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Religione ed agire politico
AVERE
AD ESSERE: PER UN'ETICA DELLA IN/DIPENDENZA
La croce del
Cristo viene portata in processione, sacerdoti e laici avanzano a passo
lento per le strade. Ricordo l'odore che saliva dai ceri, la banda che
suonava una marcia funebre, la gente alle finestre. Era una festa, ma
triste, raccolta e mesta. Ricordo la sensazione di una partecipazione
comune. Ricordo anche quel senso di paura e di oppressione, quel senso
di morte che ti si metteva addosso. Una festa promessa che si consumava
in dolore.
Ricordo altre ricorrenze, il
giorno del santo. La statua che emerge tra la folla, ondeggia nell'aria,
instabile e sicura come l'albero di una nave. La portano in spalla, sotto
la piattaforma, uomini robusti. Pencolava, trasferendo in immagine i loro
passi. Passi lenti, aperti al cammino dal sacerdote, seguivano i fedeli,
si levava la voce corale della preghiera, che si trasformava in un canto
monotono, in un modulo uniforme. C'erano tutti, volti familiari e noti,
si stava in strada. Era la processione. Ai balconi si stendevano le coperte
più belle, appartenute al corredo di sposa e gelosamente conservate
negli armadi dall'odore di naftalina.
Mi capita ancora di fermare
la macchina, di scendere e andare a vedere e domandare, quando in viaggio
mi trovo a passare per piccoli paesi. Le illuminazioni in archi di legno
sottile, ricamati con tante piccole lampadine, e le bandiere d'Italia
annunciano subito al passante che è la festa del paese, attesa
per un anno nel ciclo della ricorrenza.
Tante cose sono tenute insieme
o passano le une nelle altre in questi ritmi e liturgie, che mettono in
comune lo spirito popolare e religioso, e confondono immagini e rappresentazioni,
ricordi e memorie, le storie di ieri e le presenti. E' come se la processione
scandisse il tempo nelle sensazioni, i sentimenti e le passioni, la religione,
la politica, la cultura del luogo, assumendo anche simboli a loro estranei,
ammessi a confluire e confondersi in altri più propri di quella
terra.
Ecco le grandi città
non hanno più terra. Sono quasi astratte, meccaniche, senza voci,
sovrastate da rumori che coprono un silenzio soffocato di pensieri e parole.
Le città non hanno più terra, sono più prossime all'astrazione
del pianeta. Ma la terra è la propria terra, dove si nasce. Non
sarà allora certo un caso se nelle città le nascite sono
sempre più ridotte, insieme con la terra si perde la natalità.
Si perde anche la solitudine intima, per ritrovarsi in un isolamento irreale:
ognuno è solo in mezzo a tutti, si perde il costume, l'etica, il
senso della terra, si perde l'abitare. Una parola piena che confina e
trascorre negli estremi dell'avere, dell'abitudine, della casa, della
morale: tutte espressioni che stanno iscritte nella voce latina habere
.
Talvolta si sente ripetere,
che occorre essere e non avere, ed è giusto fin quando l'avere
è ridotto al possesso. Ma essere senza abitare è come la
malattia e il disagio del nostro tempo, è anche un problema sociale
sempre più diffuso in Europa e in Italia dove la crisi degli alloggi,
il non trovare casa e l'essere disoccupati è un problema assillante
e destabilizzante. Forse bisognerebbe una buona volta tentare di coniugare
insieme essere ed avere (habere), non come possesso, è chiaro,
ma come avere ad essere, lasciare essere, esserci.
La processione, come la ritualità,
come può riguardare tutto questo?
Sono rimasto là al balcone
a guardare il suo avanzare. La croce del Cristo, la statua del santo,
la liturgia, la parrocchia, la confessione, la religione... già
la confessione! Non sono la stessa cosa la religione e la confessione,
al punto che si può certo dire che ogni confessione è religione,
ma non ogni religione è confessione. E qui arriviamo al punto più
complicato, al cristianesimo, alla cristianità, ai suoi simboli
e alla sua spiritualità. Ne comprendiamo l'uso e meno il bisogno.
Come comprendiamo nel bisogno della religione quello di sentirsi legati,
che è riposto nella voce orginaria della parola religione. Un bisogno
di comunità, di sentirsi insieme e dipendersi. L'origine della
religione è nella dipendenza -diceva un filosofo-,è nel
bisogno di un legame, la religione in questo senso è ciò
che ci accomuna, non è qualcosa che si possa mai ridurre all'esteriorità
di una rappresentazione, appartiene ad ognuno prima ancora di essere questa
o quella confessione religiosa.
Sappiamo tutti, che la confessione
cattolica si è innestata sulle culture religiose ad essa preesistenti.
Sappiamo quante divinità "pagane" e quante feste popolari siano
state trasfigurate in santi e riti del cristianesimo. Un fatto che è
visibile ancora soprattutto nel Meridione dell'Italia, dove, forse per
poco, più forte è il senso della terra e della natività,
della memoria tramandata nei gesti e nei modi di esprimersi e di comunicare.
Sappiamo anche che il teatro,
luogo ed espressione comune della rappresentazione, ha avuto origine dai
riti sacri e sacrificali. E' stato così per il teatro degli antichi
greci e per il medioevo latino. All'origine del teatro è la sacra
rappresentazione, la partecipazione corale, stravolta poi dal personalismo
degli attori.
