Torna alla prima pagina

Osservatorio

sulla giustizia civile

 Quaderno barese 3

a cura di avvocati, magistrati , docenti e operatori di cancelleria del Circondario di Bari

 

 INTRODUZIONE

 

1) Eccoci giunti al terzo appuntamento con la nostra pubblicazione del "Quaderno barese".

Ha scritto Franco Cassano nel suo ultimo lavoro "Il pensiero meridiano" (ed. Laterza, 1966, p. 3): "... il sud è il soggetto del pensiero: esso non deve essere studiato, analizzato e giudicato da un pensiero esterno, ma deve riacquistare la forza per pensarsi da sé, per riconquistare con decisione la propria autonomia".

Nel suo piccolo l’Osservatorio barese sulla giustizia con il "Quaderno barese" vuole offrire un contributo per ricostruire nella nostra realtà un luogo di vita democratica ed un terreno fecondo di crescita di un pensiero giuridico che parta dal Sud.

In quest’ottica l’Osservatorio insieme con l’associazione "Lodovico Mortara" si è molto impegnato in questi mesi per organizzare qui a Bari un convegno nazionale su "Le misure di prevenzione patrimoniali", un tema assai problematico sotto il profilo giuridico e di enorme spessore strategico nella concreta lotta alla criminalità organizzata.

Il convegno si terrà nei giorni 14, 15 e 16 febbraio 1996 presso la Camera di Commercio di Bari e vedrà i più autorevoli studiosi della materia affrontare, per la prima volta tutti insieme, non solo gli aspetti di carattere penale delle misure di prevenzione, ma anche quelli di carattere civile ed amministrativo.

Il convegno sarà presieduto dal Procuratore della d.n.a. dott. Pierluigi Vigna e sarà concluso da una relazione del Presidente della Camera dei Deputati, On. Luciano Violante.

E’ nostra intenzione pubblicare sia gli atti del convegno, sia i provvedimenti più significativi emessi nella materia de qua dalla Sessione Misure di Prevenzione del Tribunale di Bari, allo scopo di creare un circuito comune di conoscenza in dialogo con altre realtà del nostro Paese.

2) Tornando al terzo quaderno esso è strutturato come il secondo: una prima parte è dedicata al processo ordinario di cognizione ed ai problemi sollevati dalla novella, una seconda è dedicata al processo cautelare, una terza, infine, a fattispecie peculiari, rilevanti non solo sotto il profilo tecnico, ma anche sotto quello sociale.

Per la prima volta abbiamo ritenuto di pubblicare anche provvedimenti emessi in altri distretti pugliesi, allo scopo di avere un quadro completo dei vari orientamenti giurisprudenziali in Puglia in virtù della sollecitazione che ci è giunta dalle varie realtà locali.

Questo terzo quaderno è frutto della collaborazione fra docenti, magistrati ed avvocati che con entusiasmo hanno fornito il proprio impegno ed il materiale qui pubblicato.

Nei confronti di tutti costoro l’Osservatorio rivolge i più sentiti ringraziamenti, perché senza il loro contributo il terzo "Quaderno barese" non avrebbe visto la luce.

Un ringraziamento particolare va al dr. Pietro Mastrorilli, che si è occupato della giurisprudenza del Tribunale di Trani.

 

Roberto Savino

Presidente dell’Osservatorio barese

 

SOMMARIO

 Torna all'inizio

 GIURISPRUDENZA

1) NULLITA’ DELL’ATTO DI CITAZIONE

1.1) IL TERMINE A COMPARIRE NEL GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO

- Tribunale di Lecce, 12 gennaio 1996, ord. - G.I. Cigna

Il commento di Barbara Poliseno

1.2) LA NULLITA’ DEL RICORSO NEL RITO DEL LAVORO

- Pretura di Bari, 25 marzo 1996 - Giud. Zecchillo

Il commento di Barbara Poliseno

1.3) L’INOSSERVANZA DEI TERMINI A COMPARIRE O LA MANCANZA DELL’AVVERTIMENTO NEL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO

- Pretura di Lecce; 7 maggio 1996, ord. - Giud. Esposito

Il commento di Barbara Poliseno

1.4) INAMMISSIBILITA’ DELL’OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO PROPOSTA CON ATTO DI CITAZIONE E NON CON RICORSO IN MATERIA LOCATIZIA

- Pretura di Bari, 12 luglio 1996 - Giud. Ruffino

Il commento di Umberto Volpe

2) PRECLUSIONI E DECADENZE

2.1) INAMMISSIBILITA’ RILEVABILE D’UFFICIO DELLA DOMANDA RICONVENZIONALE PROPOSTA TARDIVAMENTE

- Tribunale di Trani, 30 settembre 1996 - G.I. Guaglione

Il commento di Barbara Poliseno

2.2) PRECLUSIONI ISTRUTTORIE

- Pretura di Bari, 4 novembre 1996, ord. - Giud. Ruffino

- Tribunale di Trani, 10 settembre 1996, ord.- G.I. Doronzo

Il commento di Barbara Poliseno

3) ART.180 C.P.C. (UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE).

3.1) UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE, PROVVEDIMENTI SULL’ESECUZIONE DEL DECRETO INGIUNTIVO OPPOSTO E RICHIESTE CAUTELARI.

- Tribunale di Lecce, 9 novembre 1995, ord. - G.I. Positano

- Tribunale di Bari, IV sez., 20 maggio 1996, ord. - G.I. Magaletti

- Tribunale di Taranto, 12 luglio 1996, ord. - G.I. De Marzo

Il commento di Umberto Volpe

3.2.) UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E DECISIONE DELLA CAUSA

- Tribunale di Bari, II sez., 28 luglio 1996, ord.- G.I. Cassano

- Pretura di Lecce, 9 aprile 1996, ord.- Giudice Esposito

Il commento di Umberto Volpe

4) CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO

4.1) DIFFERIMENTO DELL’UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E CHIAMATA DEL TERZO

- Tribunale di Lecce, 16 gennaio 1996, ord.- G.I. Cigna

Il commento di Barbara Poliseno

4.2) ATTORE E CONVENUTO NELL’OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO E CHIAMATA DEL TERZO

- Tribunale di Trani, 15 gennaio 1996, ord. - G.I. Doronzo

Il commento di Marialaura Spada

5) PROVVEDIMENTI ANTICIPATORII DI CONDANNA

5.1) ORDINANZA EX ART. 186BIS C.P.C. E CONTESTAZIONE PRETESTUOSA.

- Tribunale di Bari, II sez., 12 giugno 1996, ord. - G.I. Labellarte

5.2) ISTANZA DI INGIUNZIONE EX ART. 186TER C.P.C. E GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO .

- Tribunale di Bari; II sez., 25 settembre 1996 - G.I. Labellarte

Il commento di Marialaura Spada

6) ORDINANZA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA DELL’ ISTRUZIONE

CASI DI INNAMMISSIBILITA’ DELL’ORDINANZA EX ART. 186QUATER C.P.C.

- Tribunale di Lecce, 22 luglio 1995, ord.- G.I. Positano

- Pretura di Bari, 14 giugno 1996, ord. - Giud. Ruffino

- Tribunale di Trani, 26 aprile 1996, ord. - G.I. Di Leo

- Tribunale di Taranto, 6 luglio 1996, ord. - G.I. Ciquera

- Tribunale di Bari, II sez., 6 settembre 1996, ord. - G.I. Cassano

Il commento di Domenico Dalfino

7) DISCIPLINA TRANSITORIA E DIRITTO INTERTEMPORALE

7.1) CAUSE VECCHIE - CAUSE NUOVE: AMMISSIBILITÀ DEL SIMULTANEUS PROCESSUS E RITO PREVALENTE

- Tribunale di Bari, III sez., 8 luglio 1996, ord.- G.I. Lofoco

- Tribunale di Trani, 15 maggio 1996, ord. - G.I. Mastrorilli

- Tribunale di Foggia, 22 gennaio 1996, ord. - G.I. Savasta

- Tribunale di Lecce, 11 ottobre 1995, ord. - G.I. Cigna

Il commento di Domenico Dalfino

7.2) LA SOSPENSIONE NEL GIUDIZIO D'APPELLO DELL’ESECUZIONE PROVVISORIA DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO, EX ART. 351 C.P.C., TRA CONSIGLIERE ISTRUTTORE E COLLEGIO

- Corte d’appello di Lecce, 2 maggio 1996, ord. - Collegio

- Corte d’appello di Bari, 4 novembre 1996, decr. - Pres. Passarelli

Il commento di Umberto Volpe

8) IL PROCESSO CAUTELARE

8.1) OBBLIGO DI SPECIFICAZIONE NELL’ISTANZA CAUTELARE DELLA DOMANDA DI MERITO

- Tribunale di Bari, IV sez., 3 giugno 1996, ord. - G.D. Magaletti

- Tribunale di Bari, IV sez., 25 settembre, ord. - Collegio

Il commento di Maria Laura Spada

8.2) COMPATIBILITA’ DELLA DISCIPLINA CAUTELARE UNIFORME CON LE LEGGI SPECIALI (R.D. 1127/1939 e L. 633/1941)

- Tribunale di Lecce, 21 giugno 1995, ord. - G.D. Positano

- Tribunale di Bari, IV sez., 12 luglio 1995, ord. - Collegio

Il commento di Maria Laura Spada

8.3) INAPPLICABILITA’ DELL’ART. 669QUINQUIES C.P.C. IN IPOTESI DI CLAUSOLA COMPROMISSORIA PER ARBITRATO IRRITUALE

- Tribunale di Bari, IV sez., 22 gennaio 1996, ord. - Collegio

Il commento di Maria Laura Spada

9) APPLICAZIONI DELL’ART. 700 C.P.C.

9.1) ORDINE DI ESIBIZIONE DI DOCUMENTAZIONE BANCARIA

- Tribunale di Trani, 26 aprile 1996, ord. - G.D. Pica

Il commento di Maria Laura Spada

9.2) GARANZIA BANCARIA A PRIMA RICHIESTA

- Tribunale di Bari, II sez., 29 maggio 1996, decr. - G.D. Cassano

Il commento di Domenico Dalfino

9.3) CANCELLAZIONE DI PROTESTO DI ASSEGNO BANCARIO

- Pretura di Matera, 24 maggio 1996, ord. - Giud. Spagnolo

Il commento di Domenico Dalfino

9.4) TUTELA DEI SEGNI DISTINTIVI E DIRITTO ALL’UTILIZZAZIONE DI DOMINII INTERNET

- Tribunale di Bari, IV sez., 23 luglio 1996, ord. - G.D. Magaletti

Il commento di Umberto Volpe

10) NOVELLA E GIUDIZI FALLIMENTARI

GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE ALLO STATO PASSIVO EX ART. 98 L.F. e INAPPLICABILITA’ DEGLI ARTT. 166 E SEGG. C.P.C.

- Tribunale di Bari, IV sez., 27 maggio 1996, ord. - G.I. Magaletti

Il commento di Umberto Volpe

11) FATTISPECIE PECULIARI

11.1) ACQUISIBILITA’ NEL PROCESSO CIVILE DI PROVE ASSUNTE NEL PROCESSO PENALE (ART. 238 C.P.P., UN PRINCIPIO DI ORDINE GENERALE?)

- Tribunale di Lecce, 5 luglio 1996, ord. - G.I. Gaeta

11.2) EFFICACIA PROBATORIA DELL’ESTRATTO CONTO BANCARIO IN RELAZIONE AL SUO EFFETTIVO CONTENUTO

- Pretura di Bari, 30 aprile 1996, - Giud. Ruffino

11.3) AFFITTO DI AZIENDA, SUCCESSIVA CESSIONE, CANONI FUTURI: INAMMISSIBILITA’ DELLA TUTELA D’URGENZA EX ART. 700 C.P.C.

- Tribunale di Bari, II sez., 20 luglio1996, - G.D. Scoditti

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Nullità dell’atto di citazione

Torna all'indice

1.1) IL TERMINE A COMPARIRE NEL giudizio DI OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO

Tribunale di Lecce, 12 gennaio 1996, ord. - G.I. Cigna - Calcagnile c. Credito romagnolo

 

Allorché l’opponente non abbia espressamente chiesto di usufruire della riduzione alla metà dei termini di comparizione, pur assegnandone uno inferiore a quello previsto dalla legge, l’atto introduttivo è nullo per inosservanza del termine minimo a comparire.

 

...Omissis...

considerato che il dimezzamento dei termini di comparizione previsto, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, dall’art. 645 c.p.c. costituisce una mera facoltà dell’opponente; che, in mancanza di espressa richiesta, non può ritenersi (con la necessaria certezza) che l’opponente, citando con atto notificato il 30. 05. 95 per l’udienza del 15. 07. 95, abbia voluto usufruire di tale facoltà; che, pertanto, va ritenuto che l’opponente abbia citato per la detta udienza non rispettando l’ordinario termine minimo a comparire di cui all’art. 163 bis; che siffatto vizio è stato sanato dall’atto di rinnovazione della citazione, notificato in data 17. 10. 95, per l’udienza del 9. 01. 96 e, quindi, nel rispetto dei termini minimi a comparire (e indipendentemente dalla circostanza che la predetta rinnovazione era stata disposta per sanare altro vizio della citazione, e cioè la mancanza in essa dell’avvertimento previsto dall’art. 163 n. 7); che tale rinnovazione sana, ai sensi dell’art. 164, 2° co., c.p.c., i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione;

...Omissis...

ritenuta regolare la instaurazione del contraddittorio, fissa la prima udienza di trattazione

...Omissis...

assegnando al convenuto termine di 20 giorni prima di detta udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.

IL COMMENTO

di Barbara Poliseno

1.- Ai sensi dell’art. 645, 2° co., c.p.c., l’opposizione a decreto ingiuntivo si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; tuttavia, quale peculiarità della procedura monitoria, il legislatore del 1950 ha previsto che "i termini di comparizione siano ridotti alla metà".

La riduzione dei termini di comparizione ordinari, previsti dall’art. 163 bis c.p.c., ha, secondo dottrina e giurisprudenza dominanti, carattere facoltativo: o l’opponente si avvale di tale disposizione ovvero assegna al convenuto il termine ordinario di comparizione o addirittura uno maggiore.

Peraltro, un’autorevole voce contraria ha ritenuto che il termine dimidiato si sostituisca ipso iure al termine ordinario di cui all’art. 163 bis, c.p.c.; e, pertanto, anche nell’ipotesi in cui l’opponente non dichiari di voler usufruire della riduzione del termine ex art. 645 c.p.c., (per es., indichi nell’atto di citazione l’udienza di comparizione a più di 60 giorni), il termine di comparizione sarà automaticamente ridotto alla metà.

Il contrasto nasce dalla considerazione che l’opinione dominante, secondo cui la dimidiazione del termine sarebbe puramente facoltativa, trascurerebbe "arbitrariamente" il dettato normativo "alternativamente trasformando la disposizione contenuta nell’ultima parte dell’art. 645 in uno strumento per la tutela del solo (eventuale) interesse del debitore ingiunto, ovvero contraddittoriamente consentendo l’anticipazione, da parte del presidente, dell’udienza di comparizione delle parti ad una data calcolata in base ad un termine di comparizione ridotto alla metà, ancorché nella citazione in opposizione l’intimato abbia optato per l’assegnazione di un termine superiore a quello dell’art. 163 bis".

Tuttavia per poter aderire all’una o all’altra tesi, è necessario considerare ogni singola fattispecie che, potrebbe, in concreto, verificarsi:

- può infatti accadere che il debitore ingiunto chieda espressamente (nell’atto di opposizione) di voler usufruire della riduzione del termine: e allora nulla quaestio, il termine risulterà dimidiato a norma dell’art. 645, 2° co., ultima parte;

- può anche avvenire che dichiari espressamente di non voler usufruire del termine ridotto alla metà, assegnando al convenuto il termine ordinario di comparizione ex art. 163 bis o anche uno maggiore;

- può altresì accadere che, come nella fattispecie in esame, senza alcuna particolare richiesta, l’opponente assegni un termine a comparire ridotto alla metà ex art. 645, 2° co., ovvero, ancora, che ne assegni uno intero ex art. 163 bis o anche uno maggiore.

Nel primo caso può, in effetti, funzionare la sostituzione ipso iure del termine dimidiato al termine intero di cui all’art. 163 bis (come nel secondo, l’assegnazione del termine ordinario di comparizione implicherebbe che il debitore ingiunto abbia, in sostanza, scelto di non usufruire del termine ridotto), escludendosi, pertanto, la nullità dell’atto di citazione per l’assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge.

Invero la formula legislativa secondo cui "in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario ...; ma i termini sono ridotti alla metà", potrebbe essere letta nel senso che al debitore ingiunto è, senz’altro, attribuita la facoltà di scegliere quale termine a comparire assegnare, ma la scelta può essere effettuata vuoi in forma espressa (nell’atto di citazione), vuoi implicitamente, optando per l’assegnazione dell’uno o dell’altro termine a comparire.

Se l’opponente si avvale della facoltà di ridurre alla metà il termine per la comparizione dell’opposto, e solo in questo caso, anche i termini per la costituzione risulteranno dimidiati, pertanto l’opponente sarà tenuto, a pena di improcedibilità della opposizione, ai sensi dell’art. 647 c.p.c., a costituirsi nel termine di cinque (non già di dieci) giorni, successivi alla notificazione dell’atto introduttivo, e l’opposto potrà costituirsi nel termine di dieci (e non già di venti) giorni prima dell’udienza fissata in citazione.

Se, peraltro il giudice istruttore, differisca ex art. 168 bis, 5° comma, la data dell’udienza di prima comparizione, si reputa corretta la soluzione secondo cui il termine di costituzione per il convenuto torna ad essere quello di venti giorni prima dell’udienza fissata dal giudice, fermo restando, tuttavia il termine di costituzione di cinque giorni per l’attore, "con esclusione, quindi, di ogni sanatoria dell’eventuale inammissibilità dell’opposizione per essersi costui costituito, al di là dei cinque giorni di cui all’art. 165 c.p.c. ...".

 

2.- La riduzione del termine a comparire prevista dall’art. 645, 2° co., seconda parte, soddisfa, si è detto, l’interesse del debitore ingiunto ad accelerare l’eventuale riforma del decreto opposto.

Anche l’art. 163 bis, 2° co., tuttavia, prevede, che, nelle ipotesi in cui, a discrezione del giudice, sussistano in concreto, particolari ragioni di urgenza ("nelle cause che richiedono pronta spedizione") "il presidente può, su istanza dell’attore..., abbreviare fino alla metà i termini indicati dal primo comma".

La ratio che giustifica le due norme è senza dubbio diversa, in quanto nel primo caso "sarebbe riconducibile alla peculiarità della fattispecie processuale di opposizione all’ingiunzione, in cui entrambe le parti hanno già avuto modo di presentare i propri argomenti e non vi è più ragione di differire l’istruzione della causa", nel secondo sarebbe invece riconducibile a ragioni di particolare necessità ed urgenza dovute al caso concreto prospettato al giudice.

Tale diversità ha indotto parte della dottrina e della giurisprudenza ad affermarne la contemporanea applicabilità.

Sennonché la soluzione prospettata, favorevole al "cumulo delle riduzioni", si fonda, su ulteriori argomenti.

Innanzitutto, l’art. 645 richiama le norme dettate per il procedimento ordinario: e dunque - si è detto - "non può ritenersi fuori gioco" l’art. 163 bis, 2° co., "sol perché l’ultima parte dell’art. 645 si occupa dei termini a comparire"; ma poi, le due riduzioni dei termini sono tra loro assolutamente compatibili, né la loro contemporanea applicazione comporterebbe violazione alcuna del diritto alla difesa, "tant’è che ..., il cumulo delle stesse era espressamente previsto in materia di giudizio dinanzi al pretore e al conciliatore", prima della nuova formulazione.

Tuttavia l’orientamento opposto alla soluzione appena prospettata esclude che un termine già dimidiato a norma dell’art. 645, 2° co., possa essere ulteriormente ridotto a norma dell’art. 163 bis, 2° co.: detto termine è invero inderogabile e minimo; e, se è indubbio che l’art. 645 richiama le norme del procedimento ordinario (il che consentirebbe di ridurre il termine già dimidiato ex art. 645), è altresì vero che tale disposizione "è norma speciale che si pone come derogatoria rispetto al rito ordinario e non potrebbe ritenersi un’ulteriore deroga proprio in base alle norme di detto procedimento ordinario".

Per di più, si è detto, l’art. 645, 2° co., introduce "uno speciale termine fisso (minimo), giustificato dalla specialità del procedimento d’ingiunzione e derogatorio di quello ex art. 163 bis, senza alcuna previsione che in caso di necessità ed urgenza possa invocarsi una ulteriore dimidiazione del termine di comparizione speciale ex lege stabilito in tema di opposizione".

3.- E’ controverso se l’art. 645 debba applicarsi anche alle opposizioni contro i decreti ingiuntivi pronunciati dal pretore o dal giudice di pace.

Nessun dubbio dovrebbe sorgere per quanto attiene ai termini di comparizione dinanzi al pretore: per la portata generale dell’art. 645 non v’è ragione di escluderne l’applicabilità nei giudizi pretorili.

La questione sorge invece per i procedimenti monitori instaurati dinanzi al giudice di pace.

L’art. 318 novellato, prevede che "tra il giorno della notificazione di cui all’art. 316 e quello della comparizione devono intercorrere termini liberi non minori di quelli previsti dall’art. 163 bis, ridotti alla metà". La questione affrontata nel paragrafo che precede, in sostanza, si ripropone, anche se, in un certo senso, capovolta.

Il dibattito - si è detto - verteva sulla possibilità o meno di ridurre ulteriormente per effetto dell’art. 163 bis, il termine di comparizione già dimidiato ex art. 645. Si tratta, ora, di verificare se un termine di comparizione già ope legis dimidiato ex art. 318 possa essere ulteriormente ridotto per effetto dell’art. 645.

Sennonché "l’inderogabilità dei termini di comparizione di cui all’art. 318" ha indotto parte della dottrina a ritenere che i detti termini non siano ulteriormente riducibili per effetto dell’art. 645.

Peraltro la dottrina favorevole alla compatibilità degli art. 163 bis, 2° co. e 645, non sembra essere della stessa opinione laddove ha ritenuto che, come, nella previgente formulazione dell’art. 313 c.p.c., i termini a comparire per i giudizi pretorili e per quelli dinanzi al conciliatore, ridotti alla metà, potevano essere ulteriormente dimidiati, così anche l’art. 318, 2° co., come riformulato dalla l. 353/90 e dalla 374/91, deve essere letto nel senso che la riduzione alla metà dei termini di comparizione dinanzi al giudice di pace, non esclude il provvedimento di ulteriore abbreviazione dei termini per motivate ragioni di urgenza ex art. 163 bis, 2° co.

La riduzione alla metà del termine a comparire è esclusa nei giudizi di appello contro la sentenza, che abbia deciso nel merito l’opposizione del debitore ingiunto, come nei giudizi di legittimità e di rinvio.

Controversa è l’applicazione dell’art. 645, 2° co., per i crediti di lavoro sottoposti alla disciplina processuale di cui all’art. 409 ss. c.p.c.

V’è in dottrina chi ritiene che la locuzione "termini di comparizione" di cui all’art. 645 cpv. c.p.c., debba interpretarsi come riferita ai soli casi in cui questi sono fissati dalla parte; in altre parole, il dimezzamento del termine, che risponde all’esigenza specifica del debitore ingiunto di affrettare i tempi di un giudizio in cui le parti hanno peraltro già avuto modo di presentare le loro ragioni, non potrebbe essere disposto dal giudice al momento della fissazione dell’udienza in quei procedimenti che iniziano con ricorso in opposizione ad un provvedimento monitorio già concesso.

Sennonché "non manca chi valuta criticamente la "disapplicazione" dell’art. 645, 2° comma, nella materia de qua".

L’ambito di applicazione dell’art. 645 cpv. c.p.c., è senza dubbio limitato, atteso che le norme sul procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo non sono suscettibili di applicazione analogica, data la particolare specialità che le contraddistingue: si è ad esempio escluso che in materia di opposizione ad ingiunzione doganale, quale disciplinata dall’art. 82 d.p.r. 23 gennaio 1973, alle norme sul processo di cognizione ad essa integralmente applicabili, salvo diversa disposizione normativa, potesse essere affiancata, pena la nullità dell’atto di citazione, sanabile solo con effetti ex nunc dalla costituzione del convenuto, la riduzione alla metà del termine a comparire ex art. 645 cpv..

 

4.- L’assegnazione del termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge, comporta la nullità dell’atto di opposizione ex art. 164, 1° co. (norma invero applicabile in forza del richiamo normativo ex art. 645 alle norme del procedimento ordinario).

Sennonché, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, se l’opponente assegna un termine a comparire inferiore ai sessanta giorni previsto dall’art. 163 bis , 1° co., la nullità dell’atto introduttivo non è del tutto automatica.

E’ possibile infatti, che l’opponente, assegnando un termine a comparire inferiore a quello previsto dalla legge, abbia implicitamente voluto usufruire del termine a comparire dimoiato ex art. 645, senza una particolare richiesta.

In questa ipotesi, dedurne la nullità, come nel provvedimento in epigrafe, è contrario alla ratio della norma, che è tesa a soddisfare l’interesse del debitore ingiunto ad accelerare l’eventuale riforma di un provvedimento giurisdizionale concesso, senza contraddittorio, nei suoi confronti.

E’ indubbio che la nullità dell’atto introduttivo per l’inosservanza del termine a comparire in mancanza di una espressa richiesta dovrebbe per forza di cose escludersi, laddove si accolga le tesi per cui il termine dimidiato si sostituisce ipso iure al termine ordinario.

Ma è altrettanto vero che anche laddove la riduzione alla metà del termine di comparizione costituisca una facoltà dell’opponente, non è rilevante, ai fini della validità dell’atto, verificare "con la necessaria certezza che l’opponente citando con atto notificato il 30 maggio 1995, per l’udienza del 15 luglio 1995", , abbia effettivamente voluto usufruire di tale facoltà; anche qualora l’opponente non abbia, nel "suo interno volere", ritenuto di usufruire di tale facoltà, egli non decade dal diritto di esercitarla in forza dell’art. 345, per il quale sic et simpliciter "i termini sono ridotti alla metà".

Nulla esclude, tuttavia, che l’atto di citazione sia comunque nullo perché sia stato assegnato un termine di comparizione, inferiore a quello dell’art. 163 bis, ridotto alla metà: non vi sarebbe, peraltro, alcuna nullità laddove si aderisse a quell’orientamento secondo cui il termine già dimidiato ex art. 645 possa essere ulteriormente ridotto ex art. 163 bis 2° co; tuttavia anche in questo caso, si potrebbe verificare l’ipotesi in cui l’attore non abbia provveduto all’istanza ex art. 163 bis, 2° co., e il termine assegnato, già dimidiato ex art. 645, sia addirittura inferiore.

Alla citazione in opposizione quale "atto di insolita vocatio in jus, si applica" si è detto, "il contenuto dispositivo degli art. 163 e 164 previsto per la vocatio in jus vera e propria".

Cosicché per il combinato disposto degli art. 645 e 164, per l’inosservanza del termine minimo di comparizione l’atto introduttivo in opposizione è nullo; la nullità è, oggi, tuttavia sanabile ex tunc, ovvero dal momento della notifica del ricorso e del decreto ingiuntivo.

