Parsons: torneranno i tempi di Mozart
Rieccolo in pista Alan
Parsons con la sua musica visonaria,
pretenziosa, elettronica e retorica che mescola nostalgia e spirito
avventuroso, classicismo e progressive. «Torno con una bella
scorta
delle mie cose più conosciute» promette il musicista
inglese, ex fonico
della celebre sessione di The dark side of the moon dei Pink Floyd, ma anche delle
session dei Beatles di Let it be e Abbey road. E lo
farà con uno show che prende spunto dall’ultimo
lavoro, A Valid Path , ma che riproporrà anche
reperti storici come Time, Eye in the sky e Psychobabblee [sic].
Con lui un gruppo di
musicisti che lo accompagna da qualche anno come
il vocalist Pj Olsson alla voce, Godfrey Townsend alla chitarra, Steve
Murphy alla batteria, John Montagna al basso e Manny Focarazzo alle
tastiere: sono l’ultima edizione dell’Alan Parsons project a 31 anni
[sic] dalla sua prima
esibizione. Debutto ieri sera a Napoli, seconda tappa
stasera al Gran Teatro di Tor di Quinto. «I miei pezzi sono senza
tempo, non temono l’usura, per questo li ripropongo con arrangiamenti
che sono molto vicini all’originale» assicura ancora il
cinquantacinquenne Parsons. Uno sperimentatore che ha smesso di
sperimentare, che non ascolta più neppure la musica che si fa
oggi:
«Non perdo tempo a sentire le cose di oggi. Forse c’è
anche musica
buona in giro, tipo i Maroon 5, ma ho fatto il pieno quando ero un teen
ager». Forse, proprio per questo, Parsons in realtà ha lo
sguardo
rivolto al passato. Anche nel suo ultimo disco ha, fra i collaboratori,
David Gilmour, il grande chitarrista che lo riporta ai tempi della
giovinezza, ai Pink Floyd. «Siamo sempre rimasti in contatto -
racconta
-. È semplicemente capitato che glli ho chiesto di suonare nel
mio disco
e lui ha detto di sì. Tutto qua».
Fare dischi, per Parsons,
però
è un’esperienza destinata a rapida fine. «Siamo molto
vicini alla fine
del disco. La musica ormai va su Internet e diventa immediatamente di
pubblico dominio. Non ha più senso investire soldi, visto che
non c’è
ritorno. Io credo al formidabile principio che si lavora per essere
pagati». La visione è assai più che pessimistica:
«Torneremo ai tempi
di Mozart e di Beethoven: si andrà ai concerti e basta. Non
posso
pensare che si possa continuare a fare dischi senza pagare i musicisti.
Siamo in un periodo decisamente terribile. Io stesso vedo le mie
vendite calare ogni anno. Quanto al mio catalogo, lo si trova gratis
dovunque». E, comunque, il musicista inglese si considera un uomo
fortunato: «Ho avuto la possibilità di lavorare in un
periodo forte per
l’industria discografica e per la creatività. Ho conosciuto
gente
formidabile, ma tutto ciò appartiene ormai al passato».
Marco Molendini
Il Messaggero, 12
aprile 2005
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