LA PRIVATIZZAZIONE DELL'ENEL

di Eros Capostagno

La nazionalizzazione

Nel 1964 vennero nazionalizzate le società private che gestivano in Italia la produzione e distribuzione dell'energia elettrica, e che operavano essenzialmente in regime di ripartizione geografica del mercato, più che di concorrenza. La nazionalizzazione condusse alla nascita dell'ENEL e consentì alla SIP (Società Idroelettrica Piemontese) di utilizzare i compensi così ricevuti per acquistare le società private che gestivano la telefonia italiana. Nasceva in questo modo anche il monopolio della telefonia di Stato, visto che la SIP era controllata dallo Stato al 95%.

Erano gli anni che videro la nascita del "centro-sinistra", con l'associazione al Governo democristiano dei socialisti di Nenni e Lombardi: è comprensibile come la nazionalizzazione di questi servizi fosse vista da molti come il prezzo da pagare alle ideologie stataliste e centraliste del Partito Socialista per la sua associazione al Governo del Paese. Erano anche gli anni della "programmazione economica", sostenuta in particolare da Ugo La Malfa, che emanava da una concezione "dirigista" dell'economia nazionale, forse anche per effetto dei mirabolanti risultati dei famosi "piani quinquennali" sovietici, che i Krutchev di turno esponevano.

Logico quindi che da questa convergenza di situazioni, la nazionalizzazione dei due servizi diventasse ineluttabile. In effetti, per la telefonia, essa contribuì non poco alla diffusione capillare del mezzo telefonico ed allo sviluppo delle telecomunicazioni quale oggi lo vediamo.

Per l'energia elettrica, l'importanza della nazionalizzazione andava al di là del semplice sviluppo dei servizi. Si trattava infatti di uno di quei beni "strategici", che coinvolgevano l'intero settore degli approvvigionamenti energetici del Paese ed in definitiva le modalità di sviluppo dell'Italia, essendo chiaro che lo sviluppo economico-industriale (il "boom" economico di quegli anni) non solo dipendeva dalle disponibilità energetiche, ma a sua volta ne determinava un crescente fabbisogno.

Essendo poi l'Italia priva di materie prime ad alto contenuto energetico (carbone, gas e petrolio), ed avendo già sfruttato tutte le risorse naturali (geotermia e bacini idrici), l'approvvigionamento energetico non poteva prescindere dalla situazione geopolitica in cui l'Italia si trovava (guerra fredda, fine del colonialismo, Paesi emergenti). Indipendentemente dalle scelte ideologiche, una strategia unitaria, a direzione governativa, che tenesse conto delle esigenze globali del Paese, sembrava dunque più adatta alla bisogna che non una parcellizzazione di iniziative private. Ecco dunque che nasce l'ENEL, così come già da un pezzo erano nate la Central Electricity Authority in Gran Bretagna e l'EDF in Francia.

I primi 35 anni

Diremo subito che, a differenza della SIP, non ci sembra che l'ENEL abbia acquisito molti meriti in questi 35 anni, vuoi per le scelte strategiche (o mancanza di) dei suoi vertici, vuoi per le lottizzazioni ed i condizionamenti politici di cui è sempre stata oggetto, e relative interconnessioni.

Con l'avvento dell'ENEL e del suo patròn Angelini, venne immediatamente bloccato lo sviluppo dell'energia nucleare in Italia, che era stato avviato con coraggio, e con successo, dalle compagnie private.