La questione, dunque, ha perso buona parte della sua rilevanza, perché, in ogni caso, l’insufficienza dei termini a comparire non incide sulla proponibilità della opposizione.

La sanzione della nullità sopravvive, tuttavia, soltanto per i giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995; per quei processi la nullità rilevabile d’ufficio, può essere sanata, ma solo ex nunc, ovvero con salvezza dei diritti quesiti, dalla costituzione dell’opposto, cioè con la inammissibilità della opposizione.

Nessuna sanatoria, infine, appare possibile nel caso in cui l’opponente non si sia costituito in termini: come si è rilevato, la dimidiazione dei termini di comparizione implica anche quelli di costituzione e la costituzione tardiva dell’opponente determina l’improcedibilità della opposizione, ai sensi del richiamato art. 647 c.p.c.: nel nuovo sistema la nullità dell’atto, per quanto riguarda i vizi inerenti la vocatio in jus, finisce con l’essere priva di conseguenze, mentre la costituzione tardiva resta una causa di improcedibilità.

 

  1. Nullità dell’atto di citazione

Torna all'indice

1.2) LA NULLITA’ DEL RICORSO NEL RITO DEL LAVORO

Pretura di Bari, sez. lavoro, 25 marzo 1996 - Giud. Zecchillo - Sabino c. Ferrovie dello Stato - Società Trasporti e Servizi per Azioni

 

Non è applicabile al rito del lavoro, perché incompatibile con le esigenze di celerità, semplificazione e concentrazione dello stesso, la norma generale sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione, nella parte in cui prevede la nullità dell’atto perché è omesso o assolutamente incerto l’oggetto della domanda ovvero perché manca l’esposizione dei fatti

 

...Omissis...

Nel rito del lavoro per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio è necessario che siano del tutto omessi, oppure risultino assolutamente incerti, sulla base dell’esame complessivo dell’atto, il petitum sotto il profilo sostanziale e procedurale (bene della vita richiesto e provvedimento giudiziale) nonché le ragioni poste a fondamento della domanda (cfr. Cass. civ. sez. lav., 30.12 1994 n. 11318).

Nel caso in esame il ricorso non contiene elementi sufficienti per l’individuazione delle redette ragioni e, in particolare, la prospettazione concreta e specifica del nesso di causalità tra l’attività svolta e lo stato morboso denunciato in relazione alla esposizione al rischio specifico ovvero aggravato dall’attività lavorativa svolta dal dipendente e alla sua idoneità causale alla determinazione dell’evento morboso, soprattutto quando, come nella specie, si è alla presenza di una malattia a genesi multifattoriale.

Non è applicabile nel processo del lavoro l’art. 164, commi 4°, 5° e 6°, c.p.c., così come sostituito dall’art. 9 della 26 novembre 1990 n. 353, che dispone: "La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel n. 3) dell’art. 163 ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al n. 4) dello stesso articolo. Il giudice, rilevata la nullità ai sensi del comma precedente, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si è costituito, per integrare la domanda. restano ferme le decadenze maturare e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione.

Nel caso di integrazione della domanda, il giudice fissa l’udienza ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 183 e si applica l’art. 167".

Le ragioni di tale esclusione, alla luce delle esigenze di celerità, semplificazione e concentrazione che ispirano la disciplina del nuovo rito del lavoro, nonché del divieto do frazionarne, se non nei casi tassativamente indicati dalla legge, l’espletamento in fasi processuali successive, risiedono principalmente nella incompatibilità della "fissazione dell’udienza ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 183", e cioè "l’udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184" (deduzioni istruttorie), e nella incompatibilità del richiamo all’art. 167 c.p.c., che presuppone il diritto del convenuto alla riproposizione, in relazione all’avvenuta integrazione della domanda, della comparsa di risposta, e tutto ciò in considerazione delle preclusioni di natura decadenziale che informano il peculiare procedimento in questione.

In ogni caso, nella specie, la nullità non discende solo dall’omissione dell’esposizione dei fatti sui quali si fonda la domanda, ma, soprattutto, dall’omissione dell’esposizione degli elementi di diritto. In particolare, manca la specificazione delle mansioni in concreto svolte dal ricorrente in relazione al profilo processuale di "operaio qualificato" indicato e vieppiù la specificazione degli elementi causativi della denunciata malattia professionale, anche al fine di escludere l’incidenza di fattori extralavorativi.

Pertanto deve dichiararsi la nullità del ricorso.

...Omissis...

IL COMMENTO

di Barbara Poliseno

In assenza di una disciplina ad hoc sulla nullità del ricorso introduttivo nel rito del lavoro, la questione affrontata dal provvedimento in epigrafe riguarda la possibilità di sopperire a tale lacuna usufruendo, in via di applicazione analogica, della norma generale sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione.

Secondo il provvedimento in epigrafe, l’art. 164 c.p.c. non è applicabile al rito del lavoro, perché incompatibile con le esigenze di celerità, semplificazione dello stesso, nella parte in cui prevede la nullità dell’atto di citazione perché è omesso o assolutamente incerto l’oggetto della domanda ovvero perché manca l’esposizione dei fatti.

Questa soluzione ha trovato qualche consenso in dottrina: si è infatti sostenuto che non possa "operare nel rito del lavoro quel meccanismo" di rinnovazione ovvero di integrazione dell’atto introduttivo "che nel rito ordinario consente - sia pure con salvezza dei diritti anteriormente quesiti dal convenuto - la prosecuzione del processo nonostante l’iniziale invalidità dell’atto di citazione: quel meccanismo, infatti, presuppone una struttura del processo non solo articolato in più udienze, ma anche tale da prevedere una successiva integrazione degli atti iniziali, laddove il rito del lavoro è costruito sul presupposto della totale completezza degli atti iniziali e, quindi, sulla possibilità del suo esaurimento in un’unica udienza".

In senso contrario, per l’applicabilità dell’art. 164 c.p.c. al rito del lavoro, può argomentarsi che:

- in generale, la disciplina processuale per le controversie in materia di lavoro costituisce il titolo IV, del libro II del codice di procedura civile; questa disciplina pertanto segue il procedimento di cognizione davanti al tribunale (titolo I), il procedimento davanti al pretore e al giudice di pace (titolo II) nonché la disciplina sulle impugnazioni (titolo III).

La esposta collocazione della disciplina processuale per le controversie individuali di lavoro nell’ambito del codice di rito assume un particolare rilievo nella considerazione che il processo del lavoro "rappresenta nel nostro ordinamento uno dei modelli o schemi, della ordinaria tutela giurisdizionale dei diritti nella fase della cognizione giudiziale": non si tratta, dunque, di uno speciale processo "a se stante ed avulso da ogni altro previsto ordinariamente dalla legge", ma "di uno dei possibili processi ordinari di cognizione, caratterizzato da alcune deviazioni e particolarità rispetto a quello svolgentesi innanzi al tribunale in considerazione del suo oggetto";

- il fatto che la disciplina relativa al procedimento innanzi al tribunale abbia una portata generale e non circoscritta alla fase di tribunale può facilmente desumersi da una fondamentale norma di rinvio, qual è l’art. 311: "il procedimento davanti al pretore e al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale, in quanto applicabili".

Si è autorevolmente sostenuto in dottrina che, poiché le norme per le controversie individuali di lavoro "sono certo quelle espresse disposizioni" di cui all’art. 311, saranno applicabili al procedimento per le stesse controversie nonché per quelle in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, non solo le norme generali contenute nel libro primo del codice, ma anche le norme relative al procedimento innanzi al tribunale, "per tutto ciò che non sia espressamente regolato dagli art. 409 ss. e non sia incompatibile con essi";

- la novella del 1990 ha reso assai più vicini il rito ordinario e quello del lavoro, proprio al fine di uniformare maggiormente il primo all’esigenza della concentrazione e speditezza del processo propri del secondo; il processo ordinario di cognizione è stato, in un certo senso, rimodellato sulle orme della riforma del rito del lavoro del 1973, accogliendone, almeno in parte, il sistema preclusivo, la concentrazione, la speditezza processuale.

Anche la nuova disciplina sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione è frutto di un ripensamento critico della dottrina nei confronti del vecchio testo dell’art. 164, proprio in virtù della distinzione che nel rito del lavoro si percepisce con maggiore evidenza fra editio actionis e vocatio in ius: la prima, che si identifica con l’atto di esercizio dell’azione, è realizzata dal ricorso, mentre la seconda, che si identifica con gli atti di attivazione del contraddittorio, è realizzata dal decreto di fissazione dell’udienza di discussione, notificato insieme al ricorso, al convenuto su iniziativa dell’attore .

Proprio questa distinzione ha illuminato la dottrina inducendola a ripensare l’art. 164 che nel previgente testo riuniva in unico calderone tanto i vizi relativi alla vocatio in ius tanto i vizi relativi alla editio actionis, tutti accomunati da uno stesso destino: rilevata la nullità dell’atto di citazione e disposta la rinnovazione, restavano, in entrambi casi, salvi i diritti anteriormente quesiti dal convenuto.

Il novellato testo dell’art. 164, invero, distingue le nullità relative alla vocatio in ius (che permette il contraddittorio ed un effettivo esercizio del diritto di difesa) e le nullità relative alla editio actionis (che mira a costituire il contraddittorio, al fine di dare inizio al processo): poiché sono diversi gli scopi per cui queste nullità sono stabilite, sono anche diversi gli effetti della invalidità dell’atto di citazione derivante dalla mancanza di uno o dell’altro dei requisiti essenziali: nel primo caso l’eventuale sanatoria avrà effetti ex tunc, ovvero sin dal momento della prima notificazione, nel secondo invece l’eventuale sanatoria avrà effetti solo ex nunc, ovvero dalla rinnovazione o integrazione dell’atto.

Se la disciplina sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione è stata riformulata sulle linee di guida del rito del lavoro, non sembra si possa escludere per questo e per le ragioni sopra esposte, che al rito del lavoro possa per analogia applicarsi l’art. 164, nelle ipotesi in cui sia nullo il ricorso introduttivo.

Sennonché, con specifico riferimento al caso deciso, la questione, comunque meritevole di attenzione, non era rilevante: il processo era già pendente alla data del 30 aprile 1995, mentre la nuova disciplina sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione è applicabile ai soli giudizi iniziati dopo il 30 aprile 1995, non anche a quelli pendenti a tale data.

 

  1. Nullità dell’atto di citazione

Torna all'indice

1.3) L’INOSSERVANZA DEI TERMINI A COMPARIRE O LA MANCANZA DELL’AVVERTIMENTO NEL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO

Pretura di Lecce, 7 maggio 1996, ord. - Giud. Esposito - IACP c. Music Team

 

Allorché l’intimato nel procedimento per convalida di sfratto deduca l’inosservanza dei termini minimi a comparire o la mancanza dell’avvertimento previsto dalla disciplina speciale, il giudice dovrà comunque fissare una nuova udienza di comparizione nel rispetto dei termini in base alla norma generale sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione

 

...Omissis...

rilevato che l’art. 660, 3° co., c.p.c., come novellato dalla legge n. 534/95, prevede che la citazione per la convalida debba contenere, in luogo dell’invito e dell’avvertimento di cui all’art. 163, 3° co., n. 7, c.p.c., l’invito a comparire all’udienza e l’avvertimento al convenuto che, in caso di mancata comparizione o opposizione, si procederà alla convalida; considerato che la notifica della citazione è successiva alla entrata in vigore della legge richiamata; ritenuto che il regime dell’avvertimento ex art. 660, 3° co., è, per espresso richiamo legislativo, quello previsto per l’avvertimento ex art. 163, 3° co., n. 7 con riferimento al giudizio ordinario di cognizione, e ciò per quanto attiene alla rilevanza con riguardo alla nullità dell’atto; visto l’art. 164, 3° co., c.p.c.; fissa la nuova udienza di prima comparizione

IL COMMENTO

di Barbara Poliseno

Già la decretazione d’urgenza dei mesi estivi (D.L. 21 giugno 1995 n. 238) aveva modificato il testo dell’art. 660, 1° co., c.p.c., limitandosi ad affermare che "i termini a comparire sono ridotti di due terzi".

Tale disciplina, reiterata nei decreti di agosto e di ottobre (rispettivamente con il D.L. 347/95 e con il D.L. 432/95), è ora contenuta nella legge 20 dicembre 1995 n. 534, che ha fatto salvi gli atti compiuti nella vigenza dei decreti non convertiti.

La legge di conversione, tuttavia, ha modificato ancora l’art. 660 c.p.c.

Il previgente testo della disposizione in esame si limitava a dettare speciali regole sulle notificazioni, cosicché la rubrica ("forma dell’intimazione") non ne rispecchiava il contenuto; colmando la lacuna, l’articolo novellato detta, ora, oltre alla disciplina preesistente, una specifica disciplina sulla "forma dell’intimazione", ovvero sull’effettivo contenuto dell’atto di citazione per la convalida.

Tra il secondo e terzo comma il legislatore ne ha inseriti altri quattro, il primo dei quali dispone che la citazione debba redigersi a norma dell’art. 125 c.p.c.: essa pertanto deve contenere, oltre alla indicazione delle parti e del giudice, anche il petitum e la causa petendi, negli stessi termini dell’atto introduttivo nell’ordinario processo di cognizione, ai sensi dell’art. 163 c.p.c.

Peraltro, prevede l’art. 660, 3° co., che "in luogo dell’invito e dell’avvertimento al convenuto previsti nell’articolo 163, terzo comma numero 7)", la citazione per la convalida "deve contenere, con l’invito a comparire nell’udienza indicata, l’avvertimento che se non comparisce o, comparendo, non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto ai sensi dell’articolo 663", senza pertanto incorrere nelle decadenze di cui all’art. 167, qualora l’intimato non si costituisca nel rispetto dei termini previsti dall’art. 166.

Sennonché, si è detto, "il legislatore della l. 534/95 ha avallato l’idea che la citazione per convalida sia una species del genus citazione (posto che, se così non fosse, non vi sarebbe stato bisogno di sancire l’espressa inapplicabilità della prescrizione circa il suddetto invito ed avvertimento del n. 7 dell’art. 163 . . .)".

Pertanto, in applicazione della norma generale sugli effetti della invalidità dell’atto di citazione, anche la citazione per la convalida sarà nulla se manca uno degli elementi previsti dall’art. 660, 3° comma.

Per di più, anche laddove manchi l’avvertimento che se l’intimato "non comparisce o, comparendo, non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto ai sensi dell’art. 663", la citazione per la convalida sarà nulla, in applicazione dell’art. 164, negli stessi termini in cui è nullo l’atto di citazione nel processo ordinario di cognizione, laddove sia omesso l’avvertimento previsto dal numero 7) dell’articolo 163.

La "sostituzione" muove, secondo la giurisprudenza, dalla considerazione che, pur in assenza di una disciplina espressa, l’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 660, 3° comma, comporti comunque la nullità dell’atto di citazione, per una sorta di applicazione analogica dell’art. 164, dal momento che entrambi gli avvertimenti (quello previsto dal numero 7) dell’art. 163 e quello previsto dall’art. 660, 3° comma) rivestono la caratteristica della essenzialità, sia pure per diversi profili.

Peraltro, in dottrina si è detto che "la sostituzione si può dedurre dall’applicazione di una delle norme generali sulla disciplina delle nullità e precisamente del 2° comma dell’art. 156": laddove manchi l’avvertimento di cui al nuovo 3° comma dell’art. 660, la citazione per la convalida sarebbe carente di uno dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, "cioè quello di richiamare l’attenzione dell’intimato sulle conseguenze per lui negative del mancato esercizio del diritto di difesa nelle forme tipiche del procedimento per convalida".

Invece, per una applicazione analogica dell’art. 164, 3° comma, si è rilevato che, qualora, nell’ipotesi in cui manchi l’avvertimento in citazione, l’intimato comunque compaia, la predetta nullità è sanata, "ma, se egli deduce la mancanza dell’avvertimento, il giudice dovrà rifissare", in termini al provvedimento in epigrafe, "una nuova udienza di comparizione . . . non diversamente da quanto potrà accadere per il caso di inosservanza del termine di comparizione".

 

    1. Nullità dell’atto di citazione
    2. Torna all'indice

      1.4) INAMMISSIBILITA’ DELL’OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO PROPOSTA CON ATTO DI CITAZIONE E NON CON RICORSO IN MATERIA LOCATIZIA

      Pretura di Bari, 12 luglio 1996, - Giud. Ruffino - Apulia Car s.r.l. c. Scorta

       

      L’opposizione a decreto ingiuntivo proposta in materia locatizia con citazione e non con ricorso è inammissibile se l’atto è depositato dopo la scadenza del termine di quaranta giorni dalla notifica del decreto opposto.

       

      ...Omissis...

      Premessa generale necessaria è che il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, non costituendo in sé uno specifico "rito", ma sostanziandosi in un ordinario giudizio di cognizione sulla fondatezza della pretesa oggetto di ingiunzione, è regolato dal rito, eventualmente speciale, imposto dal legislatore per le controversie nella particolare materia dalla quale trae ragione giuridica la pretesa azionata in via monitoria, salva l’osservanza delle disposizioni processuali peculiari, e perciò inderogabili, della opposizione in parola, quali il termine ex art. 641 c.p.c. e la competenza funzionale del giudice che ha emesso il decreto ex art. 645 c.p.c..

      La prassi giurisprudenziale dà conferma dell’affermato principio di adeguamento delle forme dell’opposizione a quelle dettate per il rito applicabile alla materia controversa: così, in tema di pagamento delle competenze professionali per prestazioni giudiziali di avvocati e procuratori, l’opposizione al decreto ingiuntivo va svolta secondo le forme stabilite dalla legge 13.6.1942 n. 794 (Cass. 3.10.1957 n.3589; 22.6.1962 n.1620; 21.5.1991 n.5724).

      Particolarmente significativa e rilevante nella presente fattispecie di causa è la giurisprudenza relativa all’opposizione all’ingiunzione in tema di crediti derivanti da uno dei rapporti previsti dagli artt. 409 e 442 c.p.c., che si ritiene regolata dal c.d. rito del lavoro (ossia dal rito speciale da applicarsi alla materia da cui trae origine il credito controverso). Ne consegue che essa deve proporsi con ricorso, da depositare in cancelleria nel termine, decorrente dalla notifica dell’ingiunzione, previsto per l’opposizione; mentre, qualora sia proposta con citazione, questa può valere come ricorso, a condizione che sia depositata in cancelleria nel termine perentorio predetto, la cui inosservanza, rilevabile d’ufficio, determina l’inammissibilità dell’opposizione (Cass. 15.10.1992 n.11318), senza che rilevi il passaggio dal rito ordinario a quello speciale, disposto dal giudice ai sensi dell’art. 426 c.p.c. (Cass. 26.3.1991 n. 3258).

      Ciò premesso, deve osservarsi che le pretese oggetto di lite (il credito principale per canoni dello Scorta; il credito per la somma versata a titolo di deposito cauzionale e per indennità maturate in virtù della realizzazione di migliorie, opposto in compensazione dalla Apulia Car s.r.l.; l’ulteriore credito per canoni e per danni da deterioramento del bene, azionato in via riconvenzionale dall’opposto) trovano uno specifico titolo contrattuale nella locazione immobiliare intercorsa fra le parti.

      Ne discende che la causa, dovendosi ritenere relativa a rapporto di locazione di immobile urbano, secondo la norma dell’art. 8 c.p.c., è disciplinata, sotto il profilo del rito, dagli artt. 414 ss. c.p.c., giusta il disposto del novello art. 447 bis c.p.c., introdotto dalla l. n. 353/1990 (e successive modificazioni) ed applicabile a tutte le controversie iniziate dopo il 30.4.1995.

      Sicché, avendo lo Scorta notificato il decreto ingiuntivo alla controparte in data 7.8.1995 (data che, a mente dell’art. 643 c.p.c., determina la pendenza della lite), l’art. 447 bis c.p.c. e le norme del rito del lavoro da esso richiamate trovano sicura applicazione alla fattispecie in esame.

      Collegando tale conclusione alla premessa generale fatta, deve ritenersi che, nel caso di ingiunzione per crediti relativi ad un rapporto di locazione di immobile urbano, l’opposizione vada proposta nella forma prevista dall’art. 414 c.p.c., e quindi con ricorso, da depositare in cancelleria nel termine di quaranta giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo, fissato dall’art. 641 c.p.c.; mentre, qualora l’opponente, invece della forma prescritta, abbia usato quella dell’atto di citazione, la ritualità dell’ opposizione non è per ciò stesso compromessa, nel senso che l’atto predetto, che sia assistito dai requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo (la parte recante la citazione risulterà in proposito superflua e, perciò, in sé non viziante), non è nullo (cfr., sul tema generale dell’uso della citazione in luogo del ricorso, Cass. 23.1.1984 n.554). Tuttavia, essendo noto che, nei giudizi su ricorso, il momento costitutivo del rapporto processuale si identifica con il deposito nella cancelleria del giudice adito dell’atto contenente la domanda e non con la notifica dello stesso alla controparte, è necessario, perché l’opposizione risulti tempestiva, che l’atto di citazione sia depositato in cancelleria nel termine di quaranta giorni dalla notifica dell’ ingiunzione, non rilevando a tal fine la previa data di notifica all’opposto.

      Risulta dagli atti di causa che l’atto di opposizione al decreto ingiuntivo della Apulia Car s.r.l., proposto in forma di citazione, è stato depositato in cancelleria, unitamente al fascicolo di parte, il 28.10.1995.

      A tale data erano però decorsi più di quaranta giorni dalla notifica del decreto opposto, avvenuta il 7.8.1996 (la decorrenza dunque è dal 16.9.1996, stante la sospensione feriale dei termini processuali ex lege n. 742/1969).

      L’opposizione è pertanto inammissibile, perché proposta oltre il termine perentorio di legge .

      ...Omissis...

      IL COMMENTO

      di Umberto Volpe

      La sentenza affronta il problema della forma dell’opposizione a decreto ingiuntivo nelle controversie in materia locatizia e lo risolve seguendo l’orientamento ormai consolidato in dottrina e giurisprudenza con riferimento alle controversie di lavoro.

      L’opposizione, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 447bis c.p.c., va proposta con l’adozione delle particolari forme prescritte dalla legge n. 533 del 1973 e, cioè, con ricorso da depositare in cancelleria entro il termine previsto dall’art. 641 c.p.c. (oggi fissato dalla legge 534/1995 in quaranta giorni dalla notifica del decreto).

      Nel senso che il ricorso deve adempiere alla prescrizione dell’art. 414 c.p.c. sui requisiti del ricorso introduttivo di controversie di lavoro v. Cass. 7699/90 e 5616/86. Parallelamente, nel senso che anche la memoria difensiva dell’opposto (attesa la sua posizione sostanziale di attore) deve osservare la forma della domanda di cui all’art. 414 c.p.c. e, quindi, deve recare, tra l’altro, l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda fatta valere con il ricorso per ingiunzione v. Cass. 29 luglio 1994, n. 7095, id., Rep. 1995, voce Ingiunzione (procedimento per), n. 34, e Cass 22 giugno 1991, n. 7060, id., Rep. 1992, voce cit., n. 33.

      Non è invece necessario, ai fini dell’ammissibilità dell’opposizione, che entro il medesimo termine di quaranta giorni il ricorso, unitamente al decreto pretorile di fissazione dell’udienza apposto in calce, sia anche notificato. Sarebbe, infatti, iniquo gravare l’opponente di tale onere, posto che non dipende certo dalla sua volontà la determinazione dell’udienza di discussione, che, invece, la legge demanda ad un provvedimento giudiziale: così FRANCO, Guida al procedimento di ingiunzione, Milano, 1994, 267ss.; VALITUTTI - DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 1994, 149; GARBAGNATI, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, 281-282.

      In senso contrario, tuttavia, Pret. Avellino, 18 dicembre 1974, Giur. it., 1976, I, 2, 3; e Pret. Palermo, 11 luglio 1974, Mass. Giur. lav., 1975, 611; e, in dottrina, ANDRIOLI (PROTO PISANI, PEZZANO, BARONE), Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1974, 21.

      Qualora, poi, all’opposizione validamente proposta non segua proprio la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, nel senso che non può determinarsi la improponibilità dell’opposizione, ma sussiste l’obbligo del giudice, che riscontri la mancanza di notifica, di fissare altra udienza, con provvedimento ex art. 291 c.p.c. da notificare all’opposto, a cura dell’opponente, nel termine perentorio fissato dal magistrato e solo se questo provvedimento non viene osservato sorge il presupposto per la declaratoria di estinzione del giudizio di opposizione, cui consegue la efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo, cfr. Cass. 9 gennaio 1981, n. 194, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 36.

      Nel caso, invece, in cui l’opposizione sia erroneamente proposta nella forma della citazione, e non in quella del ricorso, l’invalidità formale resta sanata per conseguimento dello scopo ex art. 156, 3° comma, c.p.c., a condizione che la citazione sia stata comunque depositata nella cancelleria del giudice del lavoro adito nel termine di cui all’art. 641.

      In questo senso Pret. Salerno-Eboli, 10 febbraio 1995, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 35; Cass. 26 aprile 1993, n. 4867, id., Rep. 1993, voce cit., n. 40; Cass. 15 ottobre 1992, n. 11318, id., 1993, I, 1534; Cass. 24 agosto 1991, n. 9099, id., Rep. 1991, voce cit., n. 25; Cass. 26 marzo 1991, n. 3258, id., Rep. 1991, voce cit., n. 26; Cass. 14 marzo 1991, n. 2714, id., Rep. 1991, voce cit., n. 27; in dottrina cfr., da ultimi, FRANCO, op. cit., 272; GARBAGNATI, op. cit., 282; PEZZANO (ANDRIOLI, BARONE, PROTO PISANI), Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, 1047 ss.; TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, 254; VALITUTTI - DE STEFANO, op. cit., 148, che, in particolare, osservano come "nessuna valida vocatio in jus può ritenersi dispiegata in tempo anteriore al deposito in cancelleria, per la peculiarità del rito del lavoro e la centrale rilevanza del provvedimento autoorganizzatorio del giudice del lavoro in tema di reale identificazione dell’udienza di trattazione", con la conseguenza che l’atto di citazione, unitamente al decreto pretorile, andrà necessariamente rinotificato.

      Non produce, pertanto, alcun effetto la notificazione all’opposto compiuta, pur tempestivamente, prima del deposito, neanche in presenza di spontanea costituzione dell’intimato; né consegue alcuna sanatoria all’eventuale provvedimento di trasformazione del rito, pronunziato dal giudice ai sensi dell’art. 426 c.p.c., trattandosi di atto idoneo sì ad incidere sull’ulteriore corso del giudizio, ma non anche a determinare a posteriori un mutamento delle forme dell’atto introduttivo (così Cass. 4867/93, cit.). Con la precisazione che la decadenza dal termine perentorio ex art. 641 è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, trattandosi di vizio insuscettibile di sanatoria a fronte della inestensibilità dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. alle nullità derivanti da violazione di termini perentori (così Cass. 11318/92, cit., e 3258/91, cit.).

      In senso contrario cfr., tuttavia, Pret. Roma, 24 aprile 1988, Foro it., 1988, I, 3634, con osservaz. di ORSENIGO.

