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Joseph Murage con una delle sue opere e con me a Four Trees (la prossima volta faccio fare una foto in favore di luce...) |
La strada me la ricordo a stento ma il nome della zona di Mombasa in cui vive e lavora Joseph Murage non me lo ricordo proprio. Ci sono stato l’anno scorso in bus, l’unica cosa di cui sono sicuro è che sulla strada che conduce dal centro di Mombasa verso l’aeroporto ad un certo punto bisogna girare a sinistra e la strada diventa sterrata. C’è un chiosco e subito dopo la casa di Joseph. Ma qui strade sterrate che girano a sinistra e case come la sua ce ne sono a migliaia.
Dopo aver girato per quasi due ore con 37 gradi, sta per giungere mezzogiorno e il mio conducente accosta e si ferma per farmi ripetere per l’ennesima volta tutti i dettagli che mi ricordo per tentare di identificare il luogo: allora, c’era un deposito di containers con un muro irto di vetri, poi una serie di baracche sul lato destro adibite a mercatino, quindi sempre sulla destra uno che ripara biciclette poi un chiosco e un pò rientrata la casa di Joseph.
Mentre parlo e gesticolo noto un chiosco sulla sinistra e inizio a sospettare che forse stavamo percorrendo la strada nella direzione opposta rispetto a quella che mi aspettavo. Guardo meglio e… incredibile! Ci siamo fermati proprio davanti a casa sua senza saperlo! Beh, in fondo oggi è Natale, forse doveva proprio capitare che ci trovassimo oggi!
Sulla porta una donna sta seduta all’ombra tenendo in braccio un bambino, scendo dall’auto e mi dirigo verso di lei. E’ molto improbabile trovare un bianco da queste parti, anzi, sono almeno dieci km. che non ne vedo più uno ed anche la donna è un po’ sorpresa. Saluto in swahili e chiedo se questa è la casa di Joseph, per tutta risposta mi risponde karibu (benvenuto) e mi fa cenno di entrare. L’interno della casa lo conosco già ma rivedendolo mi si stringe nuovamente il cuore. Varcata la soglia entro in un minuscolo cortile a cielo aperto largo tre metri e lungo non più di cinque. Sul lato sinistro corrono tre fili per stendere i panni lavati e noto che sono tutti macchiati e strappati qua e là. Mi domando dove vanno a lavarli che qui non c’è acqua corrente, probabilmente raccolgono quella piovana e la usano ripetutamente per lavare.
Sul lato destro ci sono i servizi igienici che di igienico non hanno proprio nulla: si tratta di un buco nel pavimento da quale esce un canaletto che attraversa il cortile ed esce all’esterno attraverso un buco nel muro. Quando uno utilizza questo servizio versa un secchio d’acqua non più utilizzabile altrimenti e il tutto se ne va attraverso il canaletto verso il retro della casa. L’unica cosa che rimane è un odore tremendo e un nugolo di mosche.
Vedo Joseph che si affaccia dal suo buio laboratorio in fondo al cortile, fa fatica a riconoscermi per via del sole, si fa schermo con il dorso della mano e poi mi sorride. Gli sorrido anche io ma poi il mio sorriso svanisce constatando le sue condizioni fisiche. E’ messo proprio male, probabilmente mangia una volta al giorno, ha le mani e gli avambracci tutti sporchi di colore e dalla camicia aperta vedo sul suo petto i morsi delle pulci e delle zanzare. Solo gli occhi mantengono lo sguardo fiero dei kikuyu, una delle tante tribù del Kenya, che spiccano luccicanti sul suo viso nero come cioccolato fondente.
Mi saluta e mi porge il pugno chiuso, mi ricordo l’usanza e a mia volta chiudo il mio facendolo scontrare due volte sopra e sotto al suo poi ci salutiamo all’europea, mi stringe la mano lasciandomi tutte le impronte del colore. Sulla porta del suo laboratorio noto una scritta "may God bless the work of my hands". E probabilmente Dio benedice il lavoro delle sue mani perché gli ha donato un’abilità nel disegno che fa di lui un anonimo e sfortunato artista. Joseph crea i batik che gli europei acquistano al mercatino di Malindi trattando vergognosamente il prezzo e poi li appendono sulla parete del salotto senza sapere nulla delle mani che li hanno creati. Uno di questi ignoti artisti è lui, Joseph Murage che ho conosciuto per caso sulla spiaggia a nord di Mombasa e mi invitò a casa sua per farmi vedere come nascono i suoi batik.
