La spiaggia (02/05/2000)

Ho scritto a lungo questo pomeriggio, dopo avere sonnecchiato quasi un’ora nella digestione del primo pomeriggio.
Scrivevo e le idee arrivavano senza fatica e ordinate mentre le dita correvano sulla tastiera con una velocità che credevo di avere perduta.
Ho terminato tre capitoli e questo mi fa sperare davvero di potere arrivare a consegnare il mio romanzo all’editore a metà settembre, come gli avevo promesso. Ormai ho un centinaio di pagine pronte e, ancora più importante, ho la trama ben chiara dentro la testa: non mi era mai capitato di pianificare un libro con tanta precisione, ma può anche darsi che, a sessantotto anni e dopo cinquanta che faccio questo mestiere, io abbia anche imparato come si scrive un libro!
Avevo avuto paura che il caldo tremendo di questa estate, esplosa troppo presto in un maggio subito secco ed afoso, mi fiaccasse e svuotasse di ogni risorsa, ma ormai il gran caldo è passato con le piogge violente della seconda metà di agosto.
Tre capitoli!
Ho scritto anche dopo cena, un piatto d’insalata e un po’ di frutta, fino a far arrivare le dieci di sera: un altro capitolo che, però, dovrò in parte rivedere. Sono andato a letto senza la mia solita tisana e senza accendere la televisione, convinto che la stanchezza mi avrebbe fatto dormire fino all’alba: invece mi sono svegliato adesso, non sono neanche le tre di notte, e so che non dormirò più.
Mi sono alzato, ho indossato una vestaglia sul pigiama e mi sono portato dietro una coperta: precauzione eccessiva visto che l’aria è ancora calda, ma alla mia età e dopo una vita sedentaria basta un soffio umido di brezza per bloccarmi la schiena. Sono uscito sulla spiaggia.
Sono circa dodici anni che mi sono comprato questa casetta modesta, ma che ha il lusso di un accesso proprio verso al mare: una volta era più isolata, ma adesso sono sorte altre villette e, verso l’interno, hanno aperto un campeggio. Invecchiando sono diventato un po’ più socievole e questa intrusione, che dura solo per il periodo estivo, mi è gradita.
Sapendo che tanto non dormirò, mi adagio su una sdraio e guardo il mare e lo ascolto. Le onde che si infrangono e la risacca ripete il suo monotono andirivieni. Eppure il mare è come la neve: non ci sono due fiocchi di neve uguali e non ci sono due onde uguali. Ogni onda ha un suo suono, una sua energia, un suo modo di infrangersi che la rende unica.
Luci in lontananza che potrebbero essere barche di pescatori.
Non fa freddo e non c’è brezza, così abbandono la coperta sul bracciolo e respiro l’aria espandendo i miei polmoni. Solo dieci giorni fa, questa immobilità dell’aria avrebbe bloccato il respiro.
"L’estate è passata!", mi dico con malinconia.

Alcune voci in lontananza: ragazzi che parlano, una radio a mezzo volume che trasmette musica.
I suoni si deformano nel silenzio e non riesco a capire quante persone sono.
Una risata di ragazza.
Credo per un po’ che siano stranieri – qualche parola che suona francese, poi una voce maschile più forte che mi sembra avere tonalità tedesche. Invece, quando si mettono a cantare, scopro che sono italiani come me.
In questa notte un po’ di compagnia mi fa piacere, soprattutto se distante e giovane.
Provo a riconoscere le voci: gli anni mi hanno appannato gli occhi, ma lasciato un orecchio limpido e sensibilissimo: credo che siano in sei, tre maschi e tre femmine.
Un po’ di silenzio e un vociare più basso, finché qualche grido e qualche strillo mi informano che si tuffano in acqua e ne sono sorpreso: la sera è calda ma, ripeto, non è più piena estate e l’acqua deve essere fredda. Fossero tedeschi e nordici, ma noi del sud Europa siamo più delicati!
Però sono giovani.
"Se la caveranno con un po’ di torcicollo e mal di gola!", filosofeggio sarcastico. Ma sono invidioso: mai fatto il bagno di notte e, soprattutto, mai stato in spiaggia di notte con delle ragazze! I miei tempi erano diversi ed io il mare l’ho visto per la prima volta a trent’anni: ma sono stati belli anche vissuti come li ho vissuti io, con i miei genitori che avevano negli occhi le tribolazioni di due guerre mondiali vissute e tenevano sempre, in cantina, una damigiana d’olio per averlo da parte come risorsa per quando fosse scoppiata la terza.
Io la guerra non la ricordo, ma ricordo che si era poveri e tutto era distrutto e da ricostruire. I miei soldatini erano pezzi di legno che mio padre intagliava e io coloravo.