Come già più volte evidenziato su questa rivista, l'Edison, l'AGIP e la Senn, tra il 1960 ed il 1964, avevano realizzato ciascuna una centrale nucleare, ponendo di fatto l'Italia al terzo posto nel mondo occidentale per potenza nucleare installata. E' vero che questa scelta non era stata dettata da un piano strategico globale, ma semplicemente dalla "concorrenza" scatenatasi tra i padri-padroni dell'energia, Valerio per l'Edison e Mattei per l'Agip, che volevano rispettivamente l'uno dimostrare la capacità dei privati di assolvere ad impegni tecnici ed economici particolarmente impegnativi, senza bisogno di essere nazionalizzati, l'altro porsi come candidato unico alla gestione dell'energia italiana, in caso di nazionalizzazione. A questi si aggiungeva la società SENN, costituita da aziende parastatali, ed ispirata da Felice Ippolito, Segretario Generale del CNEN, che rivendicava il ruolo fondamentale dello Stato in materia nucleare.

Qualunque ne fosse l'origine, questa situazione condusse alla realizzazione di tre centrali nucleari in tempi record e con standard di qualità notevolissimi (come la loro storia ha dimostrato), anche se di tre "filiere" diverse tra loro, avendo ognuna delle tre società orgogliosamente scelto partners anglo-americani diversi, e quindi tre tecnologie nucleari differenti.

Ebbene, l'ENEL cominciò subito ad operare secondo quello che diverrà il suo standard, scegliendo "di non scegliere", decidendo "di non decidere", con il classico argomento molto italiano della "pausa di riflessione": nel caso specifico, valutare il funzionamento delle tre centrali nucleari suddette, per poter "poi" decidere quale fosse il tipo di centrale migliore e più adatto alle esigenze italiane, da proporre come modello standard per il "Progetto Unificato Nucleare".

Come noto, tale pausa si è praticamente protratta all'infinito, se si eccettuano l'episodio di Caorso e quello (tardivo e tragicomico) di Montalto di Castro. A parziale discolpa, ribadiamo che l'ENEL doveva fare i conti col potere politico, sempre meno interessato alla politica energetica del Paese e sempre più interessato all'ENEL come distributore di appalti: non dimentichiamo come i petrolieri fossero interessati ad un piano di costruzione di centrali elettriche ad olio combustibile ed ostili quindi all'energia elettronucleare, e come fu liquidato Ippolito, padrino del nucleare italiano.

A queste stesse pressioni politiche si deve probabilmente far risalire la decisione di costruire la centrale a carbone del Sulcis, in Sardegna, che probabilmente nessuna società privata avrebbe mai ipotizzato, essendo una follia sul piano tecnico ed economico, per la nota inutilizzabilità del carbone estratto appunto dalle miniere del Sulcis.

Negli anni successivi ci fu poi il Piano Energetico Nazionale (PEN) che, nato sull'emergenza creata dalle crisi energetiche di allora, sembrò aver finalmente fatto aprire gli occhi di ENEL e Governi sulla necessità di elaborare dei piani di approvvigionamento che consentissero al Paese sia di sopportare meglio eventuali crisi esterne che di programmare il proprio futuro di Paese industriale.

Di tutte le chiacchiere del PEN, non si è fatto praticamente nulla se non, guarda caso, i gasdotti con l'URSS e l'Algeria. Della fantasiosa conversione a carbone di otto centrali esistenti e funzionanti ad olio combustibile, se ne è fatta una sola, anche perchè l'ipotizzata necessaria realizzazione di "carbodotti" dalle centrali ai porti carboniferi (inesistenti, e tutti da realizzare), si rivelò ben presto per quello che era, una solenne idiozia; Gioia Tauro sappiamo come è andata; la megacentrale di Brindisi, tra incompiutezze e problemi, è un mezzo fallimento; la centrale solare di Adrano si è rivelata un fiasco tale che nessuno osa più nominarla; della geotermia dei Campi Flegrei nessuno si è mai occupato...

Il risultato è che, mentre la Francia è diventata autosufficiente ed esportatrice di energia elettrica, la dipendenza energetica dell'Italia dall'estero è addirittura cresciuta, ed è totale. Ed ora ci dicono che bisogna sviluppare centrali a turbogas (per arrivare nel 2010 al 60% di elettricità prodotta dal gas e ridurre al 10% quella dall'olio combustibile) per utilizzare quei gasdotti, la cui realizzazione fu decisa non tanto all'interno di un serio piano energetico nazionale, quanto per le laute possibilità di manovrare gli appalti internazionali che essi offrivano.

