Famoso per aver collaborato al
mitico "The dark side of the moon" dei Pink Floyd, all'Alcatraz ora si
presenta con un album vecchio stile
Alan Parsons
Ritorno agli anni '80 con il
celebre Project
Ritornano in grande stile gli anni
Ottanta e la loro colonna sonora, gonfia di enfasi e di edonismo.
Così, dopo la rentrée dei Duran Duran che attendiamo
'live' prima dell'estate, e pronti a salutare altri paladini di quella
stagione fatua, gli Europe, previsti il 4 novembre all'Alcatraz, ecco
un altro campione delle classifiche e della filosofia musicale
dell'epoca, Alan Parsons Project, una sigla che non ammette confusioni.
Londinese, cinquantacinque anni, tastierista, autore, arrangiatore,
produttore, Parsons ha vissuto un periodo di lustro fino alle
metà [sic] degli anni
Ottanta, con una carriera in primissima linea, iniziata in giovane
età. Il lancio professionale giunge quando Alan, poco più
che ventenne, fonico negli studi Abbey Road, collabora come ingegnere
del suono a The dark side of the moon
(1973), capolavoro dei Pink Floyd, uno dei titoli più venduti
della storia del rock.
La tessitura, le miscele sonore, l'abilità nel plasmare e
alimentare le visioni di Roger Waters e compagni, guadagnano a Parsons
una giustificata notorietà e la fama di straordinario alchimista
dello studio di registrazione. Il primo passo come solista è del
1976, Tales of mystery and
imagination, ispirato a Edgar Allan Poe, e grande successo
ottengono in seguito I robot,
Pyramid, Eve, The turn of a friendly card, fino
all'expoit [sic] di Eye of the sky [sic], che impone nel 1982 Alan
Parsons Project a livello internazionale. La formula è felice e
ben studiata: una musicalità di facile comprensione, che poggia
sull'elettronica, su temi di grande respiro, un mix epico, ma attento
alle modernità tecnologiche, al gusto corrente e popolare. E gli
esiti sono superiori a ogni aspettativa. Senza un solido progetto
artistico, ma fortunato nelle scelte del format musicale, Alan
sarà attento a fiutare le tendenze e a cogliere le suggestioni
più varie, sfornando dischi come Gaudì e Freudiana, anticamera del declino.
Negli anni Novanta quel concetto di intrattenimento vaporoso ed
estetizzante perde terreno, l'ispirazione e l'intuito sembrano svanire
e, a parte qualche antologia e compilation, di Alan Parsons si
parlerà ben poco. Oggi, in tempi di revival, quando un pizzico
di nostalgia non si nega a nessuno, riemerge il marchio glorioso e con
esso un album fresco di stampa, A
valid path, ma antico e dunque rassicurante nell'impostazione:
giusto attendersi uno show fastoso e maestoso, che Alan cucinerà
assistito da un quintetto con cui rivivere le pulsioni e le emozioni
degli anni d'oro.
Enzo Gentile
la Repubblica, 21 ottobre 2004