Per troppo tempo gli studi
sui fenomeni delle processioni e della liturgia di una comunità
sono stati ridotti e circoscritti all'antropologia e alla sociologia.
Fenomeni perduti non solo nelle grandi città, ma anche nei paesi.
E se riappaiono e sono riproposti, questo avviene certo per un bisogno,
quello di ritrovare, a fronte del consumismo e l'individualismo, un comune
che si è perduto o che forse non c'è mai stato e che proprio
perciò è più desiderato.
Ma si può ripetere quello
che è già stato? Si possono riproporre, in maniera direi
quasi filologica, riti e simboli, o non occorre pensare, che rispondevano
ai bisogni di un tempo e che altri bisogni, altre aspettatitive e necessità
si impongono adesso? Non occorre certo immaginare nuovi riti, ma una riappropriazione
di una memoria nella vita vissuta del presente. Non si rischia altrimenti
di confondere il bisogno della comunità e della partecipazione
con l'integralismo e l'adesione ad un modello che nasconde l'esatto contrario
di quel bisogno: l'autoritarismo e il personalismo?
Quando la storia di un paese
conosce il punto del suo minimo morale, ogni soluzione è buona,
soprattutto se affidata ad un solo uomo, capace di farsi totem e tabù,
di modellare una rappresentazione di sé, una recita a soggetto
per tutte le occasioni. Questo rischio è sotto i nostri occhi,
nell'agire politico.
I luoghi sono le persone che
li abitano, ripeto spesso. Ma i nostri luoghi sono come disabitati da
noi stessi. Non abitiamo più le case. Stiamo davanti alla televisione,
che da tempo ha sostituito il focolare e quella finestra da cui da ragazzo
guardavo la processione, dove ci si "affacciava" a vedere la gente passare.
Ma non è per nostalgia che dico questo. Lo dico pensando ad una
educazione dei sentimenti, e guardare è un sentimento.
Noi viviamo in un momento della
nostra vita sociale dove il cittadino è diventato un telespettatore
e il politico un giocatore, un movimento politico è una squadra,
e andare a votare è seguire i sondaggi e fare il tifo. Negli stadi
si va per azzuffarsi, così come vediamo azzuffarsi i politici in
televisione. Guardare è diventato un gesto passivo, ma il vedere,
insisto, è prima di un senso - o forse proprio per questo - un
sentimento.
La tragedia presso gli antichi
Greci nasceva dalle rappresentazioni sacre. Fu il momento più alto
della coscienza critica di quel popolo. Al teatro si andava in processione,
e il teatro era un luogo comune. La tragedia nacque così: ripetendo
i miti, i simboli e i valori della tradizione in un confronto critico
con i nuovi bisogni giuridici e sociali. Ne veniva una critica del presente
al passato e una critica del passato al presente. Fu il momento più
alto della cultura greca. Ed è il momento più alto a cui
può pervenire una comunità nel proprio tempo, quando si
mette in circuito la memoria e il presente, l'attuale e l'inattuale. In
questo doppio movimento si dà la responsabilità, non quando
si invoca il nuovo comunque e a tutti i costi o, peggio, quando poi il
nuovo che avanza nasconde dietro un sorriso artefatto i volti del vecchio
di ieri.
Perciò voglio concludere
così: la ritualità sacra, le processioni e le liturgie,
non possono ripetersi per filologia, senza un confronto comunicativo con
i bisogni che incalzano. Diversamente si resta chiusi nell'antropologia
o nell'integralismo.
Quelle strade attraversate
da processioni e cortei, da laici e non, sono un luogo comune, di rappresentazione,
sono il nostro teatro in cui educarsi al sentimento del vedere, non contemplativo,
ma che resta nella memoria e nella responsabilità.
Affido, allora, questa conclusione
agli occhi del bambino per strada o al balcone. A quella sua sensazione
che saliva dall'odore dei ceri e al senso di una comunità, che
non si consumi nell'oppressione funerea, ma dia gioia e memoria, che affronti
l'agire politico con la passione dell'etica. Non la vuota responsabilità
che tutti possono dichiarare propria, ma come l'avere ad essere, esserci,
in un sentimento del vedere e del mondo, capace di dire della comunità
e della dipendenza. Così come si dice in/dipendenza, nel sapersi
perciò preso e vissuto e vivere negli affetti, e più ancora
nell'affezione dell'altro.
L'altro: quello che io non
sarò mai, l'altra. L'altro: un'altra comunità, un'altra
religione, differente dalla mia, per un'altra politica in un avere ad
essere nella reciproca dipendenza e passione del mondo.
Ricordo il mio soggiorno a
Capri, il dibattito su etica e agire politico nel confronto di un'esperienza
laica e di una esperienza sacerdotale. Mi resta il ricordo di una serata
bellissima di partecipazione vissuta. Capri è stupenda non per
la bellezza delle cose: i luoghi sono le persone che li abitano. Quella
declinazione immediata dell'isola e dell'isolamento scompare di colpo
nel bisogno di prendere la parola e dar voce a una passione etica.
Giuseppe Ferraro
( Ricercatore presso il Dipartimento di
Filosofia - Facoltà di Lettere e Filosofia
Università "Federico II" di Napoli)
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