La fine

Se l'ENEL nulla ha fatto dal lato produzione, anche per le difficoltà frapposte dagli enti e dagli ambientalisti locali alla costruzione di nuovi impianti, dal lato manutenzione e ammodernamento è stato fatto ancor meno, come dimostrato anche dalla recente statistica europea che pone gli Italiani al primo posto per durata delle interruzioni nell'erogazione di energia elettrica.

La cosa è diventata addirittura tragicomica negli ultimissimi anni, con l'occupazione dell'ENEL da parte della sinistra al Governo, che ha portato di fatto l'Ente ad occuparsi di tutt'altro (telefonia, con l'enorme giro di affari che essa permette), lasciando andare alla deriva i suoi compiti istituzionali.

Ecco quindi la privatizzazione dell'ENEL che, imposta da discutibili regole europee (una società non può produrre più del 50% dell'energia elettrica di un Paese), viene realizzata in modo da "dar via" ai privati quelle fastidiose incombenze legate alla produzione (costruzione e manutenzione degli impianti), ma mantenendo per sé ed i propri amici quelle legate alla distribuzione (sarà un caso che le linee aeree di distribuzione possono essere utilizzate anche per la telefonia).

Stiamo dunque assistendo in questi giorni alla vendita di singole centrali alle società appositamente create, costituite essenzialmente dalle principali aziende elettriche più o meno municipalizzate, come AEM e ACEA, e ad altre società minori.

Ora, noi siamo da sempre favorevoli ad un'economia di mercato ed alla libera impresa, come ad una riduzione dell'intervento dello Stato allo stretto indispensabile, convinti che l'iniziativa privata sia più efficace e meno costosa dell'iniziativa statale. In effetti, se guardiamo a cosa erano riuscite a fare le tre società elettriche nel campo dell'energia elettronucleare prima della loro nazionalizzazione, e a quello che (non) ha fatto poi l'ENEL, non dovremmo che essere confortati in questo convincimento ed essere quindi contenti che si torni alla situazione pre-nazionalizzazione, con tante società elettriche private.

Dovremmo, ma non ci riusciamo.

La privatizzazione (o smantellamento che dir si voglia)

Quello che vediamo infatti, è una vendita parcellizzata del parco centrali dell'ENEL a società medie e piccole, e addirittura a Regioni (20 centrali idroelettriche vendute alla Regione Val d'Aosta), che non hanno né la capacità tecnica ed economica, né probabilmente la vocazione ad occuparsi di investimenti in aree geografiche distanti o a promuovere una ricerca tecnologica avanzata. Questo potrebbe essere tanto più penalizzante in particolare per il Sud d'Italia, privo di fonti energetiche, e in una prospettiva di Stato federale quale si va delineando, perché il costo dell'energia non potrà che essere ancora più elevato di quanto sia oggi quello praticato dall'ENEL, con tutte le inevitabili conseguenze sullo sviluppo del Mezzogiorno.

Ci sembra che un Paese, che negli ultimi dieci anni ha subito una drammatica battuta d'arresto nella sua crescita economica e nel suo sviluppo, con la distruzione di un ingente patrimonio di risorse e di ingegno, di tutto abbia bisogno tranne che di una ulteriore dispersione delle sue risorse in campo energetico.

Viceversa, crediamo che sia giunto il momento di ripensare seriamente ad un Piano Energetico Nazionale, che ponga le basi per la ricomposizione delle attività in questo settore, dall'adeguamento degli impianti alla costruzione di nuove unità produttive, alla rinascita della ricerca avanzata. Il tutto in un quadro di coerenza e con chiari obiettivi, anche temporali.