      In dottrina, critico nei confronti dell’orientamento dominante TOFFOLI, in AA.VV., L’opposizione a decreto ingiuntivo nei suoi momenti applicativi, Milano, 1994, 34-35, per il fatto che "esclude l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 426 cod. proc. civ. (passaggio dal rito ordinario al rito speciale) proprio in un caso in cui avrebbe ragione di operare un meccanismo evidentemente diretto, tra l’altro, a limitare gli effetti pregiudizievoli per la parte dell’errore circa la scelta delle forme di un rito o dell’altro" e, nel contempo, "attribuisce valore determinante ai fini del rito alla qualificazione (implicita o esplicita) della controversia compiuta dal ricorrente o dal giudice del procedimento monitorio, facendo quindi riferimento ad elementi che non solo possono essere labili ed incerti, ma che anche, in realtà, non possono implicare una effettiva (fattuale) opzione quanto al rito, per la semplice ragione che, pacificamente, la fase monitoria è neutra, proceduralmente indifferente, rispetto alla contrapposizione rito ordinario - rito del lavoro".

       

    3. Preclusioni e decadenze
    4. Torna all'indice

      2.1) INAMMISSIBILITA’ RILEVABILE D’UFFICIO DELLA DOMANDA RICONVENZIONALE PROPOSTA TARDIVAMENTE

      Tribunale di Trani, 30 settembre 1996 - G.I. Guaglione - Rizzi c. Dellisanti e altri.

       

      E’ rilevabile d’ufficio l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, tardivamente proposta, essendo irrilevante un’eventuale accettazione implicita del contraddittorio per omessa tempestiva eccezione (nella specie il convenuto si era costituito tardivamente, nei venti giorni anteriori all’udienza rinviata d’ufficio ai sensi dell’art. 168 bis, 4° comma, anziché venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione)

       

      ...Omissis...

      rileva che (all’udienza destinata alle deduzioni probatorie ed entro il termine concesso ex art. 184 c.p.c.) l’attrice - ritenendo - che la causa possa essere decisa sulla scorta del materiale documentale prodotto - non ha formulato istanze istruttorie (se non subordinatamente all’ammissione di quelle proposte ex adverso), mentre il convenuto Dellisanti Michele ha richiesto mezzi di prova orale (interrogatorio formale e prova per testi) tendenti a suffragare la domanda riconvenzionale di usucapione spiegata con la comparsa di costituzione.

      Giova in proposito ricordare che il nuovo testo del 2° comma dell’art. 167 c.p.c. ribadisce il principio, già enunciato dal codice di rito del 1942, secondo cui solo la comparsa di risposta tempestiva, vale a dire perfezionata con la costituzione del convenuto entro i termini (almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione ex art. 166 c.p.c.) può validamente contenere una domanda riconvenzionale, sanzionando l’inottemperanza di tale obbligo con la decadenza dal potere di proporre la domanda nel prosieguo del giudizio, ivi compreso il caso di costituzione in udienza ai sensi dell’art. 171 c.p.c.

      Peraltro, ai fini della tempestività della costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c., i venti giorni anteriori (o dieci in caso di abbreviazione dei termini ) normativamente previsti vanno calcolati a ritroso (senza tener conto del giorno iniziale, ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) rispetto all’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione ovvero rispetto all’udienza fissata dal giudice istruttore a norma dell’art. 168-bis, quinto comma, c.p.c.: del tutto irrilevante deve ritenersi a tal fine lo spostamento d’ufficio, da parte del Presidente, della prima udienza di comparizione a data successiva a quella fissata in citazione, poiché il 4° comma del citato art. 168-bis c.p.c. non prevede la possibilità di costituirsi in riferimento alla nuova data (cfr. art. 70-bis disp. att. c.p.c.);

      Nel caso di specie va rilevato che, in riferimento alla data di udienza di prima comparizione fissata in citazione (18.10.1995), la tempestiva costituzione di parte convenuta sarebbe dovuta avvenire entro il giorno 28.9.1995 (restando irrilevante il rinvio d’ufficio al 23.10.1995): risulta invece che il convenuto Dellisanti Michele si è costituito in giudizio con comparsa depositata in data 29.9.1995, e quindi tardivamente sia pure per un solo giorno, sicché egli è decaduto dal diritto di proporre domande riconvenzionali.

      L’espressa previsione della sanzione di decadenza e la valenza pubblicistica della disciplina delle preclusioni nell’ambito del nuovo rito comportano - ad avviso di questo giudice istruttore - che l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, per essere stata proposta tardivamente, possa e debba essere rilevata d’ufficio, indipendentemente dall’eccezione di parte (non formulata nel caso di specie), divenendo così irrilevante un’eventuale accettazione implicita del contraddittorio per omessa tempestiva eccezione.

      Fermo restando che la formale declaratoria di inammissibilità della spiegata domanda riconvenzionale va pronunciata in sentenza, la tardiva costituzione del convenuto Dellisanti Michele comporta allo stato, sotto il profilo probatorio, esclusivamente l’ irrilevanza dei mezzi di prova richiesti esclusivamente a supporto della (inammissibile) domanda riconvenzionale.

      Circoscritta la cognizione alla sola domanda principale la causa appare matura per la decisione sulla scorta delle risultanze documentali già acquisite, sicché può essere senz’altro fissata l’udienza per la precisazione delle conclusioni.

      ...Omissis...

      IL COMMENTO

      di Barbara Poliseno

      Nello stesso senso, per la rilevabilità d’ufficio della inammissibilità della domanda riconvenzionale, G. TRISORIO LIUZZI, La difesa del convenuto e dei terzi nella nuova fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, in Giur. it., 1996, IV, 82 s.; S. POLITANO, I termini nel nuovo processo civile, Roma, 1996, 82 s.; R. FRASCA, Il giudizio civile di primo grado: la prima udienza e le preclusioni, in Documenti giustizia, 1994, 5, 1063; C. MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino, 1993, 63; G. F. RICCI, in F.CARPI, M. TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, Appendice di aggiornamento, Padova, 1993, 60; E. VULLO, La domanda riconvenzionale, Milano, 1995, 114 ss.; E. GRASSO, Interpretazione della preclusione e nuovo processo civile in primo grado, in Riv. dir. proc., 1993, 644; S. CHIARLONI, Le riforme del processo civile, Bologna, 1992, 205; M. TARUFFO, Le preclusioni nella riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, 307 s.; G. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 120; A. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 231 ss., che esclude la rilevabilità d’ufficio della tardività della domanda riconvenzionale ove vi sia un accordo delle parti.

      Pronosticando la giurisprudenza futura, nel senso che dovrebbe prevalere "la tesi dello "interesse pubblico", e quindi della rilevabilità di ufficio della tardiva allegazione o domanda" e, per l’insussistenza - o quantomeno per la mancata individuazione - "di un criterio generale per stabilire la rilevabilità di ufficio o meno del vizio consistente nel compimento di un atto al di là del termine (in senso lato) previsto", v. F. P. LUISO (C. CONSOLO, B. SASSANI), Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 16 s.

      Invece, nel senso che, indipendentemente dalla riforma del 1990, "nel processo ordinario di primo grado la violazione delle preclusioni (. . .) ha carattere relativo e resta comunque sanata, a seconda dell’opinione che si ritenga preferibile, in seguito alla mancata opposizione, oppure in seguito alla effettiva accettazione del contraddittorio (anche implicita . . .) proveniente dalle altre parti", G. BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. it., 1996, IV, 274; (in questo senso, ora, anche Cass., sez. un., 22 maggio 1996, n. 4712, in Guida al diritto, 1996, fasc. 24, 55).

      Nel rito del lavoro, l’orientamento è, invece, costante nel senso della rilevabilità d’ufficio della tardività ex 416 c.p.c.: v., per tutti, G. TRISORIO LIUZZI, op. cit., 83, F. P. LUISO (C. CONSOLO, B. SASSANI), op. cit., 160, nonché L. MONTESANO, R. VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 154 e Cass. 12 agosto 1993, n. 8652, in Giur. it., 1994, I, 1, 1033, con nota di I. PICCININI.

      Il termine per la costituzione del convenuto, previsto dall’art. 166 c.p.c., è da considerare non "libero"; nel senso che "qualora la legge non preveda in modo espresso che si tratti di termine libero (con la conseguenza che vanno esclusi dal computo stesso tanto il giorno iniziale tanto il giorno iniziale tanto quello finale), opera il criterio generale di cui all’art. 155 c.p.c., secondo cui va conteggiato il giorno iniziale, computandosi invece quello finale", v., per tutti, G. TRISORIO LIUZZI, op. cit., 77, nonché in nota n. 16, per gli ulteriori richiami di dottrina.

      Pertanto, per la tempestiva costituzione del convenuto, il dies a quo, costituito dal giorno dell’udienza, non computatur in termino, mentre il dies ad quem, ossia il giorno in cui avviene la costituzione, computatur in termino.

      Per il calcolo del termine di costituzione a norma dell’art. 166, il dies a quo è costituito, dalla data dell’udienza fissata nell’atto di citazione, e, in caso di differimento della prima udienza da parte del giudice istruttore, dalla data "dell’udienza fissata a norma dell’art. 168 bis, quinto comma" (F. LAZZARO, M. GURRIERI, P. D’AVINO, L’esordio del nuovo processo civile, Milano, 1996, 56, nonché E. CAPUTO, La nuova normativa sul processo civile, Padova, 1996, 85).

      Sennonché, "se la prima udienza si tiene in un giorno diverso da quello indicato nell’atto di citazione, ma a seguito dell’applicazione degli artt. 168 bis, 4° comma e 82 disp. att. c.p.c. (perché il giudice istruttore designato non tiene udienza nel giorno fissato per la prima comparizione delle parti, nel qual caso l’udienza si intende rinviata di ufficio all’udienza di prima comparizione immediatamente successiva, assegnata allo stesso giudice), rimane l’onere per il convenuto di costituirsi venti giorni prima dell’udienza indicata nell’atto di citazione": così G. TRISORIO LIUZZI, op. cit., 77; BALENA, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 138; contra, F. P. LUISO (C. CONSOLO, B. SASSANI), op. cit., 107.

       

    5. Preclusioni e decadenze
    6. Torna all'indice

      2.2) LE PRECLUSIONI ISTRUTTORIE

      I

      Pretura di Bari, 4 novembre 1996, ord. - Giud. Ruffino - Brandonisio c. Brandonisio & c. s.n.c.

       

      L’omessa indicazione dei mezzi di prova nell’atto di citazione non implica decadenza dalla facoltà di indicarne dei nuovi, perché il termine "nuovi" non deve leggersi come "altri" ovvero "aggiunti ai precedenti", ma più semplicemente come "non previamente indicati".

       

      ... Omissis...

      - all’odierna udienza di prima trattazione, l’attore ha chiesto rinvio per "la articolazione dei mezzi istruttori", non indicati in citazione, mentre la convenuta, eccepita la decadenza della controparte dalla facoltà di formulare istanze di prova, siccome non contenute nell’atto introduttivo e non legittimate dall’art. 184 c.p.c., riferibile soltanto ai mezzi di prova "nuovi" ovvero aggiunti a richieste istruttorie già proposte, ha chiesto rinviarsi la causa per la precisazione delle conclusioni;

      - la vigente disciplina del rito civile prevede all’art. 163 n. 5 c.p.c. che l’atto di citazione debba contenere "indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l‘attore intende avvalersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione";

      - l’omissione di tale indicazione - di cui, in buona sostanza, si duole la convenuta, facendone derivare la preclusione del diritto di provare dell’attore - è priva di specifica sanzione processuale, nel senso che essa non integra alcuna specifica ipotesi di nullità dell’atto di citazione, né di decadenza dall’esercizio delle attività istruttorie ad istanza di parte e, in particolare, dalla richiesta di ammissione di mezzi di prova;

      - la giurisprudenza consolidata ha escluso la possibilità di riconnettere all’omissione di cui si tratta effetti invalidanti della domanda (sin da Cass. 7.8.1967 n. 2098); e la conclusione non può che essere ribadita a seguito della più recente riforma del codice di procedura civile, che pur innovando il testo dell’art. 164, non ha contemplato tale ipotesi di nullità;

      - le possibilità di applicazione analogica, come di interpretazione estensiva della norma sono inibite dalla sua natura;

      - tracciato logico (e conclusione) non dissimile deve seguire la verifica della configurabilità di una preclusione alla formulazione di istanze istruttorie in corso di causa (salvi i limiti, di cui si dirà, connessi alla più netta scansione, imposta dal c.d. nuovo rito ordinario, delle fasi della "istruzione della causa", in senso lato , ed alla, almeno tendenziale, tipizzazione "per udienza" delle attività istruttorie), per effetto della mancata indicazione nell’atto introduttivo, non potendosi fare a meno di rimarcare che il problema riguarda ugualmente il convenuto al quale la legge prescrive di indicare sin dalla comparsa di risposta i mezzi di prova di cui intende valersi (art. 167 c.p.c.);

      - nessuna norma, disciplinante il rito di cognizione ordinario prevede per l’omissione in esame la decadenza, che, viceversa, è espressamente comminata per altro genere di omissioni (quale quella della domanda riconvenzionale, non proposta dal convenuto nella comparsa di risposta) o per l’inosservanza di termini perentori previsti ex lege o fissati dal giudice nei casi in cui la legge glielo consente (come quello per la proposizione da parte del convenuto delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, ex art. 180 co. 2 c.p.c. o quello per la chiamata in causa del terzo da parte dell’attore ex art. 269 co. 3 c.p.c.); il che presenta sicuro rilievo in funzione del generalissimo canone ermeneutico "lex ubi voluit, dixit";

      - le innovazione introdotte dalla riforma del processo civile di cui alla legge n. 353/1990 e successive modifiche non hanno un contenuto tale da consentire all’interprete di superare - nell’ottica della garanzia della funzione della norma processuale sprovvista di sanzione, in caso di inosservanza da parte dei litiganti: considerazione che ha condotto la giurisprudenza a ritenere configurabile la perentorietà dei termini non definiti tali dalla legge (cfr. Cass. 22.7.1980 n. 4787) - il difetto di esplicita previsione normativa circa la decadenza ipotizzata dalla convenuta in questo giudizio, in quanto esse non incidono sostanzialmente sul potere delle parti di svolgere deduzioni attinenti alla prova in corso di causa, almeno sino al verificarsi degli sbarramenti temporali previsti dall’art. 184 co.1 e 2 c.p.c. (termine perentorio assegnato dal giudice, ad istanza di parte, per produrre documenti e proporre nuovi mezzi di prova);

      - lo sforzo interpretativo del giudice , ne senso della enucleazione dal vigente ordinamento processuale civile di una preclusione non espressamente sancita dal legislatore, non può trovare sostegno neppure nella finalità, anche costituzionalmente rilevante, di garantire la parità nell’esercizio dei poteri di difesa delle parti; siffatta finalità sottesa alla giurisprudenza, formatasi in relazione al rito del lavoro, secondo cui l’onere di indicare specificamente i mezzi di prova nella memoria di costituzione, previsto a pena di decadenza dall’art. 416 c.p.c. per il convenuto, opera con gli stessi effetti di preclusione delle richieste di prova nel corso del processo, anche per l’attore che non vi abbia provveduto nel ricorso, ai sensi dell’art. 414 n. 5 c.p.c. (cfr., fra le molte, Cass. 9.6.1983 n. 3903), non è invocabile nel rito di cognizione ordinario, nel quale - come si è detto - l’onere de quo è bensì posto a carico di entrambi le parti, ma senza che dalla sua inosservanza derivino effetti preclusivi espressi, peraltro logicamente incompatibili con il diritto all’introduzione dei nova, sancito dall’art. 184, co.1 c.p.c.;

      - né tale diritto può essere rigorosamente circoscritto all’indicazione dei mezzi di prova che si aggiungano o che modifichino quelli dedotti da ciascuna parte nel primo atto difensivo, atteso che tale delimitazione, del tutto avulsa dalla complessiva disciplina dei nova ed ancorata ad un dato testuale tutt’altro che univoco (il termine "nuovi " non deve leggersi necessariamente come "altri" o "aggiunti ai precedenti", potendo semplicemente significare "non previamente indicati"), non sarebbe giustificata sul piano della ratio legis delle preclusioni in subiecta materia, le quali poste a tutela dell’interesse delle parti ed, in particolare, a garanzia dell’esercizio del loro diritto di difesa; il che, oltre ad interferire sul regime della rilevabilità (ad eccezione di parte e non d’ufficio) determina la conclusione che, se il legislatore ammette per ciascuna delle parti la possibilità di dedurre prove "nuove" in corso di causa, l’interesse della controparte non subisce rilevante compromissione dalla circostanza che si tratti di prove che si aggiungano ad altre indicate ab initio o meno, fermo restando, per di più, il suo diritto a richiedere mezzi di prova contraria;

      ...Omissis...

       

       

      II

      Tribunale di Trani, 10 settembre 1996, ord. - G.I. Doronzo - Marcone c. Angarano

       

      Dopo il provvedimento di ammissione dei mezzi di prova dedotti nell’atto di citazione, è preclusa la richiesta di prove ulteriori (nella specie le nuove prove erano state dedotte all’udienza fissata per l’assunzione delle prove chieste nell’atto introduttivo)

       

      ...Omissis...

      rilevato che alla prima udienza ex art. 183 c.p.c., destinata alla trattazione della causa, il procuratore dell’attore ha chiesto che siano ammessi i mezzi di prova già dedotti nell’atto di citazione e che, in conseguenza di tale richiesta, l’istruttore ha fissato l’udienza prevista dall’art. 184 c.p.c.;

      considerato che alla detta udienza la parte ha chiesto unicamente che sia ammesso l’interrogatorio formale del convenuto, senza avanzare altre richieste istruttorie né chiedere l’assegnazione di un termine per la produzione di altri documenti o l’indicazione di altre prove;

      rilevato altresì che la richiesta del termine ex art. 184, c. 1°, parte seconda, è stata avanzata soltanto all’udienza fissata per l’assunzione dell’interrogatorio formale ammesso;

      ritenuto che, con la previsione dell’apposita udienza ex art. 184, il legislatore ha inteso eliminare in radice quella "possibile alternanza (e, si potrebbe aggiungere, mescolanza) tra udienze di trattazione e udienze istruttorie" e garantire l’esigenza di organizzare in fasi nettamente distinte tra loro le attività processuali; che dunque - in funzione di questa esigenza - il legislatore ha cadenzato la maggior parte delle attività delle parti con la previsione di rigidi termini perentori, sottratti pure alla discrezionalità del giudice e dal cui decorso scatta un complesso meccanismo di preclusioni;

      ritenuto che, pur nel silenzio della legge, la perentorietà dei termini di cui al citato art. 184 e la suddivisione del processo in fasi rigidamente scandite inducono a ritenere che l’udienza disciplinata dall’art. 184 c.p.c. costituisca una sorta di cerniera tra la fase della trattazione e quella dell’istruzione propriamente detta, di tal ché in essa le parti sono poste dinanzi "alla alternativa secca" di chiedere o l’ammissione dei mezzi già articolati negli atti introduttivi del giudizio o l’assegnazione del termine per le ulteriori deduzioni istruttorie;

      ritenuto pertanto che, trascorsa l’udienza ex art. 184, le parti non possono più pretendere l’acquisizione di prove ulteriori o la concessione del termine, dovendosi ritenere che con il provvedimento di ammissione delle prove, scatti il meccanismo di preclusioni in forza del quale è impedito alle parti di chiedere nuovi mezzi di prova e, quindi, alla causa di "ritornare sui suoi passi";

      ...Omissis...

      IL COMMENTO

      di Barbara Poliseno

      Chiusa la fase preparatoria indirizzata alla determinazione del thema decidendum, il processo continua per la determinazione di quello che costituisce il thema probandum della controversia.

      E’ possibile che le parti abbiano richiesto l’acquisizione dei mezzi istruttori già negli atti introduttivi, ovvero nel corso della prima udienza di trattazione: cosicché il giudice può in questa stessa sede decidere di esaminarli, "non esistendo suo obbligo di fissare un’udienza ad hoc".

      Tuttavia l’ipotesi più fisiologica è che il giudice, a norma dell’art. 183, 5° co., fissi l’udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184.

      Salva l’ipotesi della rimessione della causa al collegio ai sensi dei primi tre commi dell’art. 187, può verificarsi che:

      - completate le deduzioni istruttorie, il giudice si pronunci sulla ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova già proposti e provveda alla loro assunzione;

      - su istanza di parte, il giudice rinvii ad altra udienza, assegnando un termine (perentorio) entro il quale le parti possano produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova, nonché altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria.

      Si è, a ragione, rilevato che l’istanza di concessione dei termini per produrre documenti e indicare nuovi mezzi di prova ex art. 184, non debba essere avanzata a pena di decadenza nella prima udienza di trattazione: per un verso "il 2° comma della norma in esame qualifica come perentori i termini concessi dal giudice ai sensi del 1° comma, non la richiesta entro la prima udienza di assegnazione del termine"e, per altro verso "la preclusione relativa alla richieste istruttorie, non può che essere l’ultima a scattare; poiché nuovi mezzi di prova e nuovi documenti potrebbero rendersi opportuni proprio in conseguenza delle attività contemplate dall’art. 183".

      La legge senza alcun dubbio, si è detto, prescrive che l’attività istruttoria elencata debba essere svolta a pena di decadenza nei termini perentori assegnati dal giudice.

      Sennonché, al di là di questi limiti temporali, "nel nuovo processo ordinario riprende vigore il principio di libertà delle deduzione istruttorie": diversamente dal processo del lavoro, che conferisce al giudice il potere di ammettere oltre i mezzi di prova "già proposti anche e soltanto "quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima", il giudice istruttore non ha alcun potere di controllo sulla necessità delle "nuove" deduzioni istruttorie, salva l’indagine sulla ammissibilità e rilevanza delle stesse.

      Come detto, se è vero che la legge prevede che negli atti introduttivi le parti hanno l’"onere" di indicare i mezzi di prova dei quali intendono avvalersi, è altrettanto vero che "nessuna decadenza accompagna queste prescrizioni. Esse rimangano dunque allo stato di mero "consiglio" del legislatore, sicché le parti potranno dedurre le loro prove almeno sino all’udienza prevista dall’art. 184".

      Cosicché, deve escludersi che non si possa pervenire alla stessa conclusione anche nella ipotesi in cui, come nella fattispecie in esame, una delle parti non abbia provveduto ad indicare alcun mezzo di prova nell’atto introduttivo e che pertanto ne richieda l’acquisizione nel corso della prima udienza di trattazione o, addirittura, all’udienza fissata dal giudice ex art. 184.

      L’ipotesi non è così remota, se si considera che l’esigenza di acquisire mezzi istruttori può sorgere in sede di interrogatorio libero per le risposte rese dall’avversario, per l’allegazione di domande ed eccezioni nuove, ovvero, per la precisazione o modificazione delle domande o delle eccezioni proposte, ovvero ancora, in seguito alle eventuali repliche "alle domande ed eccezioni nuove o modificate", e, per finire, per le eventuali "eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime".

      Per di più, non volendo circoscrivere la eventualità di dedurre per la prima volta i mezzi istruttori all’ipotesi in cui la necessità sorga dalle deduzioni della controparte nella prima udienza di trattazione, si potrebbe più in generale, sostenere che la facoltà di chiedere l’acquisizione dei mezzi istruttori implica anche che la parte che intende avvalersene, può liberamente, per diverse e svariate ragioni di tecnica processuale, decidere di ritardarne l’acquisizione sino a quando questa facoltà non le è del tutto preclusa.

      La dottrina maggioritaria, è, invero, nel senso che l’art. 184 non pare imporre o comunque consentire "l’interpretazione restrittiva secondo cui i "nuovi mezzi di prova", diversi dai documenti, sarebbero ammessi solo quando si tratti di integrare una precedente richiesta istruttoria ovvero se la necessità della prova sia nata dalla deduzioni di controparte nella prima udienza di trattazione".

      Nei termini del primo provvedimento in epigrafe, il dato testuale dell’art. 184, 1° co., è tutt’altro che univoco: "il termine "nuovi", non deve leggersi necessariamente come "altri" o aggiunti ai precedenti", potendo semplicemente significare "non previamente indicati".

      Se così non fosse, la legge avrebbe, comunque, inserito nella fase introduttiva, un’ulteriore preclusione e non è dato individuarne una laddove la legge non lo prevede.

      Per quel che riguarda, poi, il termine ultimo entro il quale le parti possono integrare le deduzioni originarie, ovvero chiedere la fissazione del termine ulteriore di cui all’art. 184, questo può determinarsi "dal sistema, dalle intenzioni del legislatore" visto che "nessuna norma esclude che deduzioni istruttorie possano essere effettuate nell’ulteriore corso del giudizio".

      L’interpretazione più corretta sembra quella secondo cui il termine ultimo sia l’udienza in cui, esaurita l’attività di trattazione, il giudice istruttore passa in concreto ad esaminare le richieste istruttorie.

      Pertanto, è evidente, come, nella seconda fattispecie in epigrafe, la richiesta del termine ex art. 184, 1° co., avanzata soltanto all’udienza fissata per l’assunzione dei mezzi di prova dedotti prima, sia ormai tardiva perché "palesemente" successiva a quella di chiusura delle eventuali ed ulteriori deduzioni istruttorie, fissata per l’esame sulla ammissibilità e rilevanza degli stessi.

       

    7. Art. 180 c.p.c. (Udienza di prima comparizione)

Torna all'indice

3.1) UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE, PROVVEDIMENTI SULL’ESECUZIONE DEL DECRETO INGIUNTIVO OPPOSTO E RICHIESTE CAUTELARI

I

Tribunale di Lecce, 9 novembre 1995, ord. - G.I. Positano - Longo c. Banca Vincenzo Tamborino

 

Sulla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto il giudice non può provvedere nella prima udienza di comparizione che è riservata alla esclusiva verifica d’ufficio della regolarità del contraddittorio.

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il termine per la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio va assegnato al debitore opponente.

 

...Omissis...

In ordine alla questione preliminare dell’ammissibilità del provvedimento richiesto ex art. 648 c.p.c., in sede di prima comparizione (art. 180 c.p.c. come da ultimo ulteriormente modificato), osserva:

la prima udienza è riservata alla verifica d’ufficio della regolarità del contraddittorio e quindi all’esame della validità della notificazione, con eventuale ordine di rinnovo, alla verifica della regolarità degli atti e documenti e della costituzione in giudizio, alla verifica dei difetti di rappresentanza, assistenza ed autorizzazione, con assegnazione del termine relativo ai fini della regolarizzazione.

Pare trattarsi, secondo la terminologia di Proto Pisani, di verifiche assolutamente preliminari, che possono dare luogo ai provvedimenti previsti dagli artt. 182 (termine per la costituzione del soggetto legittimato e per il rilascio delle necessarie autorizzazioni) e 291 c.p.c. ( rinnovazione della notifica al convenuto contumace).

Nello stesso senso l’ultima parte dell’art.180 c.p.c. in ordine ai provvedimenti ex artt. 164 e 167 (rinnovo ovvero integrazione della domanda principale e riconvenzionale). L’adempimento di tali incombenze comporta un preventivo esame, quanto meno sommario - o meglio - parziale, della causa da parte del giudice. La ratio della norma, alla luce dell’ultima modificazione, pare quello di circoscrivere la funzione della prima udienza di comparizione ad una delibazione necessariamente limitata all’adempimento delle verifiche assolutamente preliminari, volendosi impedire la prosecuzione di un giudizio affetto da vizi processuali che ne potrebbe pregiudicare la decisione nel merito. A tal fine il legislatore dell’ottobre (DL 18/10/95 n. 432 come il precedente decreto n. 347) ha espressamente fatto rientrare tra tali adempimenti - e ciò conformemente a quanto ritenuto dal Tarzia nel commento del previgente testo dellaart,180 c.p.c. - l’esame della chiamata del litisconsorte necessario assente.

