[Il foglietto] Organo di collegamento del

Gruppo Missionario

Parrocchia S. Croce

Salerno

Febbraio 1999

Guai a coloro che il Signore troverà ad occhi asciutti.

Gustavo Gutierrez


Chi ama l’Africa?
di Vincenzo Agosti

Domenica 6 dicembre, ore 16,30. Calano le prime ombre della sera.

Un piccolo gruppo di manifestanti sfida il freddo polare e, in silenzio, inizia la sua marcia per le strade del centro cittadino di Salerno. Sono appartenenti a gruppi missionari, associazioni di volontariato che lavorano con gli immigrati, associazioni e cooperative di Commercio Equo e Solidale, rappresentanti delle istituzioni locali (questi ultimi molto pochi, in verità). Insieme ai partecipanti alla Marcia Penitenziale per l’Africa, partiti lunedì 30 novembre da Mazara del Vallo, in Sicilia, e giunti a Salerno nel primo pomeriggio, percorrono il tragitto che li porterà alla parrocchia dell'Immacolata, dei frati Cappuccini. Lì verrà celebrata l’Eucarestia con il rito Zairese, primo rito delle terre di Missione ad essere riconosciuto. In testa al corteo padre Alex Zanotelli, uomo carismatico e figura di riferimento di quel movimento in questi giorni dispregiativamente definito "terzomondista", quasi che il guardare il mondo con gli occhi degli esclusi fosse peccato grave. Toccherà a lui l’omelia della S. Messa.

Il corteo procede nella indifferenza della gente impegnata nelle compere di Natale. Ma i "vu’ cumprà" ci riconoscono, sospendono le loro attività e iniziano a picchiare sui loro tamburi. Si alza un cartello: "E’ più bello insieme!".

Era stato stabilito che la marcia fosse silenziosa ma, giunti nei pressi di un centro commerciale, non ce la facciamo più a trattenerci e, dopo aver fatto un grande cerchio, iniziamo a cantare e a ballare al ritmo dei tamburi. Anche padre Alex si scatena, per modo di dire, nella danza. Finalmente ci notano, quantomeno diamo un po’ di fastidio.

Riprendiamo il cammino e ci dirigiamo verso la chiesa dove ci accolgono un padre ed alcune suore zairesi che animeranno la celebrazione. In breve tempo la chiesa si riempie: non immaginavamo di essere in tanti!

Il celebrante ci saluta e presenta se stesso come un frutto di quei semi piantati dai missionari nella terra d’Africa ed ora tornato a noi. Tocca a noi cibarci di questo frutto, approfittare dell’abbondanza del raccolto per ritrovare nuova linfa e con forza ripartire ad annunciare il Vangelo, soprattutto nel nostro Primo Mondo materialista ed idolatra.

La Liturgia è suggestiva: se non fosse per il freddo, grazie ai canti e alle danze delle suore zairesi sembra di essere in Africa. E’ bello vedere anche i missionari che sono stati in Africa cantare le canzoni in swahili. Sono visibilmente commossi, lo siamo anche noi.

Arriva il momento dell’omelia di padre Alex. Il Vangelo di oggi ci presenta la figura di Giovanni il Battista, personaggio emblematico della Sacra Scrittura, che nel brano in questione richiama alla "conversione" le genti d’Israele e le battezza. Annuncia così la venuta del Cristo. Partendo dal Vangelo e dalla sua esperienza nella baraccopoli di Korogocho, in Kenya, nei "sotterranei della Storia", dove vive da nove anni, padre Alex contestualizza le immagini bibliche e ci descrive chiaramente la situazione in cui viviamo. Il popolo ebreo, soprattutto la parte più povera ed emarginata era schiacciata dall’Impero Romano. I suoi governanti, i sacerdoti, i sadducei ed i farisei, erano collusi con il potere di Roma e contribuivano ad impoverire la popolazione. Così anche gli impoveriti e gli esclusi di oggi vengono schiacciati dall’Impero del Denaro e coloro che hanno in mano le chiavi per governare il futuro, i politici, sono impotenti, quando non fanno gli interessi delle oligarchie economiche. Il Primo Mondo ha sfruttato e sfrutta il Terzo e Quarto Mondo facendo si che oltre un miliardo di persone vengano considerate "zero economici", cioè inutili al funzionamento dell’attuale sistema economico. Quindi inutili in assoluto.