E rieccomi dopo un anno ancora da lui. Mi dice che mi trova un po’ ingrassato, ed io che gli rispondo? Che lo trovo dimagrito e malmesso? Gli chiedo invece come va il suo lavoro mentre entro nel suo sgabuzzino-laboratorio di due metri per tre con l’unico privilegio di avere due finestrini da cui filtra una piacevole aria fresca. Mentre mi risponde noto che di pronto c’è poco, i barattoli dei colori sono semivuoti e il ragazzo che lo aiutava non c’è più. La conferma me la da lui stesso, mi dice che non è un periodo propizio, i turisti preferiscono comperare le statuette di animali sulla spiaggia credendo che si tratti di ebano invece non sanno che è legno affumicato e annerito, le fanno a Nairobi e hanno costi talmente ridicoli che non gli lasciano tante possibilità di concorrenza. E’ sempre così, quando il turista è a casa propria seduto sul divano e guarda alla televisione il servizio sulla guerra in Rwanda oppure l’inondazione in Mozambico o la siccità in Sudan dice "povera gente!" poi quando si tratta di comperare qualche cosa che costa 500 scellini (15.000 lire) cerca di tirare il prezzo fino a 200 (6.000 lire). Non dico che non si debba trattare, certamente il prezzo iniziale è maggiore di quello reale, ma non dimentichiamoci che sono cifre che per noi sono ridicole mentre per loro sono giorni in più di sopravvivenza. Un esempio? Il salario di un impiegato mi pare che si aggiri sulle 150.000 lire mensili (5.000 scellini) il che vuol dire che con 165 scellini al giorno uno è in grado di mantenersi magari con moglie a carico. Quelli che vendono i prodotti artigianali non hanno uno stipendio fisso quindi 100 scellini (3.000 lire) rappresentano un giorno di sicurezza mentre per noi rappresentano meno di un pacchetto di sigarette!
Chiedo a Joseph se può prepararmi qualche batik da riportare in Italia e mi da appuntamento dopo qualche giorno per la consegna. Gli lascio alcuni regali che ho portato per lui quindi ci salutiamo. Il giorno stabilito chiamo lo stesso taxista che ormai conosce la strada. Nel frattempo ho parlato di Joseph e delle sue opere ad alcune persone che vengono volentieri con me per conoscerlo e comperare qualche cosa. Nel giro di tre giorni Joseph ha compiuto un ottimo lavoro, il suo laboratorio è pieno di batik colorati che rallegrano l’ambiente. Le persone che ho portato con me sono entusiaste anche se al momento di entrare a casa sua sono state un po’ schizzinose. Ma è meglio, devono vedere come si vive qui, fin che se ne stanno ai bordi della piscina e vedono la realtà solo attraverso i finestrini del taxi non possono dire di essere stati in Africa. Bisogna scendere e andare a piedi, toccare i muri delle case, stringere la mano alla gente, sedersi su un muretto e osservare quello che succede. Molti mi chiedono se sono matto a mangiare in una trattoria africana, hanno schifo e paura delle malattie o di essere rapinati. Joseph, dopo la trattativa, propone da bere e noto gli sguardi imbarazzati degli altri. Io accetto e andiamo tutti al chiosco vicino. Prendiamo coca cola controllando che sia ben tappata. Va bene fidarsi, ma le regole elementari per evitare brutte sorprese bisogna seguirle. Beviamo e ci diamo appuntamento al prossimo anno. Saluto Joseph con un po’ di nostalgia, chissà se lo ritroverò, chissà se Dio continuerà a benedire il lavoro delle sue mani e a dargli un po’ di fortuna, chissà…
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un tratto di strada verso four trees |
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