Tali ipotesi, che il Proto Pisani (p.131) in occasione dell’esame del precedente testo dellaart,183 c.p.c. aveva fatto rientrare tra le incombenze da valutare almeno dopo i chiarimenti richiesti dal giudice alle parti ex art.183 c.p.c., viene ora ritenuta assolutamente preliminare e da verificare prima di altre questioni, quali la giurisdizione, la competenza, la legittimazione ad agire e l’interesse ex art. 100 c.p.c., che andranno necessariamente valutate, in un secondo momento, ed in particolare dopo l’interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione da espletarsi nella prima udienza di trattazione.

Dall’ordine imposto dal legislatore nell’esame e nell’espletamento dei diversi incombenti si evince, da un lato, il tentativo di garantire attraverso una udienza ad hoc la regolarità processuale del giudizio, dall’altro la centralità del tentativo di conciliazione e la finalità deflattiva dello stesso: Sotto tale profilo la successione cronologica degli adempimenti consente di ritenere pienamente valida una conciliazione delle parti davanti al giudice che difetti ad esempio della giurisdizione o della competenza a conoscere della controversia.

Nello stesso senso va interpretato lo slittamento temporale delle preclusioni (eccezioni in senso stretto, modificazioni delle domande e delle eccezioni) previste già dal D.L. n.347 modificativo dei commi 4° e 5° dell’art.183 c.p.c.

Orbene dall’esame sistematico della novella emerge il principio secondo cui i provvedimenti incidenti nel merito debbono essere preceduti dalla verificazione della corretta integrazione del contraddittorio e regolare costituzione delle parti e successivamente della compiuta definizione del thema decidendum attraverso i numerosi strumenti previsti dal codice di rito (art. 180 secondo comma e 183 c.p.c.), previo tentativo di conciliazione.

Per quanto detto deve ritenersi che la pronuncia di provvedimenti diversi da quelli dettati dall’art.180 c.p.c. in sede di udienza di comparizione, deve tendenzialmente ritenersi esclusa se contraria a tali principi, ove in concreto l’adozione di tali atti andrebbe a vanificare il tentativo di conciliazione e la relativa capacità deflattiva, obbligando, altresì, il giudice ad una delibazione non supportata dagli strumenti spettanti oggi alle parti per definire l’oggetto del giudizio (termini per proporre eccezioni ex 180 II c. c.p.c., formulazione di domande ed eccezioni consequenziali ex 183 IV c. c.p.c. e memorie per modificare o precisare domande ed eccezioni ex 183 V c. c.p.c.) ed al giudice per conoscere della controversia ( interrogatorio libero e chiarimenti necessari alle parti ex art.183 III c. c.p.c.). Pertanto, il problema dell’ammissibilità di tali provvedimenti va risolto sul diverso piano dell’opportunità trattandosi di atti la cui adozione è subordinata da un lato alla ricorrenza di taluni elementi, ma soprattutto all’insussistenza di altri (come nel caso di specie: la prova scritta e la pronta soluzione della controversia) e che prescindono, sotto tale aspetto dalla rigida sequenza di attività ed adempimenti introdotta dal legislatore del 1995.

Ciò premesso deve ritenersi che non sussistono (ovvero non sono state allegate) nel caso di specie ragioni particolari di urgenza che non consentano di valutare nella relativa sede il provvedimento richiesto.

Per tali motivi rigetta l’istanza ex art. 648 c.p.c. e rinvia la causa all’udienza di trattazione del 30/1/96 alle ore 9.30 con termine all’opponente sino a 20 giorni prima per gli adempimenti eventuali di cui all’art.180 secondo comma c.p.c.

 

 

II

Tribunale di Bari, IV sez., 20 maggio 1996, ord. - G.I. Magaletti -

 

Nella prima udienza di comparizione il giudice può provvedere sulla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e comunque può compiere tutte quelle attività che non contrastino con la scansione di termini che il legislatore ha inteso riconoscere al convenuto nell’esercizio del proprio diritto di difesa.

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il termine per la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio va assegnato al creditore opposto.

 

...Omissis...

L’opposto all’udienza di prima comparizione ha chiesto la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo e l’opponente ha dedotto in via preliminare l’intempestività della richiesta e nel merito l’infondatezza della stessa per non essere il D.I. fondato su prova scritta ed in ogni caso per l’insussistenza del credito quanto meno nella misura riconosciuta dal Presidente del Tribunale. Per quanto attiene al problema preliminare deve osservarsi che sussiste contrasto in dottrina e tra i giudici di merito, anche di questo Tribunale, in ordine alla possibilità per il G.I. di pronunziarsi sulla richiesta di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo fin dalla prima udienza di comparizione. Secondo i sostenitori della tesi negativa l’elencazione delle attività che il G.I. deve compiere, contenuta nel primo comma dell’art. 180 c.p.c., sarebbe tassativa e non consentirebbe l’esame di nessun’altra questione laddove la tesi opposta fa leva sul carattere meramente esemplificativo di quella elencazione. Deve osservarsi in proposito che, quand’anche si accedesse alla tesi della tassatività dell’elencazione, superando il rilievo del carattere assiomatico di tale affermazione, la pretesa esaustività della disposizione citata sarebbe comunque limitata alle attività che il giudice deve porre in essere ma non esclude che lo stesso possa compiere altre attività che non contrastino con la scansione dei termini che da ultimo il legislatore ha inteso riconoscere al convenuto nell’esercizio del proprio diritto di difesa. Ai fini della soluzione della vexata quaestio è dunque necessario stabilire se la decisione in ordine alla richiesta di concessione della provvisoria esecuzione del D.I. opposto sia incompatibile con il diritto del convenuto di formulare le eccezioni non rilevabili d’ufficio nel termine che il G.I. deve stabilire ai sensi dell’art. 180 III° co c.p.c. La risposta a tale quesito è a sua volta subordinata all’individuazione del soggetto titolare del diritto alla concessione del termine sopradetto, questione che assume caratteri problematici nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo nei quali l’opponente, convenuto in senso sostanziale, processualmente assume la veste di attore, laddove l’opposto convenuto in giudizio è attore in senso sostanziale. La soluzione più corretta appare quella che individua nell’opposto la parte convenuta attribuendo rilevanza alla posizione processuale delle parti, considerata la natura esclusivamente processuale della norma in esame. Ciò chiarito, può pacificamente escludersi che la decisione sulla richiesta di emissione di provvedimenti ex art. 648 c.p.c. formulata dall’opposto possa interferire sul diritto di quest’ultimo di proporre le eccezioni in senso stretto nel termine di cui all’art. 180 c.p.c. Peraltro poiché il convenuto al fine di ottenere la provvisoria esecuzione ha interesse a "scoprire le proprie carte "immediatamente, il termine sopradetto, in siffatti giudizi, si rivela privo di qualsiasi utilità. Inoltre poiché il giudizio civile è pur sempre un giudizio di parti e poiché il termine in esame è previsto solo in favore del convenuto ben può quest’ultimo rinunziarvi senza che sia necessario il consenso dell’altra parte. A diverse conclusioni dovrebbe pervenirsi ove si individuasse nell’opponente la parte titolare del diritto alla concessione del termine sopradetto: infatti il riconoscimento del potere del giudice di pronunziare provvedimento ex art. 648 c.p.c. alla prima udienza costringerebbe l’opponente all’ immediata proposizione delle eccezioni senza il rispetto del termine sopradetto. Alla stregua di tali considerazioni devesi pertanto ritenere l’ammissibilità della richiesta formulata dall’opposto.

Per questi motivi concede la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto; rinvia per la prima udienza di trattazione al 25/10/96 assegnando all’opposto termine fino al 30/9/96 per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.

 

 

III

Tribunale di Taranto, 12 luglio 1996, ord. - G.I. De Marzo - Califano c. D’Amato

 

Nella prima udienza di comparizione il giudice può trattare le richieste cautelari giacché esse, in quanto fondate su una sommaria cognitio, non sono correlate alle scansioni procedimentali che mirano a definire il thema decidendum ed il thema probandum.

 

Ritenuto che il disposto del primo comma dell’art. 180 c.p.c., nell’indicare le verifiche processuali da compiere nel corso dell’udienza di prima comparizione, non preclude la possibilità di trattare, in quest’udienza, le richieste cautelari, giacché esse, in quanto fondate su una sommaria cognitio, non sono correlate alle scansioni procedimentali che mirano a definire il thema decidendum ed il thema probandum;

- ritenuto che, in ogni caso, l’esigenza di adeguare ai successivi sviluppi del processo la misura cautelare eventualmente disposta è assicurata dai rimedi della revoca e della modifica, previsti dall’art. 669decies c.p.c.

...Omissis...

IL COMMENTO

di Umberto Volpe

In senso positivo sulla possibilità di provvedere sulla esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto già all’udienza di prima comparizione, v. Trib. Bari, ord. 18 ott. 1995; Trib. Trani, ord. 11 nov. 1995; e, in senso contrario, Trib. Bari, ord., 18 ott. 1995, tutte in Quaderno Barese, n.2, 15, nonché in Corriere giur., 1996, 697, con mia nota, alla quale rinvio; adde, in senso affermativo, Trib. Roma, ord. 7 mag. 1996, in Giur. it., 1996, I, 2, 637; Pret. Macerata, ord. 6 feb. 1996, in Foro it., 1996, I, 2341; Pret. Pistoia, ord. 16 nov. 1995, id., 1996,I, 3242; Pret. Foggia, ord. 22 gen. 1996, in Giur. merito, 1996, I, 663; in dottrina RICCARDI, Provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ex art. 648 c.p.c.: la possibile concessione nella prima udienza di comparizione (così come modificata dai d.l. n. 238, 347 e 432 del 1995 conv. In l. 20 dicembre 1995, n. 534) e riflessioni sulla rilevanza del periculum in mora, in Giur. merito, 1996, I, 3; DIDONE, Processo ordinario di cognizione e fallimento, Milano, 1996, 19; TARZIA, Interventi urgenti sul processo civile (l. 20 dicembre 1995 n. 534), Commentario a cura di Cipriani e Tarzia, in Nuove Leggi civ., 1996, 616; LUISO (CONSOLO-SASSANI), Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 130, per il quale "in effetti, se già prima, nel previgente sistema, sull’istanza il giudice poteva provvedere in prima udienza, non si vede perché non possa farlo ora. Ed infatti, ora come allora il materiale del giudizio di opposizione non necessariamente è completo nella prima udienza: anzi, ieri lo era meno che oggi"; BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. it., 1996, IV, 265, che, in particolare, fa riferimento a tutti i provvedimenti, aventi natura anticipatoria o lato sensu cautelare (e quindi anche alle ordinanze previste dagli artt. 186bis e 186ter c.p.c.), che il legislatore, implicitamente o esplicitamente, ammette in qualunque momento del processo; contra, nel senso che la decisione sull’istanza ex art. 648 c.p.c. vada necessariamente riservata alla successiva udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., Trib. Torino, ord. 16 gen. 1996, in Giur. it., 1996, I, 2, 233; Pret. Tolmezzo, ord. 30 gen. 1996, e Pret. Napoli, ord. 26 gen. 1996, entrambe in Foro it., 1996, I, 3242; in dottrina GRANZOTTO, L’ingiunzione di pagamento nella prima udienza di comparizione del nuovo processo civile, in Giur. merito, 1996, I, 211, secondo cui il legislatore ha concepito la prima udienza di comparizione come una fase processuale "di controllo" il cui solo compito è di aprire le porte del processo quando questo sia stato correttamente instaurato.

Più in generale, in ordine alle problematiche legate al contenuto e alla incerta natura cautelare del provvedimento di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, cfr., fra gli altri, SCARSELLI, In difesa dell’art. 648, 1° comma, c.p.c., in Foro it., 1996, I, 2143; CAVALLINI, Esecutorietà provvisoria del decreto ingiuntivo opposto ex art. 648 comma 1 c.p.c. e pericolo nel ritardo: una questione non sopita, in Giur. it., 1994, I, 2 535; FORNACIARI, La provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto e l’ordinanza provvisoria del rilascio tra tutela cautelare e tutela giurisdizionale differenziata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 1007; CONTE, Il procedimento per decreto ingiuntivo tra diritto di difesa e principio d’eguaglianza, in Riv. dir. proc., 1993, 1196.

Sulla connessa e ancora incerta questione della individuazione, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, della parte (opposto-convenuto sostanziale ovvero opponente-convenuto formale) che debba beneficiare del termine previsto dall’ultimo comma dell’art. 180 c.p.c., v. SPADA, Attore e convenuto nell’opposizione a decreto ingiuntivo, in Quaderno barese n. 2, 17, nonché in Corriere giur., 1996, 699.

Quanto, infine, ai provvedimenti schiettamente cautelari non sussistono dubbi, a fronte della disciplina uniforme dettata dagli art. 669bis e seguenti c.p.c., che essi possano essere adottati in ogni momento della causa (finanche prima che sia iniziata o sia stato nominato l’istruttore) e quindi certamente anche nella prima udienza di comparizione.

 

  1. Art. 180 c.p.c. (Udienza di prima comparizione)
  2. Torna all'indice

    3.2) UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E DECISIONE DELLA CAUSA

    I

    Tribunale di Bari, II sez., 28 luglio 1996, ord. - G.I. Cassano - Prisma Diemme S.r.l. c. Lasaponara Nolè S.n.c.

     

    In caso di contumacia del convenuto, all’udienza di prima comparizione il giudice può rinviare la causa per la precisazione delle conclusioni senza assegnare il termine per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.

     

    ...Omissis...

    La disposizione di cui all’art. 180, co. II, c.p.c. è stata dettata essenzialmente per ovviare al trattamento deteriore riservato secondo taluno alla parte convenuta, costretta a predisporre le proprie difese nei soli termini contemplati dal novellato art. 163 bis c.p.c., pur in presenza di un rafforzato regime delle preclusioni.

    Ne è seguita una disposizione affatto inconferente rispetto allo scopo, che ha generalizzato l’udienza di comparizione come strutturalmente distinta da quella di trattazione, riservata alle mere questioni ivi elencate.

    Sennonché, la circostanza evidenzia che l’art. 180, co. II, c.p.c. contempla un termine dettato nell’interesse esclusivo della parte convenuta e non anche a tutela del celere e razionale sviluppo del processo.

    Sicché, ben potrebbe darsi che le parti interessate vi rinunzino, con apposito negozio processuale, sicuramente valido ed efficace.

    Ove la causa sia matura per la decisione, il giudice invita le parti a precisare le rispettive conclusioni, senza dover rinviare la procedura all’udienza di trattazione. Ciò in quanto la disposizione che contempla siffatto potere (art. 80 bis disp. att. c.p.c.) è rimasta intonsa e lo stesso rinvio previsto dall’art. 180, co. II, essendo finalizzato alla proposizione di eccezioni non rilevabili d’ufficio, non preclude l’invito alla precisazione delle conclusioni ove ad es. emergano questioni rilevabili d’ufficio.

    La contraria tesi implica che il giudice debba disporre il rinvio dell’iter procedimentale in favore di una parte che non è presente nel processo e che potrebbe non esserlo mai, in violazione di quei principi costituzionali di razionalità e di efficacia del processo (art. 97 cost), cui l’interpretazione della norma deve ispirarsi.

    In altri termini, il convenuto può avvalersi del termine di cui all’art. 180 cit. soltanto ove sia costituito, mostrando concreto interesse al processo e, non diversamente da quanto costantemente ritenuto dal Supremo Collegio nel vigore della precedente disciplina, qualora si costituisca tardivamente è tenuto ad accettare il processo nello stato in cui esso si trova, salva l’ipotesi di rimessione in termini.

    Opinare diversamente impone tra l’altro l’alternativa di dovere ritardare all’udienza di trattazione la declaratoria di contumacia, ovvero di ammetterla anche all’udienza di comparizione, senza però poter inferire le conseguenze tutte, nell’ipotesi di causa matura per la decisione.

    Pertanto, non è dato riscontrare alcun error in procedendo nel rinvio per la precisazione delle conclusioni operato, contumace la convenuta, nella prima udienza di comparizione (cfr. Pret. Bari, 25 ottobre 1995, in Quaderno barese, n. 2, pag. 19).

    ...Omissis...

     

     

    II

    Pretura di Lecce, 9 aprile 1996, ord. - Giud. Esposito - Picciolo c. Concessionaria Peugeot

     

    Non può concedersi al termine dell’udienza di prima comparizione, anche in caso di contumacia del convenuto, l’ordinanza ex art. 186quater c.p.c., non essendo ancora stato assegnato il termine per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.

    L’ordinanza ex 186quater c.p.c. non può essere pronunciata nei casi in cui la richiesta di condanna presupponga una pregiudiziale pronuncia costitutiva.

     

    Rilevato che il primo presupposto per l’emanazione dell’ordinanza ex art. 186quater è costituito dall’avvenuto esaurimento dell’ istruzione, da valutarsi ad opera del Giudice in funzione della definizione della causa;

    considerato che una tale situazione non può essere ravvisata nell’udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. (nel corso della quale, nella specie, il provvedimento è stato richiesto), non essendo stato ancora assegnato al convenuto il termine (da accordare anche in caso di contumacia) per la proposizione di eccezioni non rilevabili d’ufficio, alla luce delle quali soltanto può compiersi una prima valutazione in ordine alla necessità di istruire la causa;

    rilevato, inoltre, che l’istanza può essere pronunciata nelle sole ipotesi in cui sia proposta "domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni" e non già nei casi in cui, come nella specie, la richiesta di condanna presupponga una pregiudiziale pronuncia costitutiva, quale è quella di risoluzione del contrasto per inadempimento;

    ritenuto che una diversa interpretazione sarebbe in contrasto con la ratio della norma, in quanto comporterebbe l’espansione dell’ operatività dello strumento anticipatorio di cui all’art.186quater oltre l’ambito dei giudizi rigorosamente determinati da legislatore;

    rigetta l’istanza di emissione dell’ordinanza ex art.186quater.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Umberto Volpe

    I provvedimenti in rassegna evidenziano la difficoltà di offrire un’interpretazione univoca e non controversa dell’art. 180 c.p.c. e, di conseguenza, di individuare, una volta per tutte, il ruolo della prima udienza di comparizione nel rito ordinario novellato.

    Che la soluzione non sia piana ed agevole si ricava indubbiamente dalle pronunce di segno opposto sinora susseguitesi in via alternata nella giurisprudenza di merito, nonché dal fervido, e parimenti incerto, dibattito dottrinale sul tema.

    Recita il 2° comma dell’art. 180: "La trattazione della causa davanti al giudice istruttore è orale. Se richiesto, il giudice istruttore può autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170. In ogni caso fissa a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio".

    Se può forse condividersi (in senso contrario v., tuttavia, Trib. Roma, ord. 25 gen. 1996, in Giur. merito, 1996, I, 211, con nota adesiva di GRANZOTTO) la tesi esposta da LUISO (in CONSOLO - LUISO -SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 119, nonché in Il decreto legge 21 giugno 1995 n. 238 sul processo civile, in Giur. it., 1995, IV, 245) e ripresa da TARZIA (in Interventi urgenti sul processo civile (l. 20 dicembre 1995 n. 534), Commentario a cura di Cipriani e Tarzia, in Nuove Leggi civ., 1996, 616), secondo cui nell’ottica della separazione fra fase introduttiva e fase di trattazione, oggetto della udienza di prima comparizione sono tutte le attività attinenti alle questioni processuali potenzialmente idonee ad assorbire la trattazione nel merito della causa e, quindi, il giudice dovrà occuparsi non soltanto delle questioni indicate nella norma, ma altresì di tutte quelle attinenti ad altri presupposti processuali, non altrettanto può dirsi della possibilità di procedere immediatamente alla trattazione o addirittura alla decisione della causa nelle ipotesi in cui il convenuto alla prima udienza sia rimasto contumace ovvero, pur costituito, non abbia richiesto espressamente l’assegnazione del termine indicato dalla norma.

    In giurisprudenza, in senso contrastante sulle conseguenze della contumacia del convenuto v. Trib. Bari, ord. 26 sett. 1995, e Pret. Bari, 25 ott. 1995, in Quaderno Barese, n. 2, 19, nonché in Corriere giur., 1996, 701 con nota di richiami di POLISENO alla quale si rinvia; adde, nel senso che il giudice può ammettere immediatamente le prove dedotte dall’attore, Pret. Reggio, ord. 21 dic. 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 404; nel senso che il differimento dell’udienza per la trattazione della causa è obbligatorio anche in caso di contumacia del convenuto, Trib. Modena, ord. 1° mar. 1996, in Gazz.Giur.Giuffrè-ItaliaOggi, 1996, 27, 21.

    Sostanziale incertezza persiste anche in dottrina, contrapponendosi coloro i quali si attengono ad una critica esegesi letterale della disposizione normativa a coloro che, nel tentativo di ricondurla a ragionevolezza, ne ampliano la portata precettiva.

    Nel senso che "la disposizione ha un indiscutibile tenore imperativo, ed obbliga "in ogni caso" il giudice a fissare l’udienza ex art. 183", con la precisazione che "la mancanza di riferimento alla circostanza che il convenuto sia costituito induce a ritenere che la contumacia sia del tutto ininfluente" v. DALMOTTO, Rapide critiche al recentissimo divieto di procedere all’ammissione delle prove in sede di prima comparizione anche quando il convenuto sia contumace, in Giur. it., 1995, I, 2, 873; BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. it., 1996, IV, 268; TRISORIO LIUZZI, La difesa del convenuto e dei terzi nella nuova fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, in Giur. it., 1996, IV, 87; CAPPONI, Note sui nuovi art. 180 e 183 c.p.c., in Foro it., 1996, I, 1078; FRASCA, Il processo civile: la decretazione d’urgenza, a cura di D’AIETTI - FRASCA - MANZI - MIELE, Milano, 1995, 63; e che, pertanto, poiché la separazione in due udienze di attività che precedentemente erano riunite in una, comporta l’impossibilità di anticipare alcune attività previste nella seconda udienza alla prima e, soprattutto, di far precisare le conclusioni fin dalla prima udienza in base all’art. 80-bis disp.att. - possibilità che al contrario, doveva riconoscersi in base alla riforma del 1990 - "il convenuto che non debba proporre domande riconvenzionali o chiamate del terzo può tranquillamente rimanere a casa ... per poi costituirsi venti giorni prima dell’udienza ex art. 183 deducendo nella comparsa di risposta le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio" (così CAPPONI, op. cit., 1078; COSTANTINO, Scritti sulla riforma della giustizia civile (1982 - 1995), Torino, 1996, 427; BUCCI, op. cit., 29; FRASCA, op. cit., 64).

    Contra, nel senso che l’assegnazione del termine contemplato dall’art. 180, comma 2°, c.p.c. presuppone comunque l’avvenuta costituzione del convenuto, "essendo inammissibile ed estranea al sistema l’assegnazione di un termine ad una parte contumace", dal momento che "solo in presenza di un contraddittorio effettivo (...) ha significato, da un lato, l’autorizzazione alla comunicazione di comparse e dall’altro lato l’assegnazione di un termine al convenuto per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio", trattandosi semplicemente del completamento di un’attività difensiva che deve pur sempre preesistere, v. MANDRIOLI, Ancora sul nuovo art. 180, 2° comma c.p.c., in Riv. dir. proc., 1996, 389; TARZIA, op. cit., 612 ss.; VERDE, Il nuovo processo di cognizione, Napoli, 1995, 22; DIDONE, op. cit., 20; pertanto, in altri termini, "se il convenuto è contumace, oppure essendo costituito, non richiede il termine in questione, il giudice può procedere alla trattazione della causa e, se del caso, alla precisazione delle conclusioni ex art. 80-bis disp.att." (così LUISO, Commentario. cit., 120).

    In ordine, infine, alle condizioni di ammissibilità per la pronuncia dell’ordinanza ex art. 186quater c.p.c., v. in questo fascicolo i provvedimenti riportati al n. 6 con nota di DALFINO.

     

  3. Chiamata in causa del terzo
  4. Torna all'indice

    4.1) IL DIFFERIMENTO DELL’UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE

    Tribunale di Lecce, 16 gennaio 1996, ord. - Giud. Cigna - Carlino c. Gavazzeni S.p.a.

     

    E’ inammissibile l’istanza del convenuto di essere autorizzato a chiamare un terzo in causa, qualora non contenga anche la richiesta di spostamento dell’udienza di prima comparizione

     

    ...Omissis...

    rilevato che, alla stregua dell’art. 269 c.p.c. "il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al G.I. lo spostamento della prima udienza..." che, pertanto, come univocamente desumibile dall’uso dell’avverbio "contestualmente", il convenuto che intenda ritualmente chiamare un terzo in causa deve, nella comparsa di risposta, sia rendere la relativa dichiarazione sia richiedere al G.I. lo spostamento della prima udienza;

    che siffatta decadenza è da ritenersi espressamente prevista dall’art. 167 c.p.c. atteso il letterale richiamo, ivi contenuto, al predetto art. 269 c.p.c.;

    che, quindi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 167, 171 comma 2° e 269 c.p.c. il convenuto che intenda ritualmente chiamare in causa un terzo deve, a pena di decadenza, costituirsi almeno 20 gg. prima dell’udienza do comparizione e, nella comparsa di risposta, dichiarare di volere chiamare in causa un terzo e chiedere al G.I. lo spostamento della prima udienza;

    che, diversamente, il consentire al convenuto (che, pur, dichiarando di volere chiamare un terzo in causa, non abbia richiesto in comparsa anche lo spostamento della prima udienza) di potere poi richiedere alla prima udienza di comparizione termine per detta chiamata con fissazione di nuova prima udienza, si risolverebbe, peraltro, in una ingiustificata e comunque non prevista facoltà del convenuto medesimo di allungare a suo piacimento i tempi del processo, in contrasto con la volontà del legislatore di arrivare alla prima udienza di comparizione con contraddittorio già integro per ciò che concerne il terzo;

    che, nel caso di specie, il convenuto non ha richiesto il predetto spostamento ed è, pertanto, incorso nella prevista decadenza;

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Barbara Poliseno

    In termini, Pret. Bari 5 gennaio 1995, in Corriere giuridico, 1996, 6, 703, con commento di B. POLISENO, nonché in Quaderno barese II, 22, a cui adde, nello stesso senso, Trib. Trani 19 gennaio 1996, in corso di pubblicazione in Foro it. e, in dottrina, A. SALETTI, in Interventi urgenti sul processo civile (l. 20 dicembre 1995, n. 534 di conversione del d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432), Commentario a cura di F. CIPRIANI e G. TARZIA, in Le nuove leggi civ., 1996, 4, 602; nel senso che, ove il convenuto ometta di chiedere al giudice lo spostamento dell’udienza, decade dal potere di chiamare in causa il terzo e che tale decadenza è rilevabile d’ufficio, Trib. Milano 19 dicembre 1995, in corso di pubblicazione in Foro it.

