TURBOCAPITALISTI

di Eros Capostagno

Nei giorni scorsi il Governo ha deciso la ristrutturazione del sistema di distribuzione della benzina. In sintesi, questo comporterà la riduzione del numero di distributori attualmente esistenti, e l'introduzione forzata del self-service. Niente di rivoluzionario, in Europa è già così da molti anni.

L'obiettivo dichiarato è quello di ridurre i costi sopportati dalle compagnie petrolifere nel sistema di distribuzione del carburante e quindi, in ultima istanza, di consentire la riduzione del prezzo della benzina alla pompa, a tutto vantaggio dell'automobilista.

In soldoni, minor numero di distributori significa infatti riduzione del numero di autobotti che quotidianamente fanno la spola tra le raffinerie ed i distributori, self-service significa la riduzione del personale dei distributori: la riduzione dei costi per le compagnie petrolifere è dunque evidente.

Ora, poiché il prezzo del carburante è composto da tre macrovoci, prezzo del greggio, costi di lavorazione e distribuzione, oneri fiscali, il primo dei quali determinato dagli sceicchi e quindi fuori controllo, si potrebbe obiettare che una riduzione del prezzo alla pompa potrebbe essere ottenuta anche abbassando l'onere fiscale, visto tra l'altro che gli automobilisti sono sempre stati il bersaglio preferito dei vampiri del Ministero delle Finanze. Ma non è questo che vogliamo sottolineare, anche per non disturbare il Ministro Visco ed il suo "popolo dei fax".

Vogliamo piuttosto manifestare alcune perplessità su questa riforma, di stampo sicuramente liberista e "capitalista" (riduzione dei costi, razionalizzazione, ricerca dell'efficienza) attuata da chi (post e neo comunisti) il sistema capitalista lo ha sempre spernacchiato e combattuto, ispirandosi a teorie e sistemi che hanno prodotto solo fame e miseria. Perplessità, si badi bene, che vengono a noi che del libero mercato e del capitalismo siamo da sempre, non da ora, convinti assertori.

Vediamo. La chiusura di tanti impianti comporterà la perdita del posto di lavoro per i gestori ed i loro dipendenti. I più anziani andranno ad ingrossare prematuramente le liste dei pensionati, i più giovani quelle di disoccupazione. L'introduzione generalizzata del self-service comporterà la ovvia sparizione del posto di lavoro non solo per moltissimi dipendenti regolari dei gestori, ma anche per tutti coloro (soprattutto giovani) che dal lavoro saltuario presso le pompe e dalle mance che ricevevano (lavaggio vetri, controllo pneumatici, ...) traevano qualche mezzo di sostentamento o di complemento al bilancio familiare.

Non solo. La riduzione del numero di autobotti addette al trasporto dei carburanti dalle raffinerie alle pompe, significa la perdita del lavoro per altrettanti autisti e per molti dei meccanici addetti alla loro manutenzione. Non basta. La dismissione del personale suddetto da parte delle compagnie petrolifere, unita alla informatizzazione sempre più spinta delle unità di gestione, renderà superflua la presenza di molti impiegati amministrativi, attualmenti addetti alla gestione di tale personale, ed alle relative segretarie.

In altre parole, si innescherà una reazione a catena che per le compagnie andrà sotto il nome di "ristrutturazione", termine politically correct per indicare il licenziamento degli "esuberi", cosa che, nella situazione attuale italiana, significherà ulteriori pensionati e ulteriori disoccupati, nulla più.

Questo meccanismo non è esclusivo dei distributori di benzina ovviamente, ma si sta applicando ormai in molti settori, vedi la ex-Standa, gli stabilimenti ex-Italtel e così via, è solo che non sempre giungono all'attenzione del grande pubblico come nel caso della benzina. Sono gli effetti di quel meccanismo economico moderno che va sotto il nome di "turbocapitalismo".

Questi effetti non sono per nulla strani ed imprevedibili, o dovuti a distorsioni del meccanismo, al contrario, sono ad esso connessi ed integrali. Il problema è vedere su quale tessuto sociale essi si scaricano e quali conseguenze ne derivano.

Negli Stati Uniti, la patria del turbocapitalismo, gli effetti sembrano, non c'è che dire, eccellenti. La crescita economica è assestata su circa il 4% annuo, il bilancio statale è in attivo (se non andiamo errati per la prima volta in questo secolo), la disoccupazione è praticamente scomparsa (quell'attuale 4,5% si può far corrispondere infatti a quella fascia di popolazione che comunque non entrerebbe mai nel mondo del lavoro, per emarginazione, deliberata volontà, ecc.). Il che significa che tutta la forza lavoro, in particolare i quadri intermedi, licenziati nel corso delle varie ristrutturazioni aziendali, hanno potuto facilmente riciclarsi in altri lavori, grazie alla dinamica ed alla flessibilità del mercato del lavoro.