Il richiamo di Giovanni il Battista alla conversione è più attuale che mai. Occorre "convertirsi" e cambiare atteggiamento nei confronti dei paesi poveri. Dobbiamo smetterla di considerare tutto ciò che facciamo per i paesi del Sud del Mondo come aiuti a queste popolazioni, ma entrare nell’ottica che occorre restituire tutto ciò che abbiamo depredato loro in questi 500 anni. L’azzeramento del debito estero non è solo auspicabile ma è un atto dovuto. Siamo noi in debito verso di loro, ed è un debito immenso. Milioni di esseri umani, di "volti" sono stati sacrificati al Moloch del Mercato, vivono in condizioni inumane solo per garantirci il nostro tenore di vita, per continuare lo "sviluppo". Tutto questo è immorale! Dobbiamo chiedere perdono per tutto questo, da qui il nome Marcia Penitenziale per l’Africa.

"Razza di vipere", grida Giovanni, ma è voce che grida nel deserto. Noi "terzomondisti" lo conosciamo il deserto, la difficoltà di farci ascoltare anche dai nostri stessi fratelli in Cristo, la coscienza di essere una minoranza in una società che ha perso ogni riferimento, o meglio ha sostituito ogni ideologia o fede religiosa con l’egoismo e il dio denaro. L’esilio e l’emarginazione che chi porta avanti certi discorsi subisce anche all’interno della Chiesa Cattolica, spesso troppo conformata a questo mondo. A noi spetta il compito di continuare a gridare, di essere "profeti", convertendo noi stessi, il nostro rapporto con Dio e con gli uomini, modificando il nostro stile di vita e cominciando a guardare il mondo con gli occhi dei semplici. La conversione non è solo un invito, ma è necessaria perché se continuiamo su questa strada pagheremo un prezzo altissimo anche dal punto di vista ecologico. Lo stiamo, anzi, lo stanno, i più poveri, già pagando (vedi l’uragano Mitch).

Ma soprattutto dobbiamo ripensare le relazioni con i nostri fratelli, all’interno della famiglia, delle comunità. Dobbiamo accostarci all’altro, al diverso da noi con un cuore nuovo, il cuore di quel bimbo che Dio sta per donarci. E ricordiamoci che quel bimbo lo troveremo fuori le mura, "in una grotta al freddo e al gelo" e non in uno dei tanti Palazzi. Così come fuori le mura un giorno verrà crocifisso. Così come fuori le mura troviamo migliaia di immigrati, di profughi, di "vu’ cumprà", i crocifissi di oggi.

Terminata l’omelia la celebrazione prosegue, ma tutti noi siamo un po’ cambiati. Non è possibile rimanere gli stessi dopo aver ascoltato la Parola del Signore. Come ama dire un nostro amico prete salvadoregno, lo Spirito vola anche se un po’ spennato, ed oggi ha volato sopra di noi ed ha parlato con la voce di padre Alex, di padre Silvio e di tutti i missionari e missionarie, laici, cristiani e non, impegnati in questo cammino personale e comunitario di conversione ai più poveri ed emarginati.

"E’ più bello insieme!". Sì, è stato proprio molto bello.

 

La Turchia è un paese democratico: alla faccia di 12 mila prigionieri politici!
di Orsola Casagrande
da Il Manifesto del 30.1.99

"Non c'è dubbio che la Turchia sia una democrazia". Si conclude così il rapporto redatto da un cristiano democratico austriaco e da un socialdemocratico ungherese e presentato al Consiglio d'Europa. E' l'ultimo rapporto sulla Turchia e quello che forse consentirà al governo di Ankara di essere inserito nella lista degli 11 candidati ad entrare nell'Unione Europea.