Stanno litigando. Non capisco per quale motivo, ma adesso c’è rabbia e irritazione nei toni.
Una delle ragazze che grida, poi di nuovo la voce forte di quello che avevo preso per un tedesco che cerca evidentemente di mettere pace.
Dopo il bagno e mentre litigano credo che si siano avvicinati un po’, anche se non li vedo e non riesco a capire cosa si dicono se non poche spezzate parole.
Qualche minuto di silenzio - o di voci tenute tenui – e poi, di nuovo, animazione. Niente di serio, comunque, per quanto posso giudicare. Bisticci.
"Sono ragazzi e giocano. Sono ragazzi e litigano.", commento.
Saranno anche stanchi: ma con la paura di perdersi la vita e la bramosia di rubare alla notte tutto il tempo che è possibile.
Mi viene voglia di gridare: "Andate a dormire!", ma mentre quando sto davvero per gridare vedono una sagoma sottile che corre sulla spiaggia. Incespica, si ferma, riprende a correre, cambia direzione e, senza vedermi, viene proprio verso di me.
Si siede – si lascia cadere – contro una barca rovesciata e corrosa a pochi metri da me.
È una ragazzina e sta piangendo con singhiozzi disperati.
La guardo nella luce della luna.
Per un momento penso sia vestita di un costume intero pallido e aderente, poi mi rendo conto che è a coprirla ha solo i capelli scuri bagnati d’acqua di mare. Rimpiango moltissimo di non vedere più come una volta!
Rifiata un attimo, rialza un momento la testa guardando verso il mare e scoppia di nuovo in lacrime.
Quante lacrime può piangere una ragazzina? Domani il mare sarà più salato!
Alza la testa e, vedendola di profilo, scopro che ha un bel seno alto e teso, anche se ancora acerbo, e correggo il giudizio: ragazza e non ragazzina. Sedici anni, se devo provare ad indovinarne l’età: un bel fisico snello comunque, minuto e ben modellato.
Improvvisamente a disagio, penso che dovrei segnalarle la mia presenza in qualche modo – un colpo di tosse – invece non faccio niente e sorrido pensando che mi resta sempre la risorsa di fingere di dormire. Io: un vecchietto che si è addormentato la sera su una sdraio e ha passato la notte così: la bocca semi aperta verso l’alto e la testa un po’ storta. Purché non pensi che sono morto e si metta a gridare!
Le poche luci di questa notte brillano sulle onde e sulla pelle lucida della ragazza.
Il pianto si ferma un attimo e la vedo rabbrividire forte. Mormora tra i denti qualcosa come "Bastardo!" e comincia a piagnucolare di nuovo.
Da dove erano i suoi amici arrivano ogni tanto delle voci: di nuovo il vocione tedesco che deve cercare di dare consigli e, in risposta, silenzi o una voce infastidita. Parla piano anche una ragazza, poi niente. Magari se ne sono andati lasciandola qui, nuda, bagnata e perduta in questa notte.
Oppure stanno solo aspettando che si sia sfogata e ritorni indietro.
Guardo la curva perfetta della sua schiena, la tensione elastica che s’immagina in un gatto.
Sarò un ottimista, ma penso non sia successo nulla di grave. Crisi di ragazzi!

