alti fumaioli neri che emettono volute dense di fumo nero più in alto e altrettante volute di fumo bianco (vapore) immediatamente al di sotto del fumo nero. Ha tre scialuppe di salvataggio nere a poppa e, sempre a poppa, la stessa bandiera bicolore blu e rossa. Ha due alberi, uno a poppa ed uno a prua, e su quest’ultimo sventola una bandiera color rosso. Sulla fiancata nera sono ben visibili dieci oblò, altrettanti circoletti bianchi. Essa è lunga, slanciata, aggressiva, fende le acque con straordinaria naturalezza ed eleganza. Scivola via veloce e sicura, superbo esempio di scafo marino celere, confortevole e funzionale. È l’ultimo modello di nave prima dei moderni, mastodontici transatlantici, vere e proprie città galleggianti, con tre o quattro ponti, piscine, saloni, sale giochi, sale da pranzo, bar, ecc. Navi immense, tozze, prive di linea.

Queste tre vaporiere (dipinte stupendamente con la lente, sin nei minimi particolari da un grande Maestro) sono le ultime della loro classe;, ma che classe! Le tre piccole formelle di maiolica, dipinte con smalti, sono tutte firmate in basso a destra “SIR” (che sta per Sironi) con il colore bianco. Le tre antiche “Sirene” - che, nel 1911, stavano per entrare in cantiere per essere demolite - hanno particolarmente colpito la fantasia del giovane Sironi, che dalla loro contemplazione ha fatto scaturire una figurazione mitica, metafora pittorica d’un’antica civiltà marinara andata perduta per sempre.

Una menzione particolare meritano i “bianchi” di Sironi. Autentici squarci di materia, che egli studia a lungo sugli antichi modelli toscani ed anche tedeschi (si pensi alla pittura di Dürer e degli espressionisti). E finalmente dopo molti tentativi, egli perviene a soluzioni compositive ricercate, complesse, anche sofferte, ma del tutto originali, sino a giungere ai suoi bianchi, gli inimitabili bianchi di Sironi. Si dice che nei suoi soggiorni cortinesi, andando a dipingere in montagna, di sovente egli fosse “spiato” da Massimo Campigli, il quale cercava in tutti i modi di carpirgli il segreto di quei bianchi.

Questo aneddoto sta a dimostrare se non altro quanta importanza Sironi annettesse ai materiali pittorici ed al pigmento che doveva formarli. Quindi solidità della pittura, sua pienezza e presenza, una sorta di ontologia scaturente da un preciso proposito evocativo. Egli, dunque, intende l’arte come conoscenza e l’intuizione come un cogliere il profondo, ponendo, tuttavia, quale cardine in questo processo, l’idea. L’idea è la luce originale, geniale, l’anima che fa vivere tutte le immagini.

Non per nulla Freud individua nell’Es di ogni uomo una forza originaria (che varia d’intensità da individuo ad individuo), che egli chiama libido. Questa forza dovrebbe essere la molla, lo stimolo per ogni azione. Ammettendone l’esistenza, è anche logico sceverarne, per quanto possibile, i contenuti. Essi saranno diversi per ciascun uomo e quindi anche per ogni artista. Esemplificando: Picasso è mosso per tutta la sua avventura artistica rivoluzionaria, da una grande forza erotico-drammatica, che, in certi momenti (come nelle “Démoiselles d’Avignon”), raggiunge il diapason dell’Epos puro, nella perfetta fusione di tutti i suoi elementi costitutivi. Ebbene, il discorso per Sironi presenta notevoli differenze: la sua libido si compone, infatti, di due forze strettamente congiunte: Eros-Thanatos. Ma senza soluzione di continuità: nell’amore, nella bellezza muliebre di ogni suo nudo è contenuta la morte. La morte fa parte integrante della vita e non è distinguibile da essa. E soltanto col prevalere del bello nell’arte, il Thanatos sarà ridotto ad una semplice presenza naturale, non prevalente, né incombente sullo spirito, che, di continuo, si proporrà nella sua eterna veste emblematica.

La razionalità è un freno per la libido?

È una domanda, credo, che attende ancora risposta.

Il Sironi delle prime “Periferie urbane” (1918-’20) partecipava delle condizioni di allucinata alienazione dell’uomo, inserendo accanto alle fabbriche, alle ciminiere, ai blocchi uniformi di palazzi, operai in bicicletta. Minuti, sparuti, quasi formiche schiacciate dal ritmo impetuoso della rivoluzione industriale.

Ma quasi subito egli capì che l’osservatore doveva pur entrare in questo grande scenario teatrale della nuova civiltà delle macchine perché quella era (ed è) la realtà di ogni uomo d’oggi e non soltanto dell’operaio. Eliminò, dunque, la figura umana e inserì al suo posto i tram ed i camion, in uno sforzo supremo di razionalizzazione dell’impianto pittorico. Non per questo, tuttavia, si può parlare di scadimento della rappresentazione, o di una sua minore partecipazione all’evento pittorico evocato. Anzi, al contrario, egli si pone e pone tutti noi, al centro del teatro come autentici protagonisti dello spettacolo, e non più come semplici spettatori.

Qui, in fondo, sta tutta la sua umanità, il suo coinvolgimento totale nella rappresentazione proposta, e qui, dunque, anche tutta la sua grandezza.


Sironi nel suo studio di Milano



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