     

  5. Chiamata in causa del terzo
  6. Torna all'indice

    4.2) ATTORE E CONVENUTO NELL’OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO E CHIAMATA DEL TERZO

    Tribunale di Trani, sez. II, 15 gennaio 1996, ord. - G.I. D’Oronzo - Civitano c. Martino

     

    Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la chiamata in giudizio del terzo chiesta dall’attore - opponente nell’atto di opposizione può essere autorizzata soltanto quando l’interesse alla chiamata sia sorto dalle difese del convenuto

     

    ...Omissis...

    Premesso che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il debitore promuove l’iniziativa del giudizio e pertanto - benché da un punto di vista sostanziale, e con riguardo alla ripartizione dell’onere della prova, la qualità di attore spetti al creditore che abbia chiesto l’ingiunzione e quella di convenuto al debitore opponente - da un punto di vista formale deve ritenersi che quest’ultimo vada parificato all’attore dell’ordinario giudizio di cognizione (cfr. Cass. 26.2.1990, n. 1442 ) -, consegue che ad esso la disposizione dell’art. 269, c. 3, c.p.c. in ordine alla chiamata in causa del terzo.

    Dalla chiara formulazione di tale norma si evince che la facoltà riconosciuta all’attore di chiamare in causa un terzo, previa autorizzazione del giudice da chiedersi alla prima udienza, è subordinata alla condizione che l’interesse alla partecipazione del terzo sorga in capo all’attore in conseguenza delle difese svolte dal convenuto al momento della sua costituzione.

    Tale limite ha una sua ragione di essere: l’attore infatti ha già di per sé il potere, fin dall’inizio della controversia, di realizzare il cumulo soggettivo, citando il terzo insieme al convenuto ai sensi dell’art. 103 c.p.c., ovvero provvedendo alla sua chiamata prima della prima udienza, nel rispetto del termini di comparizione, nel caso in cui la udienza stessa sia stata differita ai sensi dell’art. 168 bis, c.5°, c.p.c.

    Va peraltro rilevato che dal combinato disposto degli artt. 167 e 269 c.p.c. il termine ultimo per la chiamata di un terzo da parte del convenuto - ove ad esso si ritenga equiparabile l’attore nel giudizio di opposizione - è costituito da una fattispecie complessa, costituita:

    1 - dalla dichiarazione contenuta nella comparsa di risposta, tempestivamente depositata, di volere chiamare in causa un terzo;

    2 - dalla contestuale richiesta al giudice dello spostamento della prima udienza, nella forma del ricorso da depositarsi nella cancelleria del giudice istruttore o in ogni altra forma idonea allo scopo;

    3 - dal decreto del giudice di fissazione della nuova udienza di prima comparizione;

    4 - dalla notificazione della citazione del terzo su istanza del convenuto, e dalla comunicazione alle parti costituite della nuova prima udienza.

    Tale meccanismo è stato previsto dal legislatore allo scopo di consentire la partecipazione di tutte le parti del processo sin dal suo esordio in condizioni di parità e, correlativamente, di impedire che la prima udienza sia rinviata per l’iniziativa di una sola parte.

    Peraltro, vi è l’esigenza - fondamentale nella struttura del nuovo processo - che il giudice pervenga alla prima udienza con la completa cognizione dei termini effettivi della lite; siffatto meccanismo sarebbe sconvolto ove si permettesse al convenuto di proporre l’istanza direttamente alla prima udienza " in quanto non si avrebbe più la chiara individuazione dell’oggetto della lite al fine di un rapido e soprattutto razionale svolgimento della controversia".

    Non sembra spostare i termini della questione la formulazione del nuovo articolo 180 c.p.c. (come novellato dall’art. 4 d.l. 21.6. 1995, n.238), che ha disciplinato la prima udienza di comparizione delle parti, prevedendo che in essa il giudice debba limitarsi a verificare l’integrità del contraddittorio, la validità della citazione e della domanda riconvenzionale, l’assenza di irregolarità della costituzione per difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione e a concedere al convenuto un termine per proporre le eccezioni rilevabili di ufficio.

    Pur distinta dall’udienza di trattazione, anche questa udienza mira a garantire un più razionale svolgimento del processo, e in particolare ad eliminare ogni vizio relativo alla costituzione delle parti e alla integrazione del contraddittorio.

    Poiché nel caso in esame, come si è detto, l’esigenza di chiamare in causa il terzo non è sorto in capo all’opponente a seguito delle difese del convenuto, non vi è luogo al provvedimento di autorizzazione ex art. 269, c. 3°, c.p.c.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Maria Laura Spada

    Non constano precedenti editi in termini.

    Sulla questione relativa alla individuazione delle posizioni delle parti nella opposizione a decreto ingiuntivo, v. Trib. Bari, 15 gennaio 1996 e Trib. Bari, 25 novembre 1995, in Quaderno barese II, 1996, 17 nonché in Corriere giuridico, 1996, 6, 698 con commento di SPADA cui adde: sull’intervento ad istanza di parte regolato dall’art. 269 c.p.c. e modificato dall’art. 29 della l. 26 novembre 1990 n. 353 v., CONSOLO, in Commentario alla riforma del processo civile, a cura di CONSOLO-LUISO-SASSANI, Milano, 1996, 234; TRISORIO LIUZZI, La difesa del convenuto e dei terzi nella nuova fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, in Giur. it. 1995, IV, 73; LAZZARO, (GUERRIERI-D’AVINO), L’esordio del nuovo processo civile, Milano, 1996, 58; CAPUTO, La nuova normativa sul processo civile, II ed., Padova, 1996, I, 1081; BALENA, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 246; RAMPAZZI, in Le riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, Bologna, 1992, 308.

     

  7. Provvedimenti anticipatorii di condanna
  8. Torna all'indice

    5.1) ORDINANZA EX ART. 186BIS E CONTESTAZIONE PRETESTUOSA

    Tribunale di Bari, sez.II, 12 giugno 1996, ord. - G.I. Labellarte - L.T.O. c. Sant’Amato s.n.c.

     

    L’ordinanza di pagamento di somme non contestate può essere pronunciata anche a fronte di una contestazione del tutto pretestuosa

     

    ...Omissis...

    La società attrice ha richiesto la emissione dell’ordinanza di cui all’art. 186 bis c.p.c..

    La convenuta costituita ha genericamente dedotto che il prezzo della merce venduta va ridotta perché la stessa sarebbe parzialmente affetta dei vizi prontamente denunciati, senza indicare la asserita riduzione. Null’altro è detto in comparsa di costituzione e nel fascicolo di parte convenuta. La contestazione è quindi del tutto pretestuosa non essendo stati neppure allegati fatti a sostegno dell’eccezione relativa all’esistenza di vizi.

    L’antecedente storico dell’art. 186 bis c.p.c. è da individuare nell’art. 423 c.p.c.

    La convenuta, in sostanza, non contesta di aver ricevuto la merce, né contesta l’entità del credito, perché la difesa (del tutto pretestuosa) investe solo una invocata e non meglio precisata riduzione del prezzo per vizi ( non indicati né quantitativamente né qualitativamente).

    La giurisprudenza formatasi attorno all’art. 423 c.p.c. è pacificamente orientata nel senso che l’ordinanza è ammissibile anche se - ferma restando la valutazione delle prove in atto - la contestazione sia pretestuosa (Cass. 4 ottobre 1984 n. 4941).

    Orbene - pur essendovi qualche differenza tra gli art. 186 bis e 423 c.p.c. ad es. in ipotesi di contumacia del convenuto - il concetto di mancata contestazione elaborato in riferimento all’art. 423 c.p.c. può senz’altro essere preso a prestito ai fini dell’art. 186 bis c.p.c.

    Nella specie il credito, sostanzialmente non contestato, è provato anche dalla documentazione prodotta dall’attrice.

    L’ordinanza può quindi essere concessa ed ai sensi dell’art. 1278 c.c. può ordinarsi il pagamento in sterline inglesi.

    ...Omissis...

    5) Provvedimenti anticipatorii di condanna

    5.2) istanza di ingiunzione ex art. 186ter c.p.c. e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo

    Tribunale di Bari, sez. II, 25 settembre 1996, ord. - G.I. Labellarte

     

    Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non possono essere concessi, su istanza dell’opposto, i provvedimenti anticipatori di condanna di cui agli art. 186 bis e 186 ter

     

    ...Omissis...

    L’opposta ha chiesto la concessione della ordinanza per il pagamento di somme non contestate ai sensi dell’art. 186 bis c.p.c. ovvero - in via subordinata - la ordinanza di ingiunzione ai sensi dell’art. 186 ter c.p.c.

    L’art. 186 bis c.p.c. trova il suo antecedente legislativo nell’art. 423 c.p.c. ed il dato comune dei due istituti è costituito dall’accertata esistenza della "non contestazione" da parte del debitore della somma reclamata da controparte o di una porzione di essa.

    Si discute - così come è avvenuto in riferimento all’art. 423 c.p.c. - se oggetto di "non contestazione" debba essere il diritto di credito o piuttosto i suoi fatti costitutivi.

    Sembra, allo stato più accreditata la seconda opinione, atteso che, nel linguaggio giuridico, l’espressione "non contestazione" è comunemente riferita ai fatti, mentre in relazione al diritto od alla domanda si usa, più correttamente l’espressione "riconoscimento".

    La "non contestazione" di cui all’art. 186 bis c.p.c. deve - comunque - essere chiara ed inequivoca e quella di cui all’art. 423 c.p.c. ricorre quando la stessa impostazione del convenuto postuli l’esistenza del credito.

    In definitiva, può accedersi alla richiesta ex art. 186 bis c.p.c. solo se la "non contestazione" sia chiara ed inequivoca.

    Nella specie, invece, è chiara ed inequivoca la contestazione dell’opponente, come risulta dal verbale di causa.

    Invero, sulla scorta del dibattito che si è formato intorno al all’art. 423 c.p.c., è certo che anche l’ordinanza 186 bis c.p.c. abbia natura negoziale con la conseguenza che l’ordinanza ex art. 423 c.p.c. non possa emettersi nei confronti del contumace.

    Tale è il prevalente orientamento, benché l’art. 423 nulla dica in proposito.

    Va detto anzi che detta natura negoziale valga "a fortiori" per l’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c., atteso che detta norma esclude espressamente dal proprio ambito applicativo l’ipotesi di contumacia, essendo prevista necessariamente la costituzione in giudizio della parte contro cui l’ordinanza viene emessa.

    Nella specie, l’accordo processuale non si è affatto formato e, quindi, l’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c. non può essere concessa.

    Tale conclusione assorbe l’altra questione, vivamente dibattuta, circa la possibilità di emettere la predetta ordinanza anche nei procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo , questione della quale si tratterà qui di seguito , se pure con riguardo all’art. 186 ter c.p.c.

    La possibilità di emettere l’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 186 ter c.p.c. nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo costituisce uno dei punti più discussi della novella introdotta dalla legge n. 353/90.

    L’orientamento prevalente è senz’altro quello negativo ( Trib. Napoli, 13/5/94, in Giur. it., 1995, I, 2, 293; Trib. Mondovì 25/8/94, in Foro it., 1995, I, 331; Trib. Milano, 16 maggio 1995, in Foro it., 1995, I, 2588), mentre risulta pubblicata la sentenza del Tribunale di Pistoia del 12/10/ 94 (in Foro it., 1995, I, 331), la quale ammette la possibilità di emettere sia l’ordinanza 186 bis, che quella ex art. 1896 ter c.p.c., purché per somme diverse da quelle ingiunte.

    L’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 186 ter costituisce uno strumento che consente l’innesto, in un processo ordinario di cognizione, del procedimento speciale di ingiunzione di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c.

    Se si parte da tale dato incontrovertibile, appare certamente una forzatura ammettere, anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, una tutela speciale ingiuntiva, perché essa si inserirebbe sì in un processo ordinario di cognizione, ma avente la particolarità di essere sorto in conseguenza di un procedimento monitorio.

    L’art. 645 c.p.c. introduce e detta le regole del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo e, agli artt., 648 e 649 seguenti, il codice prevede meccanismi del tutto peculiari in tema di esecutività del decreto opposto.

    L’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c. costituisce a sua volta titolo esecutivo.

    A ben vedere, sia l’art. 648 che l’art. 186 ter c.p.c. contemplano ipotesi di condanna anticipata e provvisoria, con riserva di esame delle eccezioni, sicché la presenza dell’art. 648 c.p.c. rende inapplicabile l’art. 186 ter c.p.c., stante l’indubbio rapporto di specialità esistente tra un ordinario giudizio cognitivo ed il procedimento di cui all’art. 645 c.p.c.

    Inoltre appare insuperabile l’obiezione che, nell’ipotesi di emissione dell’ordinanza per una somma inferiore a quella ingiunta e di estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si otterrebbe il risultato dell’esecutività del decreto ingiuntivo per una determinata somma ex art. 653 c.p.c. e della contemporanea esecutività dell’ordinanza ingiunzione, ex artt. 186 ter e 653 c.p.c. per un importo diverso.

    Ciò comporta l’impossibilità di concedere i provvedimenti ex art 186 bis e 186 ter c.p.c. avanzate dall’opposta.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Maria Laura Spada

    Sulla contestazione "pretestuosa", con riferimento all’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c. non sussistono precedenti editi in termini.

    Sulla individuazione del significato dell’espressione "non contestazione di somme" contenuta nell’art. 186 bis c.p.c. v., Proto Pisani, I provvedimenti anticipatori di condanna, in Foro it., 1990, V, 234; Ricci, Per un’efficace tutela ingiunzionale dei diritti di obbligazione nell’ordinario processo civile, in Riv. dir. proc., 1990, 1021; Mandrioli, Le nuove ordinanze di pagamento e di ingiunzione nel processo ordinario di cognizione, in Riv. dir. proc., 1991, 645; Attardi, Le ordinanze di condanna nel giudizio ordinario di cognizione di primo grado secondo la legge di riforma in Giur. it., 1992, IV, 1; Fabiani, I provvedimenti a funzione prevalentemente deflattiva, in Foro it. 1993, I, 1993 in nota a Pret. Verona, 29 marzo 1993; Civinini, Le condanne anticipate, in Foro it., 1995, 332 in nota a Tribunale Pistoia 12 ottobre 1994 e Tribunale Mondovì 25 agosto 1994.

    Sulla possibilità di emanare un’ordinanza di pagamento ex art. 423, 1° comma, c.p.c. in presenza di una contestazione prima facie pretestuosa v., Cass. 4 ottobre 1984 n. 4941, Foro it., Rep. 1984, voce Lavoro e previdenza (controversie) n. 232, richiamata anche in motivazione, nella quale, peraltro, tale affermazione costituisce un mero obiter dictum, in quanto la questione decisa riguardava l’impossibilità di pronunciare il provvedimento nei confronti del contumace.

    Con riguardo ai presupposti e alla disciplina dell’ordinanza prevista dall’art. 423, 1° comma, c.p.c. v., Proto Pisani (Andrioli-Barone-Pezzano), Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, 742; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano 1987, 184.

    Nel senso che, non possono essere concessi nel corso del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo i provvedimenti anticipatori di condanna di cui agli art. 186 bis e186 ter c.p.c. v., Trib. Milano 16 maggio 1995, Foro it., 1995, I, 2588; Trib. Mondovì 25 agosto 1994, id., 1995, I, 332 con nota di CIVININI, cit.; Trib. Napoli 13 maggio 1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 293; Trib. Bari 24 novembre 1994, in Quaderno barese II a cura dell’Osservatorio sulla giustizia civile, 1996, 28, nonché in Corriere giuridico, 1996, 6, 704 con nota di VOLPE.

    Contra, Trib. Pistoia 12 ottobre 1994, Foro it., 1995, I, 331 con nota di CIVININI, cit. Trib. Taranto 19 ottobre 1994, id., 1995, I, 2588.

     

  9. Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione
  10. Torna all'indice

    CASI DI INAMMISSIBILITA’ DELL’ORDINANZA EX ART. 186QUATER C.P.C.

    I

    Tribunale di Bari, sez. II, ord. 6 settembre 1996; Giud. istr. Cassano; Meridionalgas GPL s.r.l. c. IMEGAS Adriatica s.r.l.

     

    L’istanza di concessione dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è inammissibile, allorché la domanda di condanna sia conseguenza di un’azione costitutiva.

     

    ... Omissis...

    osserva che alla stregua dei principi che regolano il nostro sistema processuale civile deve escludersi che possa essere pronunciata l’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. allorché la domanda di condanna sia conseguenza di un’azione costitutiva (v. Ord. Trib. Trani, 8.7.95, in Foro it., 1995, I, 3630, nonché Ord. Trib. Chiavari, 28.8.95, in Foro it., 1995, I, 3306). Premesso che la titolarità ed i modi di esercizio del potere decisorio sono oggetto di puntuale disciplina del legislatore e che il provvedimento di cui all’art. 186 quater c.p.c. può assumere carattere anticipatorio solo con riferimento alla pronuncia di condanna, in difetto di una norma esplicita, non può essere attribuita ad un provvedimento del G.I. che ha attitudine al giudicato, un’efficacia tale da comprendere anche deliberazioni riservate al Collegio e per le quali si ritiene che la potestà di decidere sorga dopo che le parti hanno discusso la causa. A tali considerazioni dobbiamo aggiungere quelle relative al principio della unitarietà della sentenza, coniderato che la rimesione parziale in decisione è consentita solo nei casi previsti dalla legge (v. artt. 187, 2 e 3 co., 22, 272, 278 c.p.c.), i quali tra l’altro evidenziano tutti la necessità che le pronunce del giudice seguano un preciso ordine logico. Questa coerenza si impone anche ai fini dell’armonia dei giudicati o delle eventuali impugnazioni;

    considerato che nel caso di specie il diritto alla restituzione è conseguenza di una pronunzia costitutiva e che prima di tale momento non può parlarsi dell’esistenza del diritto alla restituzione, sicché la prova del versamento dei quattordici milioni è logicamente riferita alla dimostrazione dell’adempimento dell’attrice e del suo diritto alla controprestazione, e non alla restituzione di quanto prestato

    rigetta l’istanza ex art. 186 quater c.p.c. ne rinvia per la precisazione delle conclusioni

    ..Omissis...

     

     

    II

    Pretura di Bari, ord 14 giugno 1996; Giud. Ruffino; Cudemo c. A.M.A.P.N.I.U.

     

    L’istanza di concessione dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è inammissibile, allorché la domanda di condanna debba essere preceduta da una pronuncia di accertamento di natura costitutiva ovvero dichiarativa, sulla quale l’istante pretenda un’autonoma statuizione, destinata ad acquisire autorità di giudicato.

     

    ...Omissis...

    - è noto che l'art. 186 quater, introdotto definitivamente nel codice di rito dal d.l. 18.10.1995 n. 432, convertito nella l. 20.12.1995 n.534, e reso applicabile ai processi pendenti al 30 aprile 1995 (qual'è il presente) dall'art. 90 co. 1 l. n. 353/1990, come sostituito dai provvedimenti legislativi dinanzi menzionati, prevede che, "esaurita l'istruzione," il giudice, ove richiestone, possa disporre con ordinanza, in favore della parte che agisca per la condanna al pagamento di somme o per la consegna o il rilascio di beni, appunto il pagamento, la consegna o il rilascio stessi, "nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova";

    - anzitutto, la contumacia della convenuta non è condizione impeditiva della pronuncia dell'ordinanza di condanna, in quanto la relativa istanza, pur formulata in corso di causa, è certamente ricompresa nei limiti oggettivi del petitum originario e non costituisce un novum sul quale è necessario costituire appositamente il contraddittorio (nello stesso senso, Trib. Reggio Emilia, ord. 13.7.1995, Saracchi c/ Soc. Essepiemme);

    - inoltre, attesa la non rilevanza specifica nel caso in esame, devono tralasciarsi una serie di problemi interpretativi posti dal nuovo istituto, come, anzitutto, quello, apparentemente pregiudiziale, dello "spazio applicativo" all'interno del processo pretorile, diffusamente negato in dottrina in considerazione della possibilità di decisione immediata della causa, con sentenza resa in udienza, ai sensi dell'art. 315 c.p.c. (nello stesso senso, in giurisprudenza, è la motivazione di Pret. Salerno, ord. 2.11.1995, Addesso c/ Rosa + 1); qui ci si può limitare a rilevare, sul punto, che l'applicabilità dello strumento decisorio di cui all'art. 186 quater c.p.c. è fuori discussione nelle cause pretorili di c.d. vecchio rito, nelle quali non opera l'art. 315 novellato;

    - non può omettersi, invece, di analizzare funditus il profilo "oggettivo" dell'ordinanza in questione (e del petitum ad essa presupposto), che la norma circoscrive al "pagamento di somme, ovvero alla consegna o al rilascio di beni";

    - stante siffatta limitazione, occorre infatti chiedersi se sia consentita l'adozione dell'ordinanza anticipatoria di condanna allorquando la relativa domanda (pagamento di somme, consegna o rilascio di beni) non esaurisca il contenuto dell'azione: o perché ne presupponga, sotto il profilo logico-giuridico, un'altra, ancorché non espressamente formulata, di diversa natura, o perché si cumuli ad una o più altre domande espresse, pure di diversa natura, introdotte contestualmente dall'attore;

    - poiché, com'è noto, ogni azione di condanna contiene in sé, implicitamente, quella di accertamento del sottostante diritto sostanziale alla prestazione invocata (ovvero dell'altrui obbligo giuridico all'adempimento), è indubbio che l'ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. possa essere pronunciata allorquando sia stata proposta e libellata esclusivamente una domanda di condanna al pagamento di somme o alla consegna o al rilascio di beni, dovendo in tal caso il giudice, in via di priorità logica, ma solo incidentalmente, accertare il diritto dedotto e darne conto in motivazione, sia pure nei limiti di contenuto propri del provvedimento in questione;

    - siffatta conclusione richiede però una puntualizzazione, poiché non ogni accertamento pregiudiziale alla condanna "tipica" può essere contenuto nell'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione: può esserlo, in via incidentale, il c.d. mero accertamento o accertamento ad effetto dichiarativo (secondo la migliore dottrina processualistica, quello con il quale si ottiene la eliminazione dell'incertezza intorno all'esistenza, all'inesistenza o alle modalità di un rapporto giuridico, acclarandosi perciò la situazione giuridica esistente fra le parti); non può esserlo, invece, l'accertamento avente effetto costitutivo (determinante cioè la costituzione, la modificazione o l'estinzione di rapporti giuridici fra le parti);

    - la ragione giuridica di tale esclusione appare evidente sol che si consideri che l'ordinanza prevista dall'art. 186 quater c.p.c. è suscettibile di diventare cosa giudicata formale nel caso in cui il processo si estingua successivamente alla sua pronuncia o la parte intimata rinunci alla sentenza, con atto notificato all'altra parte;

    - ammettere dunque che l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione possa consolidarsi, sino a formare giudicato, anche su domande pregiudiziali alla condanna, che postulano accertamenti ad effetto costitutivo, sarebbe incompatibile con la natura eccezionale del mezzo di definizione anticipata della lite, che il legislatore ha voluto espressamente circoscrivere alle statuizioni di condanna al pagamento di somme o alla consegna o rilascio di beni (nello stesso senso, Trib. Trani, g.i. Mastrorilli, ord. 8.7.1995, Galeazzo c/ soc. Ibis, e Trib. Chiavari, ord. 28.8.1995, che hanno escluso l'ammissibilità della condanna anticipata ex art.186 quater per le domande di condanna conseguenza di un’azione costitutiva (ad esempio, di risoluzione);

    - né potrebbe il giudice, attesa la pregiudizialità della domanda di accertamento costitutivo rispetto a quella di condanna, pronunciare anticipatamente su quest'ultima ex art. 186 quater c.p.c., riservando all'eventuale pronuncia definitoria del giudizio (la sentenza) la decisione sulla prima;

    - analoghe considerazioni e conclusioni possono formularsi nell'ipotesi in cui l'accertamento del diritto sottostante la pronuncia di condanna del convenuto abbia sì natura dichiarativa, ma formi oggetto di un espresso e separato capo del petitum dell'attore, dovendo in tal caso il giudice emettere un'apposita statuizione sul presupposto logico-giuridico necessario della domanda di condanna, ossia sul punto o sulla questione pregiudiziale (la differenza può cogliersi, secondo una nota giurisprudenza, sotto il profilo della non contestazione o meno del presupposto: cfr. Cass. 26.4.1961 n.927), ancorché di esso egli avrebbe dovuto comunque occuparsi incidenter tantum;

    - in altre parole, l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione non può essere pronunciata quando la condanna richiesta in una delle forme tipiche indicate dall'art. 186 quater c.p.c. debba essere preceduta da una pronuncia di accertamento o di natura costitutiva, o di natura dichiarativa, sul quale l'istante pretenda un'autonoma statuizione, destinata perciò ad acquistare efficacia di giudicato (fermo restando, ovviamente, il presupposto processuale dell'interesse ad agire in ordine a tale pretesa, verificabile anche di ufficio);

    - ciò chiarito in linea teorica, è evidente che la fattispecie di causa rientri proprio nell'ultima ipotesi fatta, avendo l'attore richiesto, preliminarmente alla condanna della Associazione convenuta al pagamento della "quota di liquidazione" prevista dallo statuto, l'accertamento dell'intervenuta cessazione del rapporto associativo per effetto delle sue dimissioni, ancorché mai formalmente accettate;

    - ne discende che, non potendo accordarsi il bene della vita richiesto dall'attore (la somma di denaro integrante la "quota di liquidazione") senza una preventiva delibazione e statuizione sulla persistenza in vita del rapporto associativo (costituente il presupposto, di fatto e di diritto, necessario, sul piano logico-giuridico, per stabilire la spettanza della liquidazione suddetta), né, per via dei richiamati limiti dell'ordinanza ex art. 186 quater, adottarsi la pronuncia di condanna anticipata unitamente a quella, separata ed espressa, chiesta nell'atto introduttivo, di accertamento dichiarativo della cessazione del rapporto di associazione, l'istanza in oggetto va ritenuta inammissibile;

    ...Omissis...

     

     

    III

    Tribunale di Taranto, ord. 6 luglio 1996; Giud. istr. Ciquera; Ilgrande e Sabato c. Moviter cave s.r.l.

     

    L’istanza di concessione dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è inammissibile, allorché, nell’ipotesi di cumulo di domande, la fase istruttoria si sia conclusa soltanto per alcune di esse.

     

    ...Omissis...

    premesso che con atto notificato il 26 giugno 1995 gli attori hanno chiesto la condanna della società convenuta a rilasciare un fondo posto in agro di Ginosa, contrada Lama di pozzo, esteso ha. 4.21.95, oltre al risarcimento del danno derivante dal ritardato rilascio del fondo rispetto alla scadenza pattuita nel contratto, sottoscritto in data 16 marzo 1985 da Ilgrande Arcangela e Moviter cave s.r.l.;

    che oggetto dell’istanza proposta ex art. 186 quater c.p.c. è la condanna al rilascio del fondo innanzi descritto;

    che l’istanza va dichiarata inammissibile per le seguenti ragioni.

    La proposizione della istanza in esame è subordinata all’esaurimento della istruzione (v. art. 186 quater cit.): l’interpretazione della norma sul punto va compiuta tenendo presente la disciplina sui presupposti e conseguenze del provvedimento di chiusura dell’ istruzione.

    Il dies a quo che apre il periodo temporale nel quale è possibile chiedere l’ordinanza in esame è dato dal momento in cui l’istruttore invita le parti a precisare le conclusioni, previa dichiarazione dell’esaurimento dell’attività istruttoria ex artt. 188 e 209 c.p.c. (dichiarazione implicita nel provvedimento di fissazione della udienza di precisazione delle conclusioni), ovvero ai sensi dell’art. 187 co. 1 c.p.c.

