La porta (30/05/1999)

Faccio il mio racconto con calma, con rassegnazione.
Cerco di essere preciso, di non dimenticare niente.
Mariel ascolta e mi guarda forse un po' ironica, ma attenta.
Il mio sogno, quell'incubo che si ripete quasi senza variazione da cinque notti.

Vedo la porta in basso. Io sono immobile sui gradini della scala.
Vedo il corrimano di legno scuro, vecchio ma lucido e la mia mano stretta – avvinghiata - su di esso.
Sento il cuore che mi batte forte, più per sorpresa che per paura. Qualcosa che sta per accadere…
O qualcosa che accade e che non capisco.
Una scarica elettrica mi attraversa la carne. Il mio corpo non mi risponde.
D’improvviso sono davanti alla porta, sono vicino eppure non posso raggiungerla...
Credo di essere caduto e le mie mani si protendono dolorosamente in avanti...
Devo raggiungere la porta. Devo aprirla!

"E ti svegli!", conclude Mariel, un po’ brusca, e mi strappa dal disagio che mi sta assalendo.
Respiro profondamente: "Cerco di svegliarmi. Lotto a lungo nel doppio tentativo di svegliarmi e di aprire la porta."
"Ma alla fine ti svegli."
Allargo le braccia: "Ovviamente!"
Sento un sapore come di sangue nella mia bocca. L’incubo della porta è ancora davanti a me. L’ho ricreato raccontandolo, con il suo carico d’angoscia.
Mariel annuisce e serra tra i denti bianchissimi anche se un po’ irregolari l’asticciola metallica degli occhiali: "Noti qualche altro particolare, ad esempio qualche oggetto?"
Rifletto un attimo: "No. solo la parete bianca dove si apre la porta."
Riecheggia le mie parole in un sussurro: "Parete bianca…"
Questa volta la donna mi sorprende: ha significato una parete bianca?
"Non c’è molta luce", aggiungo in un tono quasi di scusa.
Annuisce sempre pensierosa: "E la porta? Com'è? Perché non si apre?"
"La porta è incassata nella parete. Non sembra una porta robusta, anzi è piccolina, una porta da appartamento, di quelle tra stanza a stanza. Ma io non riesco ad arrivarci: forse si aprirebbe, se io potessi raggiungerla. Forse, se io bussassi, qualcuno verrebbe ad aprire… "
"Chi?"
"Questo non lo so!"
"Una porta di legno?"
"Di legno. Credo di legno."
La guardo un po' perplesso, cercando di capire che importanza può avere il legno. Probabilmente nessuna, ma Mariel cerca di trovare appigli anche improbabili e di ispirarmi fiducia. Qualche mese fa, parlandomi del metodo che usa, me l’ha persino detto: "È importante far credere al paziente che elementi, che per lui sono insignificanti, permettono a me di capire il suo problema. Fargli capire che io vedo più lontano di lui, che capisco. Che vedo luci dove lui vede solo buio. E devo ragionare diversamente da chi analizzo per non trovarmi nel suo stesso vicolo cieco!"
Ma io ero un amico al quale confidarsi, in quel momento, non un paziente.