La ragazza non si muove. Tira su dal naso e tossisce.
Mi preoccupo che prenda freddo davvero. E anch’io comincio ad essere scomodo nel mio immobilismo da possibile addormentato.
Al diavolo!
Prendo la coperta, mi alzo e vado verso di lei.
Si accorge di me all’improvviso, ma resta ferma, bloccata dalla sorpresa e forse anche un po’ vergognosa.
Nel buio vedo i suoi occhi guardarmi, grandi e pieni ancora di lacrime. I capelli incollati sul viso ne sottolineano i lineamenti un po’ appuntiti.
Poso, appena appoggiandola, la coperta sulle sue spalle: "Ti prendi freddo!"
"Non ho freddo!", risponde piano, ma dopo un secondo si avvolge nel tessuto.
Troppo corta, fortunatamente, la coperta. La ragazza prima prova a tenerla sulle spalle, ma così non le copre neanche all’ombelico, poi la passa sotto le ascelle, e l’orlo arriva così al limite sull’inguine che resta per metà scoperto. Tira un po’ e subito la coperta si apre e le scivola via. Chiaramente imbarazzata fatica a legarlo di nuovo e, alla fine, si rassegna a coprire il seno e a lasciare che quello che non si può coprire e resti non coperto. Io ora sono abbastanza vicino da vedere e ringraziare madre natura e i fabbricanti di coperte.
D’altronde solo a guardare non si fa peccato. E, se si fa qualche peccato, non sarà questo a far dannare o a salvare la mia anima!
Torno alla mia sdraio e la trascino avanti di un po’ di metri e poi mi siedo. La ragazza, accovacciata sulla sabbia, mi guarda perplessa dal basso verso l’alto.
La guardo a mia volta: "Tutto a posto?"
Ci squadriamo a vicenda e alla fine risponde poco convinta: "Abbastanza…"
Si passa il dorso della mano sul volto per cancellare le lacrime.
"Hai litigato con i tuoi amici?"
"No!", risponde in fretta, ma subito ci ripensa: "È stato il mio ragazzo!"
Ha un movimento di rabbia che blocca subito, forse perché se si muove la coperta scivola.
"Un po’ corta!", osservo. Lei annuisce ad occhi bassi.
Devo togliermi la giacca del pigiama e offrirle anche quella? Un po’ per cattiveria, un po’ perché mi sembra di essere già stato anche troppo generoso ad offrirle una coperta lascio perdere. E riprendo il discorso con pazienza: "Che cosa ha fatto di sbagliato il tuo ragazzo?"
Esita, si morde il labbro inferiore e improvvisamente alza la testa con vivacità: "Mi ha mancato di rispetto!"
Sono abbastanza sorpreso da non mettermi a ridere e riesco a chiedere: "Che ti ha fatto per mancarti di rispetto?"
Nuova pausa durante la quale ho paura che mi dica, in maniera più o meno pittoresca, di occuparmi di qualcos’altro, e infine risponde a voce un po’ smorzata: "Ha allungato le mani!"
Questa volta non riesco a nascondere un tocco di ironia: "Non doveva?"
Mi guarda di nuovo e nega piano, senza convinzione: "Doveva chiedermelo!"
"Avresti detto di sì?"
"Ma doveva chiedermelo!"
Capisco. Capisco anche che è più arrabbiata con se stessa che con lui.
"Ha avuto un fretta…", lo giustifico.
Guardo la ragazza rannicchiata ed un po’ assente. Mi chiedo se sta per piangere di nuovo.
Ha un brivido e un leggero gemito.
"Forse gli hai fatto andare il sangue alla testa!"
Alza una spalla e un po’ anche la coperta: "Non ho fatto nulla, io!"
Allargo involontariamente le braccia e lei mi guarda subito aggressiva. Che tipetto!
"Non sarà cieco il tuo ragazzo!"
"Perché dovrebbe essere cieco?"
Ci guardiamo negli occhi e di colpo lei sorride ed abbassa i suoi: "Ho capito cosa vuoi dire!"
"Ed è quello che è successo?"
"Voleva fare l’amore!"
" E tu non volevi?"
"Ma sulla spiaggia! Non eravamo soli!"
"E non volevi che gli altri vi vedessero."
"No! Non è questo!"
Allora non capisco, e lei non mi spiega. Si rannicchia un po’, si passa la mano tra i capelli tirandoli per asciugarli.
"Daniela!"
Una voce che chiama, una due tre volte dalla strada. Evidentemente i suoi amici la cercano non lungo il mare ma da quella parte e si stanno preoccupando.
"Daniela?", ripeto in modo interrogativo.
Mi guarda.
"I tuoi amici ti cercano."
Fa segno di no col capo.
"È il tuo ragazzo quello che chiama?"
Fa di nuovo segno di no.
"Li lasci cercare? E se ti lasciano qui?"
Mi guarda perplessa. Se la lasciano qui una stanza per dormire ed una camicia con cui coprirsi non ho problemi a dargliela, ma so che non sarebbe una buona idea offrile questa soluzione.
I vecchi devono lasciare che i giovani risolvano i loro problemi da soli.
Io posso dare solo qualche consiglio – e, magari, una coperta.
"Daniela, dove sei?"
Questa volta la voce è diversa. Vedo che la ragazza si irrigidisce.
"Questo è lui, vero?"
Immobilismo, poi un "Sì!", così sussurrato che quasi non lo sento.
"Ti sta chiamando."
Immobile. Dura.
" È preoccupato!"
Alza un po’ le spalle, poi mi guarda.
"Cosa devo fare?"
Il suo non è uno sguardo aggressivo quanto una richiesta d’aiuto e, per la prima volta, la sua disperazione arriva al mio cuore.
La gioventù che le ho finora invidiato ora, così fragile e vulnerabile, mi fa tenerezza.
"Vuoi tornare da lui? Lui ti chiama!"
Esita incerta e alla fine annuisce lentamente.
"E allora va da lui!"
"Cosa gli dico? Non gli devo chiedere scusa!"
Sospiro: "Perché devi chiedergli scusa? Vai da lui e, se non dice niente, lo segui."
"E se dice qualcosa?"
"Se dice qualcosa, gli rispondi.!"
Per la prima volta sorride, ed è bella in questo sorriso che arriva dopo le lacrime.
Ci pensa un attimo, poi decide.
"Allora vado."
Peccato, però non poteva finire diversamente.
"Ciao!", saluto.
Si alza. Si guarda e la guardo anch’io.
"E la coperta?", mi chiede.
Posso mica dirle di lasciarmela e rimandarla nuda come è arrivata?
"Domani, se ripassi di qui, me la restituisci."
Esita, poi dice un "Grazie!" sottile e impacciato.
E, invece di allontanarsi, mi viene vicina e mi bacia sulla guancia.
Sono davvero sorpreso, riesco solo a sorridere ma non posso aggiungere niente.
La guardo camminare verso i suoi amici. Si gira ancora due volte a salutarmi. Forse si gira anche una terza ma è ormai troppo lontana.

Dopo due giorni , verso sera, ho ritrovato la coperta sulla sdraio dove ero seduto.
La ragazza, purtroppo, non l’ho più rivista.


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