    Pertanto, pur essendo in ipotesi possibile la richiesta di concessione del provvedimento ex art. 186 quater c.p.c. limitatamente ad un capo della domanda avente ad oggetto pagamento di somme ovvero rilascio o consegna di beni, non è tuttavia ammissibile la concessione della ordinanza anticipatoria di condanna nel caso in cui il giudizio deve comunque proseguire per istruire le altre domande proposte.

    Infatti la fase istruttoria ed il relativo provvedimento (esplicito o implicito) di chiusura sono disciplinati unitariamente dalle disposizioni processuali (cfr. art. 188 e 209 c.p.c.), a nulla rilevando l’eventuale cumulo di domande, non essendo consentito al giudice istruttore la rimessione parziale della causa all’organo giudicante al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 187 co. 2 e 3 c.p.c.: ne consegue che non è possibile frazionare la fase istruttoria ed individuare vari momenti di esaurimento della relativa attività probatoria in considerazione della pluralità delle domande proposte.

    Pertanto, poiché non si è ancora proceduto alla assunzione dei mezzi istruttori tempestivamente chiesti in relazione alla domanda di risarcimento del danno e quindi l’istruzione non può ritenersi esaurita, l’istanza va dichiarata inammissibile.

    ...Omissis...

     

     

    IV

    Tribunale di Trani, ord. 26 aprile 1996; Giud. istr. Di Leo; Immobiliare e ITAS s.r.l. c. Bolognese.

     

    Nell’ipotesi di cause soggette al "vecchio" rito, l’istanza di concessione dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è inammissibile, allorché sia formulata successivamente all’udienza di precisazione delle conclusioni, poiché al giudice istruttore non è consentito revocare l’ordinanza di rimessione al collegio e riaprire la trattazione della causa.

     

    Con il citato ricorso il convenuto ha chiesto l’emissione, a carico delle società convenute, del provvedimento ex 186 quater c.p.c., successivamente all’ordinanza di rimessione della causa al Collegio resa dal giudice istruttore all’udienza di precisazione delle conclusioni del 18 dicembre 1995.

    A giudizio del decidente, l’istanza è inammissibile, siccome formulata oltre il termine ultimo entro il quale deve ritenersi consentita la proposizione della richiesta di pronuncia della c.d. ordinanza post-istruttoria, introdotta per la prima volta dalla "novellina" del giugno 1995, e, precisamente, dall’art. 7 del D.L. 21 giugno 1995, n. 238 (reiterato col D.L. 9 agosto 1995, n. 347 e, infine, col D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in L. 20 dicembre 1995, n. 534).

    Pur in mancanza di espressa previsione di un termine finale per la proposizione della istanza, il dies ad quem, con riguardo ai giudizi "nuovi", soggetti, cioè, al nuovo rito, va individuato nel momento in cui il giudice istruttore constata che l’istruzione è esaurita o superflua, e, ritenuta la causa matura per la decisione di merito, invita le parti a precisare le rispettive conclusioni (nella stessa udienza o, come spesso accade, in un’altra successiva), ma prima che la precisazione di esse avvenga.

    Com’è noto, nel sistema delineato dalla novella del 1990, caratterizzato dalla eliminazione della udienza di discussione, una volta precisate le conclusioni, la causa entra nella fase della decisione e deve essere definita secondo una scansione temporale ben precisa, che prevede il deposito della sentenza nel lasso di tempo compreso tra l’81° e il 140°.

    In altre parole, nel nuovo rito la funzione già assolta dall’udienza collegiale di discussione (ancora prevista, transitoriamente, per le cause vecchie) è svolta dall’udienza di precisazione delle conclusioni, dalla quale, infatti, decorrono i termini per la pronuncia della sentenza.

    Ora, se la finalità dell’istituto in esame è quella di anticipare la tutela, in relazione a determinate e non complesse domande giudiziali ("di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni"), senza assolvere alcuna funzione cautelare (non essendo richiesto, tra l’altro, il requisito del periculum in mora), ma al solo scopo di incidere sul nuovo "pendente istruttorio", inevitabilmente destinato ad appesantirsi, ovvero di sfoltire il già gravoso carico dei vecchi ruoli dei giudici istruttori, non solo non avrebbe alcun senso sul piano logico-giuridico ma sarebbe persino privo di qualsiasi apprezzabile vantaggio concreto per la parte interessata - oltre che causare un inutile dispendio di tempo e di energie per l’istruttore - un provvedimento interinale di condanna che venga richiesto quando la causa si trova ormai nella fase della decisione ed è, pertanto, sul punto di essere definita con la pronuncia della sentenza.

    Per le cause soggette al vecchio rito, il termine ultimo entro cui la parte può formulare l’istanza per la concessione dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., sempre in difetto di espressa previsione di legge, deve essere individuato nel momento in cui, precisate le conclusioni, il giudice istruttore rimette la causa al Collegio, ai sensi dell’art. 189 c.p.c. (testo originario).

    Siffatto limite temporale alla proposizione della richiesta di pronuncia interinale di condanna è desumibile, innanzitutto, dal preciso riferimento alla competenza esclusiva del "giudice istruttore", che presuppone la pendenza del processo dinanzi a quest’ultimo, lasciando intendere, indirettamente, che le parti possono giovarsi della facoltà conferita dalla norma solo fino a quando l’istruttore non abbia chiuso la trattazione della causa dinanzi a sé.

    Milita, poi, a favore della inammissibilità della istanza de qua dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni la considerazione che, con l’ordinanza di rimessione della causa al Collegio, il giudice istruttore si spoglia formalmente della causa stessa e ne investe il Collegio, perdendo ogni potere di intervento sul processo, salva l’ipotesi dei procedimenti cautelari, in relazione ai quali potrebbe ancora essere reinvestito, in forza di specifica previsione normativa (art. 669 - quater c.p.c.), della stessa trattazione di questioni riconducibili alla causa già rimessa al Collegio.

    In altri termini, il giudice istruttore, una volta rimessa la causa al Collegio per la discussione, non può riaprire la trattazione e l’istruzione, revocando l’ordinanza di rimessione e convocando le parti davanti a sé, ad eccezione delle ipotesi di provvedimenti cautelari.

    Del resto, quando la causa sia stata già spedita a sentenza, gli artt. 190 e 275 c.p.c., nel loro testo originario, sembrano nono lasciare spazio per alcuna altra attività processuale che non sia, per l’appunto la pronuncia della sentenza.

    L’assunto trova riscontro nel pensiero della Corte Suprema, secondo cui "l’istruttore non può revocare la propria ordinanza di rimessione al collegio e riaprire la trattazione della causa, in quanto il generale potere dell’istruttore di revocare le proprie ordinanze trova un limite nella speciale natura e negli speciali effetti dell’ordinanza di rimessione, con cui l’istruttore, chiudendo la trattazione dinanzi a sé, si spoglia formalmente della causa, investendone il collegio", con la conseguenza che "... anche se l’ordinanza di rimessione sia in qualche modo viziata, l’istruttore può essere di nuovo investito della trattazione della causa in istruttoria soltanto con un provvedimento del collegio" (Cass. 14 giugno 1962, n. 1492. In senso contrario, Cass. 24 luglio 1957, n. 3153).

    Ora, poiché il provvedimento anticipatorio ex art. 186-quater deve assumere la forma dell’ordinanza, ne deriva che, se si ammettesse l’istanza oltre il termine suindicato, si imporrebbe al giudice istruttore di fissare una nuova ed apposita udienza per ripristinare davanti a sé il contraddittorio tra le parti e di provvedere, eventualmente, al recupero dei rispettivi fascicoli, ritirati in sede di precisazione delle conclusioni, esercitando il potere discrezionale previsto dall’art. 169, primo comma, c.p.c.; lo si costringerebbe, cioè, a svolgere un’attività processuale in palese contrasto con la dismissione di tale funzione, verificatasi in conseguenza della rimessione della causa al Collegio.

    Il riconoscimento di una sorta di "ultrattività" della funzione istruttoria in capo al giudice che si sia spogliato della causa (rimettendola al Collegio per la decisione), al solo fine della pronuncia dell’ordinanza in questione, potrebbe giustificarsi unicamente attribuendo alla stessa natura cautelare (in tal senso, Trib. Lecce, ord. 13 luglio 1995, in Foro it., 1995, I, 2557).

    Sennonché, come s’è già accennato, il provvedimento ex art. 186 quater ha esclusivamente carattere anticipatorio della decisione di merito e non anche cautelare, essendo estranea alla previsione della norma qualsiasi indagine in ordine alla ricorrenza degli estremi del periculum in mora, che costituisce invece l’indefettibile presupposto dei provvedimenti cautelari, e rilevando, ai fini della pronuncia del provvedimento stesso, soltanto l’accertamento della sicura o probabile fondatezza della pretesa azionata all’esito dell’istruzione (cfr., Trib. Venezia, ord. 14 settembre 1995, in Foro it., 1995, I, 3306; Trib. Roma, ord. 24 ottobre 1995, in Foro it., 1996, I, 1053).

    In conclusione, il termine ultimo per la proposizione dell’istanza ex art. 186-quater c.p.c., va individuato, con riguardo ai giudizi nuovi, nel momento in cui il giudice istruttore, ritenuta o superflua l’istruzione, invita le parti a precisare le conclusioni, finché queste ultime non siano state formulate (alla stessa udienza o a quella successiva appositamente fissata); nei giudizi vecchi, invece, tale istanza può essere proposta fino al momento della precisazione delle conclusioni, ma non dopo la rimessione della causa al Collegio.

    Ora, nella specie, la richiesta di pronuncia della ordinanza post-istruttoria, alla stregua dei suesposti rilievi, deve ritenersi inammissibile, perché avanzata dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni e quando la causa era stata già rimessa al Collegio per la decisione.

    ...omissis...

     

     

    V

    Tribunale di Lecce, ord. 22 luglio 1995; Giud. istr. Positano; Mercury Assicurazione c. Trazza.

     

    Nell’ipotesi di cause soggette al "vecchio" rito, l’istanza di concessione dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è inammissibile, allorché sia stata già fissata l’udienza collegiale.

     

    ...Omissis...

    Relativamente alla questione preliminare della competenza del giudice istruttore a provvedere sulle vicende processuali relative alla fase successiva alla rimessione della causa al Collegio, ritiene questo giudice, che difetti in capo all’istruttore il potere di provvedere in ordine alla richiesta ex art. 186 quater c.p.c.

    La norma in esame, pacificamente applicabile anche ai giudizi già pendenti alla data del 30.4.95, come disposto dall’art. 9 del D.L. 22.6.1995, prevede che, esaurita l’istruzione, su istanza di parte, il giudice istruttore possa disporre, con ordinanza, il pagamento o la consegna di beni nei limiti in cui ritenga già raggiunta la prova. L’articolo non prevede un termine iniziale e soprattutto finale per la proposizione della domanda, contrariamente a quanto dettato il legislatore del novanta nei precedenti articoli 186 bis e ter c.p.c.

    Devono pertanto necessariamente applicarsi i principi generali in tema di legittimazione dell’istruttore nella fase di rimessione della causa al Collegio, sulla base dei quali il primo è generalmente privo del potere di provvedere sulle istanze successive alla chiusura dell’udienza di precisazione delle conclusioni. Ciò in quanto, da una parte, l’art. 186 quater c.p.c. non pone una deroga a tale principio (non individuando un termine finale successivo), dall’altra le ipotesi di ultrattività del giudice istruttore, previste dal codice di rito si giustificano per la peculiarità della fattispecie, come - ad esempio - nel caso del sequestro ante causam disciplinato dal precedente art. 673 c.p.c. ed ora dall’art. 669 quater c.p.c.

    In particolare, il dettato normativo consentiva di ritenere, comunque, legittimato il giudice monocratico - ponendosi, l’alternativa, tra il Presidente e l’istruttore- ed in particolare a quest’ultimo organo si riconosceva la legittimazione a provvedere, con la eccezione dell’ipotesi di cui all’art. 673 c.p.c., che attribuiva la competenza a provvedere al presidente del tribunale. Ed in tal senso va correttamente considerato il rapporto di regola ad eccezione esistente tra i due organi (cfr. Satta, Andrioli).

    La eccezionalità della fattispecie del sequestro in corso di causa e la legittimazione a provvedere nella fase successiva alla rimessione, sono rimaste inalterate anche con la novellata disciplina del processo cautelare, in quanto, al secondo comma, l’art. 669 quater c.p.c. stabilisce che, nell’ipotesi in cui la causa penda davanti al Tribunale, la domanda cautelare si proponga al g.i. (regola generale), ovvero nel caso in cui questi non sia stato ancora designato, (art. 168 bis c.p.c.) ovvero il giudizio sia sospeso (art. 295 c.p.c.) o interrotto (artt. 299 c.p.c. e segg.) al Presidente del Tribunale. L’unica differenza, irrilevante ai fini che qui interessano, è che quest’ultimo, contrariamente a quanto previsto dai precedenti artt. 672 e 673 c.p.c. per i sequestri e le denuncie di nuova opera - per il richiamo del precedente art. 688 secondo comma c.p.c. - non ha più una competenza funzionale a provvedere sull’istanza cautelare, ma deve procedere alla designazione del magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento, così come è previsto nella ipotesi più ricorrente di istanza cautelare ante causam (art. 669 ter c.p.c., al quale, per altro, rinvia lo stesso art. 669 quater secondo comma).

    La eccezionalità della fattispecie dell’istanza di sequestro proposta in corso di causa dopo la rimessione al collegio, non consente una applicazione analogica della norma al differente caso disciplinato all’art. 186 quater c.p.c., che anzi, correttamente inquadrato tra i cd. provvedimenti interinali a funzione prevalentemente deflattiva, va interpretato in considerazione della disciplina dettata, dal meno frettoloso legislatore del novanta, per gli artt. 186 bis e ter c.p.c.

    La portata anticipatoria della ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. e la indubbia capacità deflattiva ed acceleratoria di tale fattispecie consente di fare riferimento alla normativa prevista per le ipotesi che presentano caratteristiche analoghe al fine di sopperire alle lacune della disciplina positiva.

    A tale proposito è utile rammentare come per entrambe le norme citate il termine finale sia stato individuato "fino al momento della precisazione delle conclusioni", con ciò manifestando, già nella originaria disciplina, che non prevedeva una applicazione di tali ipotesi anche ai giudizi pendenti, una finalità acceleratoria in quanto la legge consentiva di ottenere un provvedimento parzialmente satisfattivo con un anticipo di circa 140 giorni (dal combinato disposto degli artt. 190 e 275 c.p.c.) rispetto alla decisione finale. Ciò è stato ritenuto dal legislatore un utile strumento in considerazione, probabilmente, del fatto che il termine, effettivamente non troppo lungo (140 g.g.) astrattamente previsto avrebbe potuto in concreto risultare più gravoso a causa, per esempio, della sospensione dei termini per il periodo feriale e dell’eventuale periodo di ferie del magistrato, oltre ai tempi tecnici di copiatura e pubblicazione delle sentenze. La finalità di fondo, era ed è stata - però - quella di evitare, ovvero di anticipare, il passaggio obbligato attraverso l’udienza collegiale, che costituisce il vero e proprio collo di bottiglia del processo civile. Del tutto estranea all’intenzione del legislatore deve ritenersi la possibilità di percorrere tale strozzatura (con la fissazione dell’udienza Collegiale) per poi consentire di tornare indietro, davanti al g.i., al fine di ottenere un provvedimento sostanzialmente equipollente.

    Inoltre la normativa vigente che permette, da un lato di applicare le ipotesi esaminate anche ai giudizi già pendenti, e dell’altro di pronunciare provvedimenti esecutivi nei limiti in cui si ritenga raggiunta la prova, ha certamente e notevolmente elevato la capacità deflattiva di tali fattispecie, sacrificando in parte, taluni principi, che implicitamente il legislatore del 1990 aveva ritenuto di dover osservare. Infatti, precedentemente, si era dato ingresso alle sole ipotesi di tutela anticipatoria non controverse, quali la ordinanza di pagamento delle somme non contestate, e di ingiunzione di pagamento e consegna, nell’implicito presupposto che solo istituti largamente condivisi potessero costituire momento di accelerazione del processo e non di rinnovata criticità. Il superamento di tale originaria impostazione prudente, non deve consentire un ulteriore stravolgimento dei principi generali del processo attraverso una interpretazione giurisprudenziale che non tenga conto, quanto meno, della ratio di tali istituti.

    D’altra parte, il meccanismo della rimessione sul ruolo al fine di provvedere ai sensi della norma in esame semplicemente sulla base della mancata previsione letterale di una preclusione processuale, consentirebbe - di fatto- una sistematica sostituzione del giudice monocratico a quello Collegiale, soprattutto nelle ipotesi estremamente frequenti di applicazione della norma ai giudizi già pendenti alla data del 30.4.95. tale conseguenza non può ritenersi in linea con il principio del favor per la decisione affidata al giudice monocratico, tendenza certamente presente nella riforma, in quanto il legislatore del 1990 e quello del 1995 hanno confermato la precisa intenzione di affidare ad un organo collegiale la decisione dei procedimenti già pendenti, consentendo, al più, di modificare i componenti del Collegio, sulla base di un provvedimento del capo dell’Ufficio.

    Da ultimo, va rilevato come la tesi sostenuta dal ricorrente comporterebbe dei gravi problemi in ordine alla competenza tra i magistrati addetti al nuovo rito e quelli che tratteranno i giudizi già pendenti, secondo le disposizioni inserite nella scarna disciplina transitoria, in quanto potrebbe - come nella fattispecie in esame - verificarsi l’ipotesi di un giudice istruttore non addetto alla trattazione delle cause già pendenti (nelle quali rientrerebbe necessariamente una lite per la quale sia già stata fissata la data dell’udienza Collegiale) che, in quanto tale, non potrebbe provvedere in tale veste ma sarebbe competente a conoscere della controversia quale giudice relatore, in sede di decisione finale con sentenza.

    L’istanza, sulla quale, si è provveduto nel contraddittorio delle parti - in considerazione della novità della questione- va dichiarata inammissibile lasciando impregiudicata la originaria fissazione dell’udienza Collegiale per la data del 6.10.1995.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Domenico Dalfino

    - Nello stesso senso del primo provvedimento, v. Trib. Chiavari, ord. 28 agosto 1995, in Foro it., 1995, I, 3306, con nota di Nappi, Rilievi problematici sull’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione (art. 186 "quater" c.p.c.); Trib. Trani, ord. 8 luglio 1995, ibid., 3630.

    In dottrina, prevale nettamente l’orientamento conforme alla pronuncia del Tribunale di Bari.

    Scarselli () distingue due ipotesi: "a) se il provvedimento finale necessita di una previa modificazione sostanziale, o se la questione pregiudiziale va decisa con autorità di cosa giudicata per legge o per espressa volontà delle parti ex art. 34 c.p.c., sembrerebbe preferibile sostenere che, in questi casi, l’ordinanza de qua non possa provvedere su nessuna questione pregiudicata ... b) Tuttavia è possibile che le questioni pregiudiziali non siano da decidere con autorità di cosa giudicata ... Per queste ipotesi a noi sembrerebbe possibile l’emanazione dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. e la decisione incidenter tantum della questione pregiudiziale, perché non sembrano sussistere né disposizioni di legge né argomentazioni logiche in senso contrario. Allo stesso modo della sentenza, il giudice deciderebbe della questione incidentalmente".

    Più rigorosa è la posizione di Nappi (), il quale non si limita a ritenere di ostacolo alla pronuncia dell’ordinanza la circostanza che la condanna possa essere "pregiudicata dalla prospettazione di questioni di merito che appaiano in grado (perché la parte ne ha offerto la prova) di risolvere il giudizio", ma si spinge fino ad escludere che il giudice istruttore possa decidere incidentalmente, con l’ordinanza in esame, anche eventuali questioni pregiudiziali.

    Rileva Consolo () che "l’ostacolo è di sostanza e attiene alla impossibilità di accogliere - sia pure solo interinalmente - domande di condanna che traggono fondamento da modificazioni giuridiche non ancora prodottesi nella realtà sostanziale".

    Non solo, ma, in tali casi, "l’ammissibilità dell’istanza ex art. 186 quater" - osserva Lapertosa () - "dovrebbe parimenti escludersi ... sia perché l’ordinanza non potrebbe liquidare le spese relative alla domanda principale, delibata ma non consumata, sia perché l’eventuale trasformazione dell’ordinanza in sentenza comporterebbe a priori la possibilità di giudicati contraddittori all’interno del medesimo giudizio, ove la pronuncia principale fosse decisa in modo incompatibile con la pronuncia di condanna, con inaccettabile inversione del rapporto logico di dipendenza tra le decisioni".

    In conclusione, "la norma deve essere interpretata rigorosamente e quindi si deve escludere che possa essere invocata qualora la statuizione di condanna debba essere preceduta da una pronuncia di natura costitutiva" ().

    L’orientamento contrario, come detto, è minoritario.

    A giudizio di Bucci (), "il dubbio se, pur nella ricorrenza delle condizioni di prova, l’ordinanza possa essere emessa quando il credito o la restituzione sia la conseguenza di un accertamento incidentale o di una pronuncia costitutiva ... è infondato. Se infatti si ammette che il giudizio che precede l’ordinanza è un giudizio completo sulla base di tutti gli elementi raccolti nel giudizio, quel che ha esclusivo rilievo al fine della concessione è il risultato finale della valutazione anche se la pronuncia intermedia non può far parte del dispositivo".

    Interessante la proposta interpretativa di Conte (), il quale ritiene si debba perseguire "l’applicabilità dell’ordinanza de qua anche alle azioni costitutive quanto ai loro effetti condannatori: e ciò o presupponendo la pronuncia costitutiva, come avviene nell’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c., che sopravvive all’estinzione del giudizio - benché la soluzione comporterebbe qualche problema nel caso in cui l’ordinanza dovesse poi anche essere trascritta nei registri immobiliari - o attraverso l’introduzione di una disposizione aggiuntiva all’art. 186 quater in cui si preveda che "nel caso di azioni costitutive non si applicano i commi 3 e 4 del presente articolo": con soddisfazione delle esigenze di coerenza del sistema".

    Invero, sembra che in tutte le ipotesi di cumulo di domande (fra le stesse parti), in cui sia stata richiesta al giudice una pronuncia di mero accertamento - quale, ad esempio, quella che dichiara l’avvenuta risoluzione del contratto per inadempimento a seguito di diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. - e una (o più) di condanna all’adempimento di obblighi alla stessa collegati - ad esempio restituzioni ex artt. 1458 e 2033 c.c. - l’istanza ex art. 186 quater c.p.c. diretta ad anticipare gli effetti della domanda(e) di condanna sia pienamente ammissibile.

    In tali casi, infatti, da un lato non viene sollecitata una pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto e dall’altro l’ordinanza anticipatoria conterrebbe un accertamento che è implicito in tutti i provvedimenti di condanna ().

    - Nel senso che l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione, che tende a definire il giudizio, come si evince dalla espressa previsione della condanna alle spese processuali, non può essere emanata, allorché la richiesta sia formulata soltanto da alcune parti in relazione ad alcune domande, v. Trib. Trani, ord. 28 febbraio 1996, in Quaderno barese 2, 35, in Corriere giur., 1996, 6, 707.

    L’art. 186 quater c.p.c. nulla dispone per le ipotesi di processi cumulativi (pluralità di domande di condanna dello stesso attore contro lo stesso convenuto oppure a parti invertite; pluralità di domande di cui alcune costitutive ed altre di condanna; pluralità di domande, di cui alcune di accertamento ed altre di condanna; pluralità di domande dell’attore contro vari litisconsorti passivi o viceversa; cumulo di causa principale e di causa di garanzia ()).

    Cosicché, non è ben chiaro se in tali ipotesi la pronuncia dell’ordinanza de qua sia ammissibile nella misura in cui sia idonea ad esaurire l’intero oggetto del processo ovvero dipenda dal particolare tipo di cumulo al quale si è dato luogo.

    A tal proposito, occorre considerare che la funzione (far conseguire al creditore un titolo idoneo a procedere all’esecuzione forzata prima della naturale fine del giudizio ovvero evitare la pronuncia della sentenza o, quantomeno, supplire al ritardo con cui essa solitamente avviene ()) e la natura del provvedimento (anticipatorio, interinale, di condanna, non cautelare ()) lasciano chiaramente trasparire una voluntas legis diretta alla semplificazione ed accelerazione del processo.

    Sennonché, nonostante le buone intenzioni del legislatore, le cose sono fisiologicamente destinate a complicarsi, allorché da un lato l’oggetto dell’istanza ex art. 186 quater c.p.c. non coincida con l’oggetto della domanda principale (ad esempio, perché più ridotto oppure limitato ad alcuni soltanto dei litisconsorti), dall’altro l’istruzione sia esaurita (terminata o superflua) soltanto in relazione ad alcune delle cause cumulate.

    Lo spettro di tali complicazioni ha spinto qualche autore ad auspicare che "la nuova ordinanza venga pronunciata solo là dove essa possa esaurire l’intero oggetto del processo, sì che la scelta fra la sua prosecuzione fino alla sentenza o sua eventuale devoluzione al giudice di appello possa risultare netta e semplice" ().

    Ma si tratta di un auspicio che deve fare i conti con l’eventualità che l’emanazione dell’ordinanza possa servire proprio a semplificare il processo, pur non esaurendone interamente l’oggetto.

    Mi riferisco ai casi in cui è possibile ed opportuno disporre la separazione delle cause cumulate, per l’autonomia delle stesse ovvero in presenza di forme di connessione blanda. Naturalmente ciò comporterà sempre una contestuale valutazione in ordine allo stato della fase istruttoria per ciascuna delle domande. Così, ben potrà il giudice, previo provvedimento di separazione, disporre la condanna in relazione a quelle di esse per le quali possa considerarsi esaurita l’istruzione e la continuazione del processo sulle altre.

    Ciò non sarà possibile, invece, nelle ipotesi in cui la domanda di condanna sia conseguenza dell’azione costitutiva proposta in via principale dall’attore o in via riconvenzionale dal convenuto (), a prescindere dallo stato della fase istruttoria delle singole cause.

    Nei giudizi con pluralità di parti, vengono in rilievo le ipotesi in cui il litisconsorzio è necessario e quelle in cui è facoltativo.

    Sul punto non resta che rinviare all’attenta analisi compiuta dal Consolo ().

    Nel caso di specie il Tribunale di Taranto ha dichiarato inammissibile l’istanza, in quanto "pur essendo in ipotesi possibile la richiesta di concessione del provvedimento ex art. 186 quater c.p.c. limitatamente ad un capo della domanda ..., non è tuttavia ammissibile la concessione dell’ordinanza anticipatoria di condanna nel caso in cui il giudizio deve comunque proseguire per istruire le altre domande proposte", non essendo possibile "frazionare la fase istruttoria ed individuare vari momenti di esaurimento della relativa attività probatoria in considerazione della pluralità delle domande proposte".

    Tali considerazioni non sono condivisibili, alla luce di quanto innanzi detto a proposito della possibilità di emanare l’ordinanza in questione nei casi di cumulo di domande tra le stesse parti non altrimenti connesse ovvero anche tra parti diverse connesse in forma più o meno "blanda".