"La porta è chiaramente il simbolo di una meta, di un traguardo che vuoi raggiungere e che hai paura di non potere acquisire."
La guardo. Lei guarda me come aspettando un aiuto che non le so dare.
Un traguardo?
Non ho molto da chiedere al mio lavoro in questo momento.
Non ho progetti di modificare la mia attuale vita affettiva. Non sono innamorato e non desidero esserlo. Non voglio un figlio, ma se dovesse arrivare lo accetterei.
Non sto giocando in Borsa. Non cerco di guadagnare più soldi.
Sono un piccolo borghese sazio e prigioniero della sua vita.
Alzo le spalle e Mariel ha uno scatto irritato: "Non collabori!"
"Non so che dirti!", mi difendo arrabbiandomi a mia volta.
Essere amici sembra rendere più difficile parlare per entrambi ed arrivare a concludere qualcosa. Vorrei aiutare Mariel ma, molto di più, vorrei fosse lei ad aiutare me!
La vedo togliersi la fede e provarla su più dita: ho letto che è un’abitudine che indica un desiderio di infedeltà, anche se forse i libri su cui ha studiato Mariel utilizzano un metodo più scientifico, per arrivare alle loro conclusioni.
"Prima della porta, prima della scala, ricordi qualcosa?"
Non c’è un prima nel mio sogno: "Prendo coscienza all’improvviso di dove sono. E tutto è una sequenza come di immagini, fotografie di momenti separati…"
"Sono paure che hai in te, che emergono dal tuo subconscio."
Sento che mi guarda e alzo appena le sopracciglia. Ho paura che le mie reazioni la offendano nuovamente.
Mariel, all’improvviso, mi sorride: "Ma la sogni davvero la tua porta?"
Il sospetto che io la prenda in giro mi irrita ma, dopo un attimo, diverte anche me. Tutti i miei incubi e le mie angosce ridotti ad una scusa per qualche incontro, per parlare di me a Mariel!
Penso alla fede passato di dito in dito…
Sarebbe anche interessante, ma purtroppo sono cinque notti che "la mia porta" mi compare davanti.
Cerco di convincere Mariel, ma senza riuscire a trovare le parole giuste.
Non abbiamo più molto da dirci.
La donna pare avere deciso che davvero i miei incubi sono una scusa per incontrarla. Io alimento, senza volerlo, i suoi sospetti - me ne rendo conto in ritardo - dicendole scherzosamente che era il mio subconscio a mandarmi questi sogni perché voleva darmi un’occasione per incontrarla.
Effettivamente Mariel è una bella bionda dai capelli maschilmente corti, spigliata, intelligente, un bel corpo con le giuste curve ed è una donna che sa a cosa pensano gli uomini quando la guardano e non nasconde che quei pensieri non la offendono. Pensieri che mi concedo anche io, quando la guardo e i miei occhi non cercano solo il suo viso.
Ma i miei incubi?
Mariel lancia in fretta e quasi con rimorso, dopo avermi già salutato, qualche ultimo consiglio: rilassarmi, qualche esercizio fisico, camminare e anche mettermi a dieta.
"Grazie! Così gli incubi me li darà la fame!"
Adesso sono io a sentirmi preso in giro.

Mi accompagna all’ascensore, ma l’ascensore è guasto ed io faccio lo spiritoso: "Comincio gli esercizi fisici subito! Mi tocca scendere a piedi!"
"Ti farà bene! Lo sai quali rischi corri ad essere sovrappeso?"
Non lo voglio sapere: speravo mi curasse le mie angosce, non della mia moderata pancetta con la quale convivo benissimo! Non sono abituato a sentirmi definire sovrappeso e mi fa due volte male che me lo dica Mariel.
Scendo le scale scontento e cercando di riordinare i pensieri.
Non ho fatto progressi: mi chiedo se questa notte rivivrò lo stesso sogno, lo stesso incubo.
Mi tengo stretto al corrimano, cercando di vincere il senso di vertigine che mi sta prendendo.
Mi manca il respiro e mi aggrappo più forte.
Il corrimano è liscio, vecchio, di legno.
Mi fermo. Ed allora crudele e a tradimento, una sfitta al petto mi costringe a piegarmi e contorcermi su me stesso.
Cado.
La caduta è un limbo nel quale il dolore è superato dall’incredulità e dalla sorpresa.
Ma il dolore ritorna alla fine della caduta – assoluto, totale, più forte dell’istinto a respirare.
Riesco distendermi. I miei occhi ritrovano la luce e, nella luce, il mondo ritrova confini e contorni.
Il dolore rende ogni movimento una lotta contro il mio stesso corpo. Una lotta che perdo.
Provo a chiedere aiuto, ma la mia voce è così flebile che neppure io riesco a udirla.
Mi chiedo se sto morendo e, se è così, vorrei finisse tutto in fretta, senza soffrire oltre.
Ma subito la vita ritorna e cerco ancora una fuga o un aiuto.
Scopro, senza sorpresa, nel catino di muri bianchi che mi circonda, una porta chiusa.
La riconosco.
So che è la mia unica speranza di non morire qua è di raggiungerla, di farmi sentire a chi vive oltre quella porta. Raggiungerla…
Rivivendo i miei incubi, vedo la mia mano tendersi tremando in avanti.
Ma la porta è troppo lontana.


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