ITALIANI NEL MONDO

di Eros Capostagno

Questa storia del voto all'estero non ci convince del tutto. L'euforia per il recente voto favorevole della Camera all'esercizio all'estero del diritto di voto, non dovrebbe far perdere di vista i tanti altri aspetti della faccenda.

Non ci riferiamo al fatto che la legge deve ancora passare al vaglio del Senato e poi, a distanza di mesi, tornare di nuovo per una seconda lettura a Camera e Senato, con tutti i rischi di intoppo che questa procedura comporta, tanto più che gli equilibri politici oggi esistenti potrebbero essere differenti tra qualche mese, vista la variabilità della geometria politica italiana attuale. Ci riferiamo a qualcosa di più sostanziale.

Se si manifesta la necessità (o volontà) di varare una nuova legge, normalmente è per dare soluzione ad un problema, vecchio, nuovo o potenziale che sia. Non vorremmo sembrare dei dissacratori nel momento dell'euforia, ma abbiamo l'impressione che questa legge per il voto all'estero non dia soluzione ad alcun problema, per il semplice fatto che un "problema" non ci sembra sia stato (ancora) ben definito.

E' facile dire che il voto è un diritto del cittadino e, di conseguenza, questi deve essere messo in condizione di esercitarlo. Anche il "diritto al lavoro" è riconosciuto dalla Costituzione, ed affinché tutti possano esercitare questo diritto, le Istituzioni devono impegnarsi a creare le condizioni necessarie per farlo. Ammesso (e attualmente non concesso) che le Istituzioni facciano la loro parte, resta comunque il fatto che per dare attuazione a questo diritto, il potenziale lavoratore deve fare la sua parte, studiando per apprendere un mestiere, specializzandosi, cercando il lavoro dove c'è, creando un'atttività ecc.: deve, in altre parole, avere un interesse e una partecipazione attiva al processo.

Il punto è proprio questo, l'interesse e la partecipazione attiva.

Dall'esperienza di questi anni, siamo portati ad individuare i seguenti "tipi" di italiani all'estero:
- gli emigrati in continenti extraeuropei,
- gli emigrati in paesi europei,
- i lavoratori temporaneamente o parzialmente all'estero (in particolare quelli che nell'Unione Europea svolgono attività sempre più frequentemente transnazionali),
- i discendenti dei tre gruppi suddetti.

Diamo per scontato che per i primi tre gruppi l'attaccamento sentimentale alla patria d'origine è praticamente indissolubile, qualunque siano (stati) i motivi e i tempi del distacco. Viceversa, per la maggior parte dei discendenti, siano essi "riconosciuti" o meno (diremmo la quasi totalità di quelli che vivono nei continenti extraeuropei) non parleremmo nemmeno di attaccamento ideale o sentimentale ma piuttosto, quando c'è, del desiderio di riscoprire una cultura paterna d'origine, diversa da quella nella quale sono immersi. Cultura d'origine che era stata rimossa sia per difficoltà nell'alimentarla che, soprattutto, per necessità di integrazione nella realtà locale del paese d'adozione.

A questo attaccamento ideale, sentimentale e culturale, e a questo interesse così generalizzati, l'Italia deve giustamente procurare i mezzi perchè possano alimentarsi e svilupparsi. Per inciso, una penetrazione culturale corrisponde anche ad un investimento per una penetrazione commerciale.

Quanto alla "partecipazione attiva", non ci sembra invece possibile generalizzare. Ognuno dei gruppi suddetti presenta elementi specifici, dovuti a situazioni contingenti, dei quali sarebbe ipocrita e stupido non voler tener conto.

Partecipazione significa informazione e interazione. Dove con "informazione" intendiamo la possibilità di accedere ogni giorno ai quotidiani ed alle televisioni nazionali, direttamente e senza filtri, onde rimanere aggiornati sull'evoluzione della società italiana e non rimanerne attardati o tagliati fuori. Dove con "interazione" intendiamo il sentirsi coinvolti dai problemi quotidiani del Paese, se non altro per le conseguenze che essi hanno su noi stessi, i nostri parenti, i nostri interessi, e l'immagine che ce ne deriva, in quanto italiani, nei rapporti quotidiani di vita e di lavoro all'estero.

Interazione significa anche una presenza fisica nel Paese: non si può parlare di interazione per chi riabbraccia (vero o falso che sia) una sorella in Italia dopo trent'anni di lontananza, solo grazie ad un viaggio organizzato da Raffaella Carrà e dalla RAI.

Non vorremmo urtare la sensibilità di alcuno ma, parlare di informazione e partecipazione al di là dei confini dell'Europa, ci sembra davvero azzardato. anche se tutte le agenzie di informazione presenti in Internet consentirebbero oggi, in linea di principio, un più facile contatto con la realtà, anche spicciola, italiana. Per la verità, nella stessa Europa, questa gran corsa all'informazione e questo gran desiderio di sentirsi parte attiva della vita sociale italiana, non ci sembra proprio di notarli. E non parliamo nemmeno delle percentuali di votanti alle elezioni dei Comites.