    Si consideri, inoltre, che nella fattispecie concreta, il cumulo ab origine era tra domanda di condanna al rilascio di un fondo e domanda di risarcimento dei danni derivanti dal mancato rilascio alla scadenza pattuita nel contratto. Ora, poiché l’istanza ex art. 186 quater c.p.c. ha avuto ad oggetto la condanna al rilascio, domanda rispetto alla quale l’istruzione era esaurita, ben poteva il giudice istruttore concedere l’ordinanza in relazione a tale domanda e, previo provvedimento di separazione, disporre la continuazione del processo sulla causa relativa al risarcimento dei danni, senza in questo modo operare alcuna inversione dell’ordine di pronuncia sulle domande dipendenti.

    - Nel senso che l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione può essere emanata, allorché la causa sia stata rinviata per la precisazione delle conclusioni, v. Trib. Bari, ord. 1 dicembre 1995, in Quaderno barese 2, 34, in Corriere giur., 1996, 6, 707, alla cui nota di richiami si rinvia per ulteriori riferimenti.

    V., inoltre, Trib. Parma, ord. 19 luglio 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 171, nel senso che dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni il giudice istruttore non è competente ad emettere l’ordinanza de qua; Trib. Trani, ord. 14 ottobre 1996, inedita, che individua più precisamente il termine ultimo per la proposizione dell’istanza, nelle cause soggette al "vecchio" rito, nell’ordinanza di rimessione della causa al collegio.

    A norma del testo originario dell’art. 184 c.p.c. finché il giudice istruttore non abbia rimesso la causa al collegio, le parti, possono ... modificare le domande, le eccezioni e conclusioni precedentemente formulate, produrre nuovi documenti, chiedere nuovi mezzi di prova e proporre nuove eccezioni che non siano precluse da specifiche disposizioni di legge. In armonia con tale disposizione, la vecchia formulazione dell’art. 189, comma 1°, c.p.c., secondo cui il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, ..., invita le parti a precisare le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, e a indicare le eventuali modificazioni che ritengono di dover apportare alle conclusioni già prese.

    Per le cause soggette al "vecchio" rito, pertanto, il dato positivo non sembra lasciare margini per interpretazioni differenti: il dies ad quem coincide con la rimessione della causa al collegio, in quanto da questo momento il giudice istruttore si spoglia formalmente della causa e ne investe totalmente il collegio stesso. Cosicché, non sarà applicabile la norma in esame nel periodo di tempo intercorrente tra la precisazione delle conclusioni e l’udienza di discussione.

    In senso contrario si pone Consolo (), il quale ritiene che in questo lasso di tempo l’istanza debba essere presentata direttamente innanzi al giudice istruttore e non al presidente del collegio.

    V., inoltre, Trib. Milano, ord. 6 ottobre 1995, in Corriere giur., 1996, 1, 85, con nota di Di Giovanni e Niutta, cit., secondo cui, dal momento che la lettera dell’articolo non pare porre alcun limite temporale alla proposizione dell’istanza una volta esauritasi l’istruzione probatoria, il g.i. è legittimato a provvedere anche dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni e il rinvio della causa al collegio; Trib. Lecce, ord. 13 luglio 1995, in Foro it., 1995, I, 2557.

    Per ulteriori indicazioni sullo specifico punto, cfr. Sassani, op. cit., 195.

    Nei giudizi soggetti al "nuovo" rito, invece, il termine ultimo viene sensibilmente anticipato e fatto coincidere con il momento in cui il giudice, ritenuta esaurita o superflua l’istruzione, invita le parti a precisare le conclusioni, finché queste ultime non siano precisate, alla stessa udienza o a quella successiva appositamente fissata (v. provvedimento in epigrafe).

     

  11. Disciplina transitoria e diritto temporale
  12. Torna all'indice

    7.1) CAUSE VECCHIE - CAUSE NUOVE: AMMISSIBILITA’ DEL SIMULTANEUS PROCESSUS E RITO PREVALENTE

    I

    Tribunale di Bari; ordinanza 8 luglio 1996; Pres. istr. Lofoco; Romita c. Campus s.p.a. ed altri.

     

    Anche in caso di connessione tra cause pendenti davanti allo stesso giudice, alcune delle quali instaurate anteriormente alla data del 30 aprile 1995 ed altre successivamente a tale data, la riunione è sempre possibile; ove ciò si verifichi i relativi procedimenti vanno assoggettati al c.d. rito "nuovo".

     

    ...Omissis...

    Ritenuto che non sia configurabile la litispendenza tra la presente causa e quella n. 840/96, sia perché entrambe pendenti davanti allo stesso giudice (Tribunale di Bari, tra i cui giudici istruttori non possono sussistere questioni di competenza), sia per la non identità delle due cause, quanto per l’oggetto specifico delle rispettive domande e ai soggetti convenuti;

    che sussista invece connessione tra le due cause, aventi entrambe ad oggetto la richiesta di esecuzione della scrittura privata del 5.10.1985, sia pure con argomentazioni e richieste parzialmente difformi e con ambito soggettivo più ampio nella presente causa;

    che per gli opportuni provvedimenti conseguenti alla ritenuta connessione questo presidente avrebbe dovuto rimettere le cause, a norma dell’art. 274, 2° comma, c.p.c., davanti a sé, quale istruttore della causa più antica;

    poiché le parti si sono già espresse, sulla riunione, opponendovisi entrambe, sicché appare superfluo fissare altra udienza per la chiamata contestuale delle cause medesime ai fini dei provvedimenti oppotuni ex art. 274, 2° comma, c.p.c.,

    ritenuto che invece la riunione sia opportuna per consentire una regolamentazione unitaria dei rapporti tra le parti e prevenire un eventuale contrasto di giudicati;

    che alla riunione non ostino né lo stato della presente causa, ritenuta matura e perciò giunta alla fase della precisazioni delle conclusioni senza che vi siano stati compiuti, nonostante il lungo tempo trascorso dalla iscrizione al ruolo, atti istruttori, né la diversità del rito tra le due cause: a tale riguardo va rilevata la mancanza di una norma che vieti la riunione tra cause assoggettate al c.d. "vecchio rito" e cause assoggettate al c.d. " nuovo rito", con conseguente applicabilità dell’istituto alle une e alle altre, nella ricorrenza delle condizioni stabilite dall’art. 274 c.p.c.

    Unico problema, in proposito è quello del "rito" applicabile alle cause riunite, non sembrando possibile che queste anche dopo la riunione continuino ad essere disciplinate dai riti diversi applicabili a ciascuna di esse prima della riunione.

    Sembra a questo istruttore che, in mancanza di apposita norma transitoria sullo specifico problema, debba essere applicato ad entrambe le cause il rito nuovo, che consente, ovviamente, l’esercizio esauriente del diritto di difesa, nelle forme, con le modalità e con i tempi e scansioni ritenuti dal legislatore della novella necessarie per imprimere rapidità alla definizione della controversia.

    Il "rito nuovo", senza incidere sull’esercizio del diritto di difesa e anzi assicurandolo nella sua naturale ampiezza, differisce dal "rito vecchio" per il solo fatto che quell’esercizio, pur nella sua immutata ampiezza, viene sottoposto a tempi tecnici predeterminati e inderogabili.

    In particolare, la conseguente sottrazione della causa di "vecchio rito" alla decisione collegiale non pare idonea alla configurabilità di un pregiudizio per il diritto processuale delle parti ad una decisione giusta e corretta: questa è, infatti, pienamente realizzabile, nel "nuovo rito", attraverso la decisione monocratica, per tutte le cause, ancorché aventi ad oggetto materie identiche a quelle di competenza collegiale di " vecchio rito". In altre parole, è da escludere che la competenza collegiale costituisca un diritto delle parti e che la decisione monocratica costituisca un minus rispetto a quella collegiale, trattandosi invece di mezzi tecnici ugualmente idonei, nella valutazione discrezionale del legislatore, a fornire il prodotto giudiziale;

    che pertanto, in applicazione analogica dell’art. 180 c.p.c., debba essere fissata una udienza di prima comparizione rispetto alla quale l’attrice deve depositare in cancelleria e notificare ai convenuti contumaci, unitamente al presente provvedimento, entro il termine di cui all’art. 163 bis c.p.c., una memoria integrativa dell’atto di citazione notificato il 14. 2. 1992, con l’indicazione dei dati prescritti nell’art. 163, 3° comma, c.p.c., e i convenuti possono esercitare, nel termine di cui all’art. 166 c.p.c., le facoltà di cui all’art. 167 c.p.c.

     

     

    II

    Tribunale di Trani; ordinanza 15 maggio 1996; Giud. istr. Mastrorilli; I.m.a.s. Sportswear s.a.s. c. F.T.R. S.p.A.

     

    Anche in caso di connessione tra cause pendenti davanti allo stesso, alcune delle quali instaurate anteriormente alla data del 30 aprile 1995 ed altre successivamente a tale data, la riunione è sempre possibile e i relativi procedimenti vanno assoggettati al c.d. rito "vecchio".

     

    Rilevato che l’eccezione preliminare sollevata dall’opponente nel giudizio n. 2835/95 R.G. (mancata riassunzione del processo definito dal Tribunale di Como con la sentenza n. 258 del 7.2.1995) non appare idonea a paralizzare la pretesa monitoria della società opposta in quanto la suddetta sentenza, passata in cosa giudicata, ha ormai determinato l’esaurimento del giudizio avviato con il ricorso per decreto ingiuntivo depositato il 7.11.1991;

    ritenuto che tra il richiamato giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (soggetto al "nuovo rito") e quello n. 3680/91 R.G. instaurato dalla I.M.A.S. (avente ad oggetto la riduzione del prezzo della merce indicata nella fattura posta a base del procedimento monitorio e soggetto invece al "vecchio rito") sussistono profili di connessione, soggettiva e parzialmente oggettiva;

    considerato, inoltre, che evidenti motivi di opportunità consigliano una loro trattazione congiunta: infatti, la stessa S.C. ha affermato che la circostanza che il decreto ingiuntivo emesso dal presidente di un tribunale riguardi un credito per il quale sia già pendente, dinanzi al medesimo tribunale, un giudizio di cognizione ordinario, determina l’esigenza di una loro riunione a norma degli artt. 273 e 274 c.p.c. (Cass. 22.12.1993, n. 12707);

    rilevato che il potere di riunione non è precluso dal fatto che le cause connesse si trovino in un diverso stadio di istruzione (Cass. 22.11.1980, n. 6214);

    considerato che l’entrata in vigore della novella non ha introdotto alcuna modifica della disciplina della riunione dei provvedimenti relativi a cause connesse;

    ritenuto, pertanto, che la disposizione di carattere generale di cui all’art. 274 c.p.c. debba trovare applicazione pur in mancanza di una espressa previsione normativa idonea a disciplinare il caso in cui i giudizi connessi siano entrambi sottoposti al medesimo rito ordinario, ma l’uno sia disciplinato dalle norme del codice di procedura civile nel testo anteriore alla legge n. 353/90 e l’altro sia stato invece introdotto nel vigore della novella (i criteri indicati dai commi 3°, 4° e 5° del novellato art. 40 c.p.c. riguardano infatti ipotesi nelle quali uno dei riti ha carattere di "specialità");

    rilevato, peraltro, che a favore di tale conclusione milita il rilievo che la scelta compiuta dal legislatore con i commi 3°, 4° e 5° dell’art. 40.p.c. - finalizzata a togliere ogni ostacolo alla trattazione congiunta di cause soggette a riti diversi - evidenzia un chiaro atteggiamento di favore verso il simultaneus processus che traspare pure dalla modifica dell’art. 38 c.p.c. (il quale ha eliminato la distinzione tra competenze "deboli" e "forti", laddove queste ultime si ponevano come ostacoli pressoché insuperabili al simultaneus processus);

    rilevato che appare ragionevole ritenere che la disciplina da applicare ai giudizi riuniti sia quella della causa che ha esercitato la sua vis attractiva sull’altra e cioè, nel caso in esame, della causa "preventivamente" instaurata ex art. 40, 1° comma, c.p.c. (non essendo ravvisabile un rapporto di accessorietà a norma dell’art. 31 c.p.c. tra le cause connesse): infatti, il principio della prevenzione temporale costituisce un criterio generale già prescelto dal legislatore al fine di individuare il giudice dinanzi al quale va attuato il simultaneus processus, di talché ben può essere utilizzato, in chiave di interpretazione analogica, al fine di disciplinare il "caso simile" dell’individuazione della normativa processuale applicabile al processo medesimo;

    considerato, inoltre, che le possibili alternative alla soluzione sopra prospettata non sembrano seriamente praticabili; ed invero l’applicazione del "nuovo" rito tout court determinerebbe intuibili problemi (specialmente nel coordinare la trattazione del giudizio "vecchio") che lo stesso legislatore ha peraltro inteso evitare sostituendo (prima ancora che entrasse in vigore) l’art. 90 della L. 26.11.1990, n. 353 il quale prevedeva che i processi nati con il vecchio rito avrebbero dovuto "convertirsi" (e, quindi, proseguire) nelle forme del nuovo rito tramite la proposizione di un’istanza di prosecuzione (si veda al riguardo l’art. 9 del D.L. 18.10.1995, convertito nella L. 20.12.1995, n. 534, il quale, innovando il suddetto regime, ha stabilito che ai giudizi pendenti alla data del 30.4.1995 vanno invece applicate le disposizioni vigenti anteriormente a tale data);

    ritenuto che neppure possa essere praticata la soluzione di mantenere fermi, all’interno del processo riunito, i differenti riti in relazione a ciascuna delle cause connesse, in quanto ciò da un lato consentirebbe di eludere facilmente le preclusioni e le decadenze operanti nel giudizio soggetto al nuovo rito, dall’altro si scontrerebbe con il favor manifestato dal legislatore verso l’unicità del rito da applicare in caso di più giudizi tra loro connessi (arg. ex art. 40 c.p.c. come novellato dalla l. 353/90);

    ...Omissis...

     

     

    III

    Tribunale di Foggia; ordinanza 22 gennaio 1996; Giud. istr. Savasta; Piazzolla, Piepoli ed altri c. Sicel s.r.l.

     

    Anche in caso di connessione tra cause pendenti davanti allo stesso giudice, alcune delle quali instaurate anteriormente alla data del 30 aprile 1995 ed altre successivamente a tale data, la riunione è sempre possibile e i relativi procedimenti vanno assoggettati al c.d. rito "vecchio".

     

    Letti gli atti e sciolta la riserva formulata all’udienza del 15/1/1996;

    Rilevato che sussistono esigenze di riunione fra la presente causa e quella pendente al n. 6205/94 stante la connessione oggettiva (impropria) e parzialmente soggettiva fra i medesimi procedimenti e, comunque, ritenuta opportuna la trattazione simultanea dovendosi trattare le medesime situazioni e questioni giuridiche.

    Ritenuto che la diversità del rito, essendo la causa n. 6205/94 sottoposta a norme processuali diverse da quelle previste nel nuovo codice di procedura civile (pur trattandosi sempre di giudizi ordinari e non avendo la causa trattata con il nuovo rito il carattere di "rito speciale"), non osta acché si possa addivenire egualmente al detto provvedimento di riunione per connessione atteso che, nel caso di specie, in difetto di una previsione normativa, appare applicabile il principio della "prevenzione" riveniente dall’art. 40 c.p.c.

    Rilevato che tale criterio di natura processuale, costituisce un principio di ordine generale che dettato per l’ipotesi generale della connessione, prescinde dalla rigorosa applicazione della sola fattispecie (giudizi diversi connessi e pendenti presso diversi giudici) di cui all’art. 40 c.p.c. e che esso è stato ritenuto già in linea di massima applicabile, sotto la vigenza del vecchio rito, nelle ipotesi di riunione ex art. 274 c.p.c. atteso che il Presidente del Tribunale provvedeva a rinviare la causa più recente presso il giudice istruttore della causa più antica;

    Considerato che l’applicazione del detto principio comporta la conseguente "vis actractiva" anche con riferimento al rito (trattandosi del medesimo giudizio ordinario trattato con diverso rito e non avendo il nuovo rito carattere di specialità tale criterio è l’unico applicabile essendo gli altri criteri indicati al 3°, 4° e 5° comma del medesimo articolo previsti nelle ipotesi in cui una delle cause ha carattere di specialità);

    Evidenziato, infine, che la riunione e la conseguente trattazione della causa con il rito previgente risponde anche ad esigenze di opportunità, in considerazione del fatto che la causa sottoposta alla vecchia disciplina potrebbe aver superato la prima udienza per cui si giungerebbe, nell’ipotesi di trattazione con la nuova disciplina, ad un’ingiustificata rimessione in termini - per ovviare alle conseguenti decadenze e preclusioni che derivano dal superamento di tale udienza - con riferimento alle posizioni inerenti la causa già trattata con la disciplina prevista per il vecchio rito;

    ..Omissis...

     

     

    IV

    Tribunale di Lecce; ordinanza 11 ottobre 1995; Giud. istr. Cigna; Spazio Design International s.a.s. ed altri c. Banca del Salento.

     

    Anche in caso di connessione tra cause pendenti davanti allo stesso giudice (nella specie più opposizioni al medesimo decreto ingiuntivo), alcune delle quali instaurate anteriormente alla data del 30 aprile 1995 ed altre successivamente a tale data, la riunione è sempre possibile; ove ciò si verifichi i relativi procedimenti vanno assoggettati al c.d. "vecchio rito"

     

    Rilevato che davanti a questo stesso G.I. pende altro giudizio (n. 2475/95) avente ad oggetto opposizione al medesimo decreto ingiuntivo (n. 751/95 del 7 aprile 1995);

    che le due opposizioni sono state proposte una dal debitore principale e l’altra dai garanti per motivi sostanzialmente coincidenti;

    che, pertanto, è opportuno disporre la riunione del giudizio n. 2475 a quello odierno n. 2361, più vecchio di ruolo, stante la evidente connessione oggettiva e parzialmente soggettiva, al fine di realizzare il simultaneus processus;

    che nel giudizio n. 2475 il decreto ingiuntivo è stato notificato all’opponente il 9 maggio 1995 mentre nel presente giudizio il medesimo decreto ingiuntivo è stato notificato agli odierni opponenti il 20 aprile 1995 ed il 22 aprile 1995;

    che, ai sensi dell’art. 643, comma 3°, c.p.c. la notifica del decreto determina la pendenza della lite;

    che, quindi, se separati, i due giudizi sarebbero soggetti a "riti diversi" essendo per uno applicabile per intero la novella di cui alla l. 353/1990 (decreto ingiuntivo notificato dopo il 1 maggio 1995) e per l’altro, invece, (decreto ingiuntivo notificato il 20-22 aprile 1995 e quindi pendente alla data del 30 aprile 1995) le disposizioni vigenti anteriormente al 30 aprile e quelle espressamente menzionate nell’art. 90 l. 353/1990, come modificate dall’art. 9 d.l. 9 agosto 1995, n. 347;

    che l’art. 40 c.p.c. ammette la trattazione congiunta di cause assoggettate a riti diversi ed è, quindi, da ritenersi ammissibile, anche la trattazione congiunta di cause assoggettate, come nel caso di specie, a diverse normative processuali;

    che va, pertanto, disposta la riunione dei menzionati procedimenti;

    che, realizzato il tal modo il simultaneus processus, il giudizio, nonostante la pluralità delle cause, è unico ed è, pertanto, assoggettato ad un’unica disciplina;

    che la causa che ha attirato l’altra (e quindi, nel caso di specie, il presente giudizio più vecchio di ruolo) è quella che determina la disciplina applicabile;

    che, pertanto, il presente giudizio è da ritenersi regolato dalla normativa previgente;

    che questo G.I. è stato designato per la trattazione, in via esclusiva, dei procedimenti sopravvenuti al 1 maggio 1995, regolati per intero dalla l. 353/1990;

    dispone la riunione al presente giudizio di quello, pendente davanti a questo stesso G.I., contrassegnato dal n. 2427/1995;

    rimette gli atti al Presidente della Seconda Sezione Civile del Tribunale per l’eventuale nomina del G.I. o, comunque, per gli opportuni provvedimenti.

    IL COMMENTO

    di Domenico Dalfino

    I. - Ai sensi dell’art. 90, comma 1°, prima parte, l. 26 novembre 1990, n. 353, come sostituito dal d.l. 21 aprile 1995, n. 121, "ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 si applicano le disposizioni vigenti anteriormente a tale data", mentre ai giudizi introdotti successivamente si applica interamente il nuovo rito.

    Cosicché lo schema introdotto dalla nuova disciplina transitoria è il seguente: processi nuovi-rito nuovo, processi vecchi-rito vecchio.

    Come è noto al d.l. 121/95 sono succeduti i dd.ll 21 giugno 1995, n. 238, 9 agosto 1995, n. 347 e 18 ottobre 1995, n. 432, i primi due decaduti perché non convertiti nel termine di 60 giorni dalla emanazione, ai sensi dell’art. 77, Cost., l’ultimo, invece, convertito in l. 20 dicembre 1995, n. 534.

    Dall’impostazione di fondo della legge di riforma, secondo la quale i processi instaurati con il vecchio rito avrebbero dovuto convertirsi nelle forme del nuovo, tramite la proposizione di un’istanza di prosecuzione, si è passati ad un regime opposto, governato dal richiamato principio generale del c.d. "doppio binario".

    Va, tuttavia, precisato che, ai sensi del primo comma e dei commi successivi dell’art. 90, vi è una serie di norme nuove che si applica anche ai processi vecchi. In particolare, a quelli pendenti alla data del 1° gennaio 1993 si applicano anche quelle disposizioni allora entrate in vigore ed ora estese a tutti i giudizi, vecchi e nuovi ().

    Come era facile prevedere, la nuova disciplina transitoria ha lasciato del tutto irrisolte questioni che sarebbero prima o poi sorte nella pratica. Ad esempio, quella relativa al rapporto tra Ufficio del Giudice di Pace e Ufficio di Conciliazione, destinata ad investire non solo problemi di diritto transitorio, ma anche di successione tra uffici giudiziari diversi; quella dell’ammissibilità del simultaneus processus tra procedimenti connessi iniziati a cavallo dell’entrata in vigore della riforma () ed infine, in caso positivo, la questione del "rito" applicabile ().

    II.- Le ultime due questioni formano espressamente oggetto dei provvedimenti in epigrafe.

    Si tratta in tutti e quattro i casi di più procedimenti relativi a cause connesse pendenti innanzi allo stesso giudice. Ai sensi dell’art. 274 c.p.c., allorché si verifichi tale eventualità, il giudice stesso, anche d’ufficio, può disporre la riunione dei procedimenti (comma 1°); mentre se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o davanti ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla sezione per i provvedimenti opportuni (comma 2°).

    Il favor del legislatore verso la trattazione congiunta, che si giustifica volta a volta con le generalissime esigenze di salvaguardare il valore dell’armonia o coordinamento tra le decisioni, di attuare un’economia nello svolgimento delle attività processuali, di salvaguardare l’effettività della tutela giurisdizionale, sotto il profilo della durata del processo, si manifesta anche nel nuovo testo dell’art. 38 c.p.c., che disciplina la rilevabilità delle questioni di competenza secondo un regime complessivamente più blando di quello stabilito dall’originario art. 38 per il difetto di competenza per valore, determinando il venir meno della distinzione tra criteri di competenza c.d. "forti", e perciò inderogabili per ragione di connessione, e criteri di competenza c.d. "deboli" che, in quanto tali possono subire una deroga per favorire il simultaneus processus ().

    Lo stesso favor il legislatore della riforma ha dimostrato nella nuova formulazione dell’art. 40 c.p.c., che consente ai commi 3°, 4° e 5° la trattazione congiunta delle cause connesse pur in presenza di diversità di rito.

    Sennonché, nel caso di specie, cioè nell’ipotesi in cui la connessione sussista tra cause iniziate rispettivamente prima e dopo la data del 30 aprile 1995, siamo di fronte ad una "nuova figura di differenziazione di riti" (), in ordine alla quale, come detto, mancano norme espresse di riferimento.

    Tuttavia, ai sensi dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, "se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe".

    L’art. 40 c.p.c. offre il fondamento positivo per sciogliere l’alternativa tra rito vecchio e rito nuovo in via di interpretazione analogica. In particolare, i commi 3°, 4° e 5° (e in parte anche il 1°) si rivelano preziosi in quanto disciplinano proprio un caso simile, cioè il concorso tra riti diversi, tra l’ordinario e gli speciali, tra l’ordinario e quello del lavoro e tra gli speciali ().

    La scarsa dottrina formatasi sulla questione parte dal comma 4°, che si riferisce all’ipotesi di connessione tra cause soggette a diversi riti speciali.

    La disposizione prevede due criteri applicabili in via gradata: 1) la prevalenza del rito previsto per la causa in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine 2) quella del rito previsto per la causa di maggior valore.

    "Riunite le cause pendenti innanzi a diversi uffici giudiziari innanzi al giudice competente ai sensi degli artt. 31 ss. c.p.c. ovvero disposta la riunione delle cause pendenti innanzi al medesimo ufficio ai sensi dell’art. 274 c.p.c., la causa che ha attirato l’altra o le altre determinerà la disciplina applicabile" ().

    Il rito applicabile sarà determinato dalla causa che "ha esercitato - od avrebbe esercitato potenzialmente se i processi fossero stati pendenti davanti a giudici diversi - la propria vis attractiva sull’altra (nel caso della connessione di cause ex art. 31 sarà la causa principale, in quello dell’art. 32 la c.d. causa di molestia, in quello dell’art. 34 e 35 solo tendenzialmente sarà la causa pregiudiziale, in quello dell’art. 36 solo tendenzialmente sarà la causa introdotta dall’attore ...)" ().

    Nel senso della prevalenza del rito della causa che ha esercitato la propria forza attrattiva si è espresso anche Frangini (). L’autore fa, tuttavia, notare che "laddove invece (le cause) siano state proposte, sia pure in tempi diversi, davanti al medesimo giudice, la norma di riferimento finisce con l’essere l’art. 274 c.p.c., che, richiamando genericamente il concetto di connessione, rinvia anche (sia pure non esclusivamente) alle situazioni indicate dall’art. 40" ().

    Infine, ritiene Capponi che i princìpi contenuti nell’art. 40, comma 4°, c.p.c. debbano trovare applicazione anche in questo caso. Infatti, "se è vero ... da un lato, che il legislatore del 1990 non ha considerato l’ipotesi del concorso dei riti ordinari ... dall’altro, è anche vero che, allorché lo stesso legislatore si è rappresentato l’ipotesi del concorso di due riti speciali, non ha rimesso all’interprete l’indagine circa la (i limiti della) compatibilità dei riti al fine della realizzazione del processo simultaneo, ma dando per scontato il risultato della trattazione simultanea, ha senz’altro individuato il criterio obiettivo della causa "in ragione della quale viene determinata la competenza", o, qualora non vi sia proroga della competenza, della "causa di maggior valore"" ().

    La prevalenza del rito della domanda "in ragione della quale viene determinata la competenza", cioè che ha esercitato la propria vis attractiva, opera in tutte le ipotesi in cui le più domande siano soggette alla competenza di giudici diversi. Controverso è, invece, il caso in cui le due cause connesse siano originariamente soggette alla competenza del medesimo giudice.

    In particolare, ci si chiede se il criterio della prevalenza del rito della causa in ragione della quale viene determinata la competenza possa operare anche in tale ipotesi.