Il programma di ricostruzione materiale del Paese presentato dalla Casa delle Libertà sembra andare in questa direzione. Nel campo dell'energia però, questi obiettivi necessitano, a nostro avviso, di un organismo che definisca operativamente e promuova gli interventi di politica energetica decisi dal Governo. Più che smantellare e parcellizzare l'ENEL, forse sarebbe opportuno rivederne la struttura e prepararlo a quella funzione di guida della politica energetica del Paese, nel momento in cui un'Europa sempre più invadente ci impone di smantellarne la veste di produttore monopolista.

A meno che...

L'asse Roma-Bruxelles

A meno che l'Europa e le lobbies che la guidano non abbiano già deciso il ruolo futuro dell'Italia nel consesso delle Nazioni.

Sin dalla nascita di questa rivista nel 1996, abbiamo paventato questa eventualità, basandoci su una serie di osservazioni che la retorica europeista ha sempre nascosto all'opinione pubblica (la prima discussione in merito è in Britannia, già nel N.3), e non ne rifaremo quindi la storia.

Il dato di fatto è che dal 1992 in poi, l'Italia è stata sottoposta ad un processo di "de-industrializzazione" che ha portato allo smembramento di molte industrie "storiche", che sono sparite o che si sono ridotte al rango di semplici sub-contractors di imprese straniere, mentre il capitale starniero continua a fare man bassa dell'industria italiana.

Non si tratta di sciovinismo o di orgoglio nazionale (sentimenti peraltro rispettabilissimi), ma di qualcosa di ben più tangibile: privarsi di un'indusytria di punta con prodotti ad alto valore aggiunto, come pure dei frutti della ricerca avanzata, per accontentarsi della tradizionale pelletteria o della componentistica per l'industria tedesca, porta a tassi di crescita inferiori e a tassi di disoccupazione superiori a quelli degli altri Paesi europei.

Le conseguenze, che l'Italia purtroppo sta da un pezzo toccando con mano, sono un crollo della bilancia commerciale, un crescente debito pubblico, anche per l'impossibilità di alimentare il sistema pensionistico, ed in definitiva un impoverimento sempre maggiore del Paese (un milione di nuovi poveri in più ogni anno, in questi ultimissimi anni).

L'aspetto raccapricciante è che a questa situazione si è arrivati con la complicità dei vertici del capitalismo italiano e dei responsabili governativi dell'economia italiana: si iniziò con le svalutazioni della lira, che avrebbero permesso al capitale straniero (o italiano proveniente dall'estero) l'acquisto dei gioielli di Stato a prezzi stracciati, e si finì con lo strangolamento economico delle piccole e medie imprese, attraverso il drenaggio fiscale, imposto al Paese per entrare nella moneta unica.

Cosa ci abbiano guadagnato (o pensavano di guadagnarci) i complici italiani, non sappiamo. Quello che vediamo è che il ruolo al quale l'Italia sembra essere stata relegata in Europa, è quello di un Paese senza industria avanzata, semplice meta di turismo e terra di conquista per quei servizi per i quali gli Italiani sono disposti a spendere parecchio, come la telefonia mobile.

In questo quadro, è comprensibile che la mancanza di una politica energetica e lo svuotamento dell'organismo ad essa deputato (l'ENEL) non costituiscano un problema per i nostri governanti, visto oltretutto che sono quegli stessi che avvallarono questo processo di deindustrializzazione nel 1992.

Del resto, se il ruolo dell'Italia deve essere quello anzidetto, non è poi così indispensabile avere una politica energetica!

Saprà la Casa delle Libertà, una volta giunta alla guida del Paese, spezzare questa spirale perversa e ridare all'Italia un volto ed un ruolo più consoni alle sue possibilità? Saprà fare in modo che i destini dell'Italia, pur nel rispetto dei trattati internazionali, vengano decisi da Roma e non dalle lobbies che agiscono tramite Bruxelles e le quinte colonne italiane?

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