Per quanto riguarda i figli e i nipoti poi, integrati nelle realtà socioeconomiche locali, o immersi in ambienti di studio e lavoro internazionali, l'Italia è su un altro pianeta, meta delle vacanze estive, e l'esigenza di "italianità" è solo un sogno romantico dei loro genitori.

A forza di girarci intorno, veniamo dunque al punto. Esultiamo pure per la legge che consentirà (forse) l'esercizio del diritto di voto all'estero per eleggere gli organismi rappresentativi italiani, plaudiamo a Tremaglia e a quanti generosamente (e senza tardivi opportunismi) si sono battuti per essa. Poi però guardiamoci negli occhi e chiediamoci con un po' di chiarezza quali erano e sono le reali esigenze (o problemi) delle varie tipologie di italiani all'estero e diciamoci, onestamente, quali di queste esigenze il voto all'estero risolve.

Da quanto sopra accennato, crediamo di poter affermare che l'esigenza che accomuna gli italiani permanentemente all'estero, doc-oriundi-accertati, è quello di mantenere o riallacciare o rivitalizzare legami con la cultura e l'identità d'origine, ma senza per questo volersi immedesimare nella realtà sociopolitica italiana, né tanto meno scalfire l'identificazione, spesso difficilmente conquistata, col Paese d'adozione. A prescindere naturalmente dalla richiesta di veder risolti tutti i problemi pratici di "assistenza" che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato il passato dell'emigrazione.

L'elezione di un "onorevole" al Parlamento di Roma, non propone in effetti alcuna soluzione a questa esigenza. Resta forse il fatto emotivo di sentirsi di nuovo, in qualche maniera, agganciati all'Italia. Ma non facciamoci illusioni: l'emotività del voto, per le giovani generazioni in particolare, nei Paesi a tradizione democratica occidentale, è ormai trascurabile (45% di votanti alle ultime elezioni olandesi!).

Viceversa, consentire di esercitare il diritto di voto a chi si trova solo temporaneamente (o parzialmente) fuori d'Italia, oppure a chi mantiene con la realtà sociale italiana dei reali legami, risolverebbe il problema di rappresentatività posto dalla moderna mobilità professionale, in piena espansione in particolare in Europa.

Dovremo concludere che il voto all'estero è inutile? Certamente no. Tuttavia qualche considerazione e qualche "distinguo" andrebbero fatti, tra il suffragio universale generalizzato ed una qualche forma di limitazione , magari solo geografica.

Non vogliamo entrare in una discussione sui dettagli tecnici della legge, pur se fondamentali, che lasciamo a chi ne sa più di noi sia per esperienza che per militanza, però è chiaro che votare per le normali circoscrizioni italiane o votare per la "circoscrizione estero", non è la stessa cosa. Nel primo caso si è partecipi in qualche modo della normale vita politica italiana, nel secondo si inviano a Roma una decina di deputati senza alcun potere effettivo, a vivere cinque anni nel ghetto parlamentare loro riservato. Tanto più che i deputati, una volta eletti, non rappresentano più i propri elettori, ma l'intero Paese, come ipocritamente ci viene ripetuto a giustificazione degli attuali continui trasformismi parlamentari.

Più che soddisfare le esigenze degli Italiani all'estero, il voto universale per la "circoscrizione estera" potrebbe diventare nient'altro che lo strumento per qualcuno, per cambiar vita e lavoro, andando a fare "l'onorevole" a Roma. Non è un'affermazione polemica, né una maliziosa allusione, sia chiaro, è solo una doverosa constatazione de facto.

Ci chiediamo dunque se non sarebbe opportuno, accanto ad una misurata soddisfazione per l'eventuale voto all'estero, impegnarsi per strutturare o ristrutturare degli organismi più agili, più autonomi, più lontani dai giochi politico-politichesi, che potrebbero essere maggiormente efficaci nel dare soluzioni adeguate alle esigenze di chi vive all'estero.

Parliamo ad es. del Dipartimento Italiani nel Mondo, del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero, dei Consolati, degli Addetti Scientifici e Culturali, degli Istituti di Cultura, degli Enti di Assistenza Scolastica ecc. dove, malgrado tutte le possibili difficoltà, c'è anche gente che lavora con buona volontà e senza clamori, per la diffusione della cultura ialiana ed in definitiva per l'immagine dell'Italia, consentendo a tanti connazionali di mantenere o riallacciare i legami con l'italianità.

Puntare su questo, su un coordinamento tra i vari organismi operativi, su obiettivi concreti, su un ordinamento che riduca il rischio di episodi incresciosi in questi stessi organismi: ecco, forse questo potrebbe essere più utile per la summenzionata ospite di Raffaella Carrà, che da trent'anni non tornava in Italia, che non mandarla in cabina a votare per il Parlamento Italiano.

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