C'è da chiedersi da che cosa e in che modo i due illustri signori abbiano tratto una conclusione così assoluta: la Turchia è una democrazia. C'è da chiedersi se la loro visita "esplorativa" sia per caso coincisa con le brutali repressioni in corso in Kurdistan. E chissà se i due inviati europei si sono fermati in piazza Galatasary, a Istanbul, un sabato qualunque a mezzogiorno: chissà se si sono chiesti che diavolo ci facessero tutte quelle signore sedute per terra con le foto di figli, mariti, sorelle, fratelli. E, se se lo sono chiesti, se quindi hanno saputo che in Turchia la gente (a centinaia) scompare nel nulla vittima della polizia o delle squadre speciali della contro-guerriglia, che cosa hanno pensato? Che in una democrazia le sparizioni sono cosa "normale"?

Forse i due signori se ne sono andati via prima che la polizia attaccasse quelle donne sedute per terra. Forse non hanno visto i manganelli colpire, precisi, le teste avvolte nei colorati fazzoletti kurdi. E nemmeno le donne trascinate per i capelli verso i blindati dai Robocop turchi. E ancora, chissà se i due inviati europei hanno partecipato ad uno delle decine di processi che si svolgono ogni giorno nei tribunali per la sicurezza dello stato. Magari avrebbero potuto fare un salto al centro di riabilitazione per le vittime della tortura, che in Turchia (ma forse ai due signori la cosa è sfuggita) è sistematica. Una chiacchierata con una delle vittime forse avrebbe aiutato gli inviati europei a non trarre conclusioni così - usiamo un eufemismo - "sommarie".

Per amor di verità bisogna riconoscere che nelle 52 pagine del rapporto gli inviati del Consiglio europeo parlano di "violazione dei diritti umani": sottolineano infatti come "l'impegno del governo turco in materia di diritti umani sia confermato da cambiamenti nella legislazione e nei regolamenti della polizia, oltreché dalla creazione di un comitato parlamentare sui diritti umani". Lo stesso comitato dal quale Akin Birdal, presidente dell'Associazione turca per i diritti umani (vittima di un attentato ferocissimo al quale è sopravvissuto per miracolo, nella democratica Turchia, dopo mesi di velenosi articoli in cui veniva dipinto come membro del PKK) attende un atto, una parola scritta, qualcosa insomma che tolga il fastidioso dubbio che si tratti soltanto di un trucco per allodole (europee). Peccato poi che i due inviati europei non potessero fermarsi per assistere a qualche udienza del processo al partito Hadep. Magari a quella di ieri, a Ankara: avrebbero sentito il procuratore Vural Savas (per ironia della sorte, Savas in turco significa guerra) chiedere la messa al bando del partito (a tre mesi dalle elezioni) che "incita al separatismo e al terrorismo".

Sotto accusa ci sono 47 dirigenti dell'Hadep, tra cui il suo presidente Murat Bozlak. Sono accusati di "favoreggiamento, appoggio al PKK e istigazione alla violenza". Prove contro di loro? Quando il leader del PKK, Abdullah Ocalan è giunto in Italia per parlare di pace (e mentre la guerriglia osservava una tregua unilaterale ancora in vigore) i militanti dell'Hadep hanno iniziato nelle sedi del partito uno sciopero della fame per sostenere l'iniziativa di pace di Ocalan e invitare la Turchia ad accettare il dialogo. Questo è parso abbastanza al procuratore Savas per sostenere che "ci sono incontestabili legami tra Hadep e PKK. Attraverso le strutture del partito, associazioni, giornali, sindacati, l'Hadep fornisce al PKK reclute da mandare a combattere". Certo, i due inviati europei forse non sapevano che il processo all'Hadep stava per cominciare. Come forse non erano stati informati della chiusura di due quotidiani di sinistra, Emek e Ulkede Gundem. Chiusura (e relative multe) ordinata perché i due giornali avrebbero "appoggiato il separatismo".

Naturalmente non dev'essere nemmeno passato per la mente ai due signori di chiedere alle autorità di Ankara di poter visitare qualcuno degli oltre dodicimila prigionieri politici. Magari il sociologo Ismail Besikci reo di aver scritto in più libri che il Kurdistan e i kurdi esistono e per questo condannato a oltre cento anni di carcere. Il Consiglio d'Europa, si sa, è un'anticamera importante per i candidati ad entrare nella UE. Questo rapporto dunque è un bel colpo per Ankara. L'Europa ancora una volta ha scelto di chiudere un occhio, o forse tutti e due, sulla guerra in Kurdistan e sugli abusi del regime turco.



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