Guardando più in dettaglio questo fenomeno, si può verificare però come questo "riciclaggio" avvenga sempre in retromarcia, nel senso che il nuovo lavoro si colloca ad un livello professionale e salariale inferiore: l'ingegnere progettista, il programmatore di software, l'impiegato amministrativo non troveranno più lo stesso impiego presso una diversa società, ma saranno costretti a friggere hamburgers da McDonald's, recapitare giornali, sistemare gli scaffali all'ipermercato,..., al contrario degli azionisti delle aziende così ristrutturate, che vedono invece aumentare a dismisura il valore dei loro titoli.

In una società come quella americana, sembra che questa dinamica venga assorbita con una certa disinvoltura, dal momento che, per tradizione, cambiar lavoro ogni due o tre anni, spostare continuamente la propria residenza, adattarsi a fare lavori diversi è stato sempre considerato come la cosa più naturale di questo mondo. In realtà la situazione attuale è diversa, perché il lavoratore subisce una vera e propria retrocessione professionale ed una sensibile diminuzione del proprio salario, così che non potrà più permettersi di pagare il mutuo per quella casa, non potrà più mandare i figli a quella università, non potrà più frequentare quella cerchia di amici che costituivano il suo entourage professionale. Ma è pur vero che potrà comunque dignitosamente mantenersi con i proventi del proprio onesto lavoro.

Non andiamo oltre su questi aspetti, perché ci porterebbero lontano. Li abbiamo appena evocati per creare il riferimento su cui porre la questione essenziale: cosa accadrà nel tessuto sociale italiano (così diverso da quello americano, e soprattutto nelle condizioni in cui esso è attualmente) quando, a seguito di simili "ristrutturazioni", gli "esuberi" cercheranno di ricollocarsi?

La risposta è semplice e drammatica, anzi è semplicemente drammatica, dal momento che le possibilità di riciclo sono praticamente nulle: aumenterà la percentuale di giovani pensionati e di disoccupati, così come quella dei dediti ad attività illegali o criminali. Non è difficile immaginare come il ragazzotto che per mille lire ti gonfiava le ruote al distributore, quelle stesse ruote venga a rubartele per poi rivenderle, specie in certe zone del Paese, visto che, piaccia o no, un qualche mezzo di sostentamento deve pur trovarselo.

Se la situazione del mondo del lavoro in Italia è così diversa da quella americana, non è solo per tradizioni socioculturali diverse. Negli ultimi anni, mentre gli Stati Uniti abbattevano la disoccupazione sull'onda del reaganismo (pur con i contraccolpi cui abbiamo accennato) con la progressiva riduzione del carico fiscale e la liberalizzazione (peraltro regolamentata) dell'economia, in Italia si procedeva in direzione opposta, con il continuo aumento della tassazione diretta ed indiretta, con limitazioni crescenti alla libertà d'impresa, e con la "guerra" al ceto medio produttivo.

Tutto questo deriva, come noto, dal peso ideologico del Partito Comunista, esercitato in maniera indiretta all'epoca del consociativismo ed apertamente una volta al potere. Il colpo di grazia è stato poi dato dalla folle rincorsa all'EURO di Prodi e del suo superministro dell'Economia, effettuata strozzando gli italiani con le tasse, non pagando i creditori dello Stato e tagliando tutti gli investimenti (si vedano al riguardo gli articoli apparsi su questa rivista ben prima dell'ingresso della lira nell'Euro). Il tutto in un Paese che aveva già un tasso di disoccupazione oltre l'11% .

Ed ora, con una disoccupazione media del 13% e che supera il 30% per aree geografiche e gruppi sociali, con una rigidità del lavoro addirittura crescente, grazie alle 35 ore, alle rappresentanze sindacali anche nelle microimprese, ed altre amenità, i nostri governanti neo-liberal-post-comunisti vorrebbero introdurre di colpo, nell'economia e nella società italiana, metodi "turbocapitalisti" derivati dal modello americano, incuranti del drammatico impatto che ne conseguirebbe!

Abbiamo detto "incuranti", e certamente lo sono, visto che non esitano a sacrificare cinicamente posti di lavoro, pensando in tal modo di accreditarsi come " veri liberal". Ma temiamo non ci sia solo questo. Il fatto che questi governanti abbiano sempre cercato (e trovato) l'appoggio interessato dei grandi Gruppi e delle grandi Famiglie piuttosto che il consenso popolare, per conquistare e mantenere il Potere, ci lascia infatti alquanto perplessi.

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