Scrivere per vivere: quante volte, leggendo, l'ho
pensato e quanti autori amati mi tornano alla memoria: Kafka, che
scriveva per «salvarsi», Proust, che faceva emergere da
«profondità insondabili» i ricordi, perché la scrittura
potesse cancellare la morte, vincere il tempo, salvare la vita. E
quanti poeti: dall'aurorale e mitico Esiodo a Zanzotto, che vede
nella scrittura una «scalfittura», «un segno nel legno», «un
nai», un sì alla vita, una scommessa che, da noi, trae qualcosa
che può e deve rimanere.
Autori amati: uomini. E le donne? Mi accorgo che l'universo
femminile ha dato alla scrittura poco in quantità, ma molto in
qualità. E sono combattuto tra il concetto di diversità e
quello di uguaglianza, di «vicinanza» per dire meglio. La vera
erede di Proust non è forse M. Yourcenar? E anche per lei lo
scrivere non era forse una ragione per vivere e per recuperare il
Tempo? E per Ada Negri la scrittura non è forse una ragione di
vita, un modo per consegnare al futuro tante vite di stenti,
tante delusioni e tante speranze, tanta esperienza femminile e al
tempo stesso universale?
Così alla fine prevale la vicinanza; la differenza esiste, va
difesa, ma è la «vicinanza» nel segno della scrittura, della
persistenza delle esperienze e del vissuto che matura nella
letteratura, che vince e che mi fa percepire un profondo
intreccio fra l'universo femminile e quello maschile.
Paolo