    Nel senso dell’applicabilità del criterio del maggior valore sempre si esprime Proto Pisani (). Secondo la Merlin (), non essendovi in questi casi "in senso stretto una causa in ragione della quale viene determinata la competenza", troverà applicazione il criterio della prevalenza della causa di maggior valore, tranne che sia possibile individuare una forza attrattiva a senso unico, come nei casi di cui agli artt. 31 e 32 c.p.c. A giudizio di Consolo "il criterio di individuazione del rito applicabile è sempre, in prima battuta, quello che fa riferimento alla causa che avrebbe determinato l’attrazione dell’altra, se quest’ultima di per sé non fosse rientrata nella competenza della prima", mentre il criterio sussidiario della causa di maggior valore si applica "allorché le due cause ricadono nella competenza ordinaria (e non prorogata) di un unico giudice, e la connessione fra di esse rientra fra quelle, per le quali non è prevista la vis attractiva di una delle due: come accade nelle ipotesi regolate dagli artt. 34, 35 e 36 in cui è la causa di competenza del giudice superiore che attrae quella di competenza del giudice inferiore; e non rileva che la causa attraente sia la pregiudiziale o la dipendente, la causa principale o quella di compensazione, o la riconvenzionale" ().

    La possibilità di applicare in via analogica all’ipotesi in esame il comma 3° dell’art. 40 c.p.c. () è esclusa da Consolo (). L’autore accenna alla proposta interpretativa di Proto Pisani (che appunto ritiene di applicare in via diretta il comma 3° dell’art. 40 c.p.c., sostenendo la specialità del rito "vecchio" rispetto a quello "nuovo" ed il passaggio dal primo al secondo sempre) riferita a Frangini (), nell’incontro al Convegno di studio promosso dal C.S.M. e tenutosi a Frascati dal 25 al 27 gennaio 1995. Secondo Consolo, al fondo di tale proposta interpretativa "risiede una notevole forzatura del senso dell’intervento urgente recato dal D.L. n. 121/1995, informato - per i rapporti processuali vecchi - ad una più completa rilevanza del principio tempus regit actum e così ad un doppio binario procedurale, e non già quindi ad una mera e transeunte "ibernazione" della applicabilità di un diritto processuale ormai abrogato ad alcuni processi" ().

    Il criterio della prevenzione, invece, viene utilizzato nell’ipotesi in cui le cause, fin dall’inizio pendenti innanzi allo stesso ufficio giudiziario, abbiano lo stesso valore. "Dovrà badarsi alla causa nata per prima, ossia preveniente" () e quindi applicarsi il rito "vecchio" ().

    Un dato normativo non può essere trascurato: l’attuale versione dell’art. 90, l. 1990/353, innanzi richiamato, che fornisce all’interprete un "criterio guida" per superare, almeno in parte, "l’imbarazzo" dovuto alla novità delle problematiche in esame ().

    Tale criterio guida è quello della pendenza della lite, come si ricava dall’art. 39, ultimo comma, c.p.c., ai sensi del quale "la prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione" (). "Pendenza della lite" intesa secondo un "concetto ... legato non già alla singola causa, ma al dato meramente formale della pendenza del processo, al rapporto processuale inteso cioè in senso meramente procedimentale" (). Così da intendere pendenti "tutti i processi nei quali vi sia stato il contatto tra almeno due dei soggetti del rapporto processuale" ().

    L’utilizzazione del criterio appena indicato consentirebbe di dare una soluzione alle ipotesi in cui la connessione tra cause dia luogo ad una pluralità di parti del processo.

    Il problema può sorgere qualora la notificazione della citazione a più soggetti avvenga per alcuni prima della data del 30 aprile 1995 e per altri dopo.

    E’ stato già osservato () che occorrerebbe distinguere a seconda che la pluralità di soggetti generi un fenomeno di litisconsorzio necessario ovvero facoltativo.

    Nel primo caso, essendo il rapporto processuale unico ed inscindibile (salvi i casi in cui il litisconsorzio necessario sia imposto dalla legge per ragioni di opportunità), il rito applicabile, secondo l’orientamento prevalente, dipenderebbe dalla data della prima notificazione ().

    Nel secondo caso, invece, si dovrebbe ulteriormente distinguere a seconda del tipo di connessione esistente tra i diversi rapporti.

    Cosicché, laddove la trattazione simultanea risponde all’esigenza di evitare il formarsi di giudicati praticamente contraddittori, come nei casi di connessione per identità di oggetto o petitum (alternatività, incompatibilità), ovvero per identità di petitum e causa petendi (obbligazioni solidali e litisconsorzio unitario o quasi necessario), le domande cumulate ab origine o riunite successivamente, non potendo essere separate in corso di istruzione o in fase di decisione, saranno soggette al rito di quella fra esse che sia stata notificata o, comunque, introdotta per prima.

    Laddove il rischio insito nella mancata attuazione del simultaneus processus si limiti ad una mera disarmonia di precedenti giurisprudenziali, come nei casi di connessione per mera identità di fatto costitutivo, le cause, che continuano a mantenere la propria autonomia, saranno soggette ciascuna al proprio rito, essendo sempre possibile disporne la separazione ai sensi dell’art. 103, comma 2°, c.p.c.

    Tale soluzione potrebbe a maggior ragione essere adottata nelle controversie connesse per identità di questioni di fatto o di diritto, in cui il cumulo processuale può essere dettato soltanto da ragioni di economia di giudizi, potendo le cause essere in qualunque momento separate ai sensi dell’art. 103, comma 2°, c.p.c.

    Laddove, infine, la trattazione separata rischia di condurre ad un conflitto logico di giudicati, come nei casi di connessione per pregiudizialità, il criterio della pendenza della lite dovrà probabilmente cedere il passo a quello dettato dall’art. 40, comma 4°, c.p.c., applicabile in via analogica al caso di specie, per l’ipotesi di cause assoggettate a differenti riti speciali "e quindi ritenere che il rito applicabile, in caso di cause di competenza di giudici diversi, sia quello della causa principale (nel caso degli artt. 31 e 32) e quello della causa appartenente alla competenza del giudice superiore (negli altri casi)" ().

    Il criterio della prevenzione di cui all’art. 40, comma 1°, c.p.c. può essere utilizzato in chiave di interpretazione analogica, anche sulla base del rilievo che i riti che concorrono nell’ipotesi di connessione in esame non sono speciali, ma entrambi ordinari, non potendo, pertanto, applicarsi né il comma 4°, né il comma 3°.

    I tre provvedimenti in epigrafe che ritengono applicabile il rito "vecchio" al processo simultaneo muovono da questa interpretazione ().

    III. - Un ultimo spunto di riflessione è offerto dai problemi pratici che possono sorgere dall’applicazione al simultaneus processus del rito "vecchio" o di quello "nuovo".

    A tal proposito occorre innanzitutto distinguere la fase di trattazione da quella decisoria.

    Sotto il primo profilo è stato opportunamente rilevato che "nonostante fuorvianti e misoneistiche interpretazioni, la nuova disciplina del processo ordinario di cognizione innanzi al tribunale prevede attività e cadenze che avrebbero potuto (e, per i giudizi pendenti, possono ancora) essere già attuate con la normativa anteriore in virtù dei poteri del giudice di direzione del processo". Infatti, a ben vedere, essa "qualifica quali "doveri", ciò che, fino a ieri, erano soltanto poteri, raramente esercitati" ().

    Questo comporta che, nel passaggio dal "vecchio" al "nuovo" rito, non dovrebbero esservi difficoltà insormontabili ().

    Tuttavia, resta da risolvere qualche problema di coordinamento in relazione allo sdoppiamento della prima udienza del processo, introdotto a partire dal d.l. 238/95. Basti pensare all’ipotesi in cui nel processo relativo alla causa "vecchia", introdotta cioè prima della data del 30 aprile 1995, si sia già svolta la prima udienza di trattazione, mentre in quello relativo alla causa introdotta dopo l’entrata in vigore del d.l. 21 giugno 1995, n. 238, non abbia avuto luogo alcuna udienza. In questo caso deve il giudice istruttore fissare una nuova udienza che sia di prima comparizione ex art. 180 c.p.c., a seguito della quale in ogni caso fissarne un’altra che sia di trattazione vera e propria, assegnando un termine al convenuto per le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, ovvero considerare la prima udienza tenutasi nell’ambito del processo "vecchio" una udienza di prima comparizione e fissare direttamente l’udienza di trattazione assegnando al convenuto un termine non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio?

    In ordine al problema della proposizione delle eccezioni a norma dell’art. 180 c.p.c. la soluzione preferibile secondo Frangini è quella secondo cui "il giudice, riunite le cause e trasformato il rito, fissi direttamente l’udienza ex art. 183 c.p.c., nonché i termini entro cui le parti potranno integrare le loro difese, per evitare di incorrere nelle preclusioni di cui è costellata la fase preliminare del giudizio" (). L’autore trae un riscontro normativo nell’art. 40, comma 5°, c.p.c. "che, per l’ipotesi di trasformazione del rito da ordinario in speciale, richiama l’art. 426 c.p.c., secondo cui il giudice fissa un termine perentorio entro cui provvedere alla integrazione delle difese". Tuttavia, sarebbe più corretto (rispetto alla premessa di applicare analogicamente l’art. 40, comma 4°, c.p.c. all’ipotesi di connessione fra cause soggette a riti "ordinari" diversi) argomentare a favore dell’art. 426 c.p.c. dal nuovo testo dell’art. 667 c.p.c., che nel prevedere il passaggio dal processo speciale per convalida al rito speciale del lavoro, contempla il caso della trasformazione di un rito speciale in un altro ().

    Secondo il Tribunale di Bari, unico tra i provvedimenti in epigrafe a sostenere l’applicabilità del rito "nuovo", in applicazione analogica dell’art. 180 c.p.c. deve fissarsi una udienza di prima comparizione rispetto alla quale l’attore "deve depositare in cancelleria e notificare ai convenuti contumaci, unitamente al presente provvedimento (di riunione), entro il termine di cui all’art. 163-bis c.p.c., una memoria integrativa dell’atto di citazione ..., con l’indicazione dei dati prescritti nell’art. 163, 3° comma, c.p.c., e i convenuti possono esercitare, nel termine di cui all’art. 166 c.p.c., le facoltà di cui all’art. 167 c.p.c.".

    Il passaggio dal "nuovo" al "vecchio" rito dovrebbe essere ancora più agevole, non prevedendo il "vecchio" rito preclusioni e decadenze forti. Tuttavia, questa è la ragione che spinge Consolo a "dubitare dell’opportunità della riunione nei casi di connessione "debole" (semplice comunanza di alcune questioni) od anche "semplice" (connessione solo per l’oggetto o solo per il titolo)" ().

    Sotto il secondo profilo, quello della fase decisoria, si pone il problema della scomparsa dell’udienza collegiale () e quello dell’attribuzione come regola al giudice monocratico della decisione della causa.

    E’ stato rilevato in proposito che "proprio in riferimento alla disciplina delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, la questione non appare meritevole di soverchia considerazione: la disciplina delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, infatti, consente appunto che, anche per mere ragioni di economia processuale, più cause siano trattate congiuntamente derogando ai criteri di competenza stabiliti per alcune di esse, cosicché, ad esempio, è fisiologico che una causa attribuita alla competenza di un organo monocratico, quale il pretore, sia decisa da un organo collegiale, se connessa ad un’altra attribuita alla competenza di questo" (). Una tale evenienza non deve sorprendere, soprattutto se si considera che "la violazione del riparto tra giudice unico e collegio non impegna la questione di competenza in senso tecnico, ma solo quella (del vizio) della composizione del giudice ().

    Si è, peraltro, sostenuto che "nella concorrenza tra una decisione collegiale, propria del vecchio rito ed una monocratica propria del nuovo, prevale la prima in virtù del principio, applicabile in via analogica, dell’art. 274 bis c.p.c." ().

    Sulla specifica questione v. Trib. Bari, ord. 28 dicembre 1995, cit., nel senso che in caso di connessione tra cause attribuite al collegio e cause attribuite al giudice istruttore in funzione di giudice unico, non può essere disposta la riunione, allorché alcune siano state instaurate anteriormente alla data del 30 aprile 1995 ed altre successivamente a tale data.

     

     

  13. Disciplina transitoria e diritto intertemporale
  14. Torna all'indice

    7.2) LA SOSPENSIONE NEL GIUDIZIO D'APPELLO DELL’ESECUZIONE PROVVISORIA DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO, EX ART. 351 C.P.C., TRA CONSIGLIERE ISTRUTTORE E COLLEGIO

    I

    Corte d’appello di Lecce, sez. I; 18 maggio 1996, ord. - Collegio - Ricci c. Comune di Massafra

     

    Nei giudizi di appello pendenti alla data del 30 aprile 1995 sulla richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza impugnata provvede il consigliere istruttore e non il collegio.

    Il provvedimento sull’istanza di inibitoria, non avendo carattere cautelare in senso stretto, non è reclamabile ex art. 669terdecies c.p.c. ad altra sezione della Corte, ma, ai sensi dell’art. 357 c.p.c., al collegio della medesima sezione.

     

    La Corte, esaminati gli atti, osserva in fatto:

    con reclamo 24/2/1996, Rosa Ricci si è lamentata della sospensione " dell’efficacia esecutiva e della esecuzione " sulla sentenza del Tribunale di Taranto 20/10/1995 sospensione o inibitoria disposta con ordinanza 14/2/1996 del Presidente della sez. stacc. della Corte d’Appello di Taranto, allegando: A) l’incompetenza del Presidente, spettando il potere sospensivo ex art.283 c.p.c. novellato al Collegio; B) la riconducibilità dell’ impugnazione nell’ambito dell’art. 669terdecies ( richiamato nell’intestazione), ovvero, in subordine, nel reclamo ex art. 351 c.p.c. vecchio testo; C) la non condivisibilità nel merito dell’ordinanza presidenziale, ancorato ai nuovi criteri valutativi, introdotti, in tema di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva per irreversibile destinazione del fondo, dall’art.1, c. 65 L. 28/12/95 n.549, entrata in vigore l’1/1/1996 ed applicabile per espressa previsione ai giudizi in corso;

    il Comune di Massafra, regolarmente costituitosi, ha sottolineato l’esattezza sul provvedimento reclamato;

    in diritto: il motivo sub A è palesemente infondato, dovendosi in contrario ritenere che la competenza a provvedere in prima battuta sull’istanza di inibitoria spetti al Presidente della Corte ( o al Consigliere Istruttore ) in quanto: 1) l’art.90, 1° c. D.L. 18/10/1995 n.432 conv. Con mod. nella L.20/12/1995 n.534 fissa il principio generale, secondo cui ai giudizi pendenti - come nella specie - alla data del 30/4/1995 si applicano le disposizioni processuali anteriormente vigenti a tale data; 2) l’art.351 c.p.c. ( nel testo novellato ), che fissa il procedimento dinanzi al Collegio per l’ emanazione dei provvedimenti nell’esecuzione provvisoria, non è stato richiamato; 3) è rimasto, in difetto di contraria previsione, il rimedio del reclamo al Collegio per le ordinanze in subiecta materia, emesse da giudice monocratico; 4) il richiamo contenuto nel secondo comma dell’art.90 cit. degli artt.283 e 337, 1° c., c.p.c. ( nel nuovo testo ) vale a definire l’ambito sul possibile contenuto del provvedimento - limitato, in caso di accoglimento sull’istanza alla sola "sospensione" - e non a dettare una regola sulla competenza per i predetti giudizi in corso; 5) la formula adoperata - "giudice d’appello" - non è - ai fini che qui interessano - esaustiva in quanto identica nell’art. 283 c.p.c. originario e novellato;

    infondato è il motivo - prima parte - sub B, in quanto il provvedimento sull’inibitoria non è cautelare in senso stretto, giacché la sospensione non produce altro effetto se non quello di impedire al possessore del titolo esecutivo di esercitare o proseguire l’azione esecutiva, mentre per converso il diniego di sospensione consente l’attuazione del diritto, consacrato in un titolo esecutivo giudiziale (o extragiudiziale), rispetto al quale il danno non si pone in rapporto di immediata consequenzialità - e, quindi non è attuale - dipendendo da un evento diverso ed incerto, correlato all’ accoglimento dell’impugnazione (o dell’ opposizione ), sicché l’esecuzione del titolo o la sospensione dell’esecuzione non sono di per sé ed intrinsecamente produttive di un pregiudizio diretto ed attuale, ma ipotetico, condizionato e futuro: ne consegue che il provvedimento sull’istanza di inibitoria quale che ne sia il contenuto non è reclamabile ex art. 669terdecies c.p.c.; relativamente al motivo sub B, seconda parte la competenza a provvedere sul reclamo spetta ex art. 357 c.p.c. alla Corte d’Appello di Taranto, il che assorbe la doglianza di merito;

    dichiara la propria incompetenza a provvedere sul reclamo.

     

     

    II

    Corte d’appello di Bari, sez. II; 4 novembre 1996, decr. - Presidente Passarelli - Comune di Trani c. IM.CO S.p.A.

     

    Dovendosi applicare ai giudizi di appello pendenti alla data del 30 aprile 1995 il vecchio testo dell’art. 351 c.p.c., il presidente del collegio non può disporre con decreto l’immediata sospensione provvisoria dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.

    Considerato che a questo giudizio si applica il vecchio rito;

    considerato che a norma dell’art. 351, vecchio testo, c.p.c., competente per la sospensione dell’esecuzione provvisoria è l’istruttore (che provvede nella prima udienza) salvo il caso di urgenza in cui diventa competente il presidente su ricorso della parte interessata; il quale caso sembra ricorrere nella specie;

    considerato che pertanto va provveduto come in appresso, ma senza l’immediata sospensione provvisoria dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata perché a norma dell’art. 351 (vecchio testo) il presidente non ha tale poter attribuitogli soltanto dal nuovo rito per le cause soggette alla nuova procedura;

    fissa l’udienza del 22 novembre, ore 11, per la comparizione delle parti davanti al consigliere istruttore dott. Vittorio Ianiri che si delega per la risoluzione dell’incidente, disponendo altresì che questo decreto, unitamente al ricorso, sia notificato all’altra parte entro il 13 novembre p.v.;

    rigetta l’istanza di immediata sospensione provvisoria dell’efficacia esecutiva della sentenza appellata.

     

    IL COMMENTO

    di Umberto Volpe

    Nello stesso senso dei provvedimenti in rassegna, e cioè per l’applicabilità del vecchio testo dell’art. 351 c.p.c. ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995, v. App. Bari, 9 feb. 1996, in Quaderno Barese, n. 2, 44, nonché in Corriere giur., 1996, 717, con nota di VOLPE, alla quale si rinvia per richiami e per una rapida sintesi della disciplina transitoria disegnata dall’art. 90 della legge 353/90.

    Adde, in senso sostanzialmente conforme, App. Firenze, ord. 19 gen. 1996, in Giur. it., 1996, I, 2, 396, nonché in Corriere giur., 1996, 779, che, tuttavia, rilevando come i sistemi contrapposti delineati dal codice del ’42 e dalla riforma del ’90 risultino "ibridati" nella fase transitoria per il mancato richiamo dell’art. 351 accanto agli artt. 282 e 283, suggerisce una soluzione di compromesso: "per valutare i "gravi motivi" anche relativi al merito tali da indurre a sospendere una esecutività non vagliata dal giudice di primo grado, come prescritto dal novellato art. 283 già applicabile al pari del nuovo art. 282, risulta più adatto il collegio (che poi renderà la sentenza), che potrà allora essere adito all’uopo in sede di reclamo, mentre il presidente dovrà in prima battuta limitarsi a valutare solo i "giusti motivi di urgenza" di cui al comma 3 dell’art. 351 vecchio testo". Reclamo, pertanto, che, proposto ai sensi dell’art. 357, viene visto non come una impugnazione eventuale ma quasi come transizione davanti all’organo munito di competenza sostanziale riguardo al fondamento della domanda di inibitoria.

    Sul punto critico CONSOLO, L’inibitoria in appello nel (lungo) regime transitorio tra forme vecchie (art. 351) e sostanza nuova (art. 283) e nel raffronto con il c.p.p., ibid., 781 (nonché in CONSOLO-LUISO-SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 414), il quale ritiene che su questa delicata questione di coordinamento fra sostanza e forma, determinata solo dal disordinato incedere dell’entrata in vigore delle riforme e dalla conseguente singolare scissione fra vigenza (immediata) delle nuove norme sulla esecutività delle sentenze di primo grado e sulle condizioni della sua inibitoria in appello (artt. 282 e 283) e la vigenza (rinviata) delle nuove norme sul modus procedendi nel giudizio di appello, "tertium non datur: o si forza la lettera malcerta e forse casuale della norma transitoria e si recupera la coincidenza e la logica, oppure ci si attiene alla confinazione letterale legislativa e, a questo punto, però, il giudice o il consigliere istruttore - o il presidente, se ricorrono i giusti motivi di urgenza - dovranno direttamente impegnarsi nell’esame dei gravi motivi di cui al riformato art. 283".

    La scelta fra le opposte soluzioni viene così a dipendere dalla prevalente collocazione funzionale da assegnare all’art. 351: norma disciplinante - nel combinato disposto con gli artt. 282 e 283 (immediatamente applicabili ai processi iniziati dopo il 1° gennaio 1993 e alle sentenze pubblicate dopo il 19 aprile 1995) - il funzionamento di un autonomo ed incidentale subprocedimento entro cui svolgersi il giudizio di inibitoria, ovvero norma indissolubilmente legata alla struttura interamente collegiale del nuovo giudizio di appello (come tale applicabile soltanto ai processi iniziati, in primo grado, dopo il 30 aprile 1995).

    Quanto, infine, ai rimedi avverso la decisione sull’istanza di sospensione della provvisoria esecuzione, da un lato, ai sensi dell’art. 351 nuovo testo, il provvedimento adottato dal collegio deve ritenersi non impugnabile (tanto si desume interpretando sistematicamente il primo e il terzo comma della disposizione: così CONSOLO, Commentario, 412; VALITUTTI- DE STEFANO, Le impugnazioni nel processo civile, vol. 2, Padova, 1996, 160; in senso dubitativo PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996), dall’altro, in applicazione della previgente normativa, trova spazio unicamente lo strumento tipico del reclamo al collegio previsto dall’art. 357.

     

  15. Il processo cautelare

Torna all'indice

8.1) OBBLIGO DI SPECIFICAZIONE NELL’ISTANZA CAUTELARE DELLA DOMANDA DI MERITO

I

Tribunale di Bari, IV sez., 3 giugno 1996, ord. - G. D. Magaletti - Hertz Italiana s.p.a. c. Apulia car s.r.l.

 

E’ nullo il ricorso per provvedimento cautelare quando manchi ogni indicazione circa l’azione che l’istante intenda proporre nel successivo giudizio di merito

 

... Omissis...

letto il ricorso ex art. 669 bis e ter c.p.c. proposto da Hertz Italiana S.p.A. con il quale si chiede: a)l’immissione della ricorrente nel possesso dell’ufficio aeroportuale situato nella sala d’ingresso dell’Aeroporto di Bari-Palese; b)in via subordinata inibirsi alla Apulia Car s.r.l. la prosecuzione dell’attività di autonoleggio sotto il nome e le insegne Hertz ed ordinarsi la rimozione delle insegne Hertz eventualmente ivi esposte nonché di qualsiasi altro segno distintivo della Hertz; letta la memoria difensiva della Apulia Car s.r.l. la quale ha eccepito l’incompetenza territoriale di questo Tribunale in virtù di clausola contrattuale che prevede la competenza esclusiva del foro di Roma ed ha dedotto nel merito l’infondatezza dell’azione cautelare; esaminati gli atti del procedimento.

Rileva preliminarmente questo giudice, in conformità alla tesi accolta dalla dottrina prevalente, che il ricorso ex art.669 bis e ss c.p.c. debba contenere la precisa indicazione non solo del provvedimento cautelare richiesto ma anche della causa petendi e del petitum del giudizio di merito rispetto al quale viene promossa l’azione cautelare.

Tale conclusione, alla quale dottrina e giurisprudenza erano già pervenute con riferimento alla normativa previgente, appare ancor più condivisibile alla stregua del sistema delineato dal legislatore del 1990.

Infatti, la necessità che il ricorso contenga l’esposizione anche delle conclusioni di merito, in precedenza affermata in relazione all’esigenza di consentire al giudice di valutare la sussistenza del necessario rapporto di strumentalità con l’azione di merito, risulta ancor più evidente se la domanda cautelare sia proposta ante causam ove si consideri che:

a)la nuova disciplina del procedimento cautelare presuppone sempre e comunque l’individuazione del giudice competente per il giudizio di merito sin dalla proposizione della domanda cautelare;

b)l’art.669 novies prevede la caducazione del provvedimento cautelare qualora il giudizio di merito non venga iniziato nel termine perentorio di cui al comma precedente con la conseguente necessità che la domanda di merito si identifichi esattamente con quella enunciata nel ricorso cautelare.

L’individuazione del petitum e della causa petendi del giudizio di merito instaurando costituisce pertanto elemento essenziale del ricorso la mancanza del quale determina ai sensi dell’art.156 II co c.p.c. la nullità del medesimo perché inidoneo al raggiungimento dello scopo che gli è proprio.

Orbene nel caso di specie il ricorso proposto dalla Hertz Italiana S.p.A. è carente di qualsiasi indicazione relativa al petitum ed alla causa petendi del giudizio di merito. Non si tratta di un rilievo di carattere meramente formale, atteso che nella articolata narrativa del ricorso si fa riferimento sia alla scadenza del contratto di franchising sia all’inosservanza da parte della resistente dell’obbligo, assunto dopo estenuanti trattative, di rilasciare la zona aeroportuale dalla stessa detenuta entro la fine di dicembre, sia infine ad un’attività di illecita concorrenza, laddove nelle conclusioni si chiede in via principale "l’immissione nel possesso" dell’area aeroportuale ed invia subordinata l’inibitoria di attività di concorrenza sleale, in definitiva esponendosi una serie di fatti e circostanze che potrebbero essere poste a fondamento di varie azioni nel giudizio di merito.

Orbene è evidente che in tale situazione non è possibile valutare la sussistenza del nesso di strumentalità tra provvedimento cautelare richiesto e uno dei possibili giudizi di merito che potrebbero essere instaurati, ne accertare, sia pure in via sommaria, la sussistenza del fumus boni juris e del periculum in mora, nè infine se il provvedimento cautelare richiesto possa essere emesso ovvero alla sua adozione sia di ostacolo la previsione di un tipico procedimento cautelare incompatibile con il sistema delineato dagli art. 669 e ss c.c., nè infine è possibile determinare se sussiste la competenza del giudice del cautelare adìto. Quest’ultimo rilievo assume maggior spessore ove si consideri che la ricorrente in via principale ha chiesto l’immissione nel possesso di beni il che indurrebbe a ritenere che intenda promuovere un giudizio di merito di natura possessoria come appare confermato dal richiamo agli artt.8 e 21 c.p.c. operato in ricorso. Ove così fosse l’ incompetenza del Tribunale risalterebbe con palmare evidenza alla stregua di quanto previsto dall’art 703 c.p.c. Per quanto attiene poi alla domanda subordinata deve osservarsi che la mancata indicazione del petitum e della causa petendi non consente di stabilire se sussiste la competenza di questo Tribunale tenuto conto sia dell’eccezione formulata dalla resistente in relazione al foro convenzionale esclusivo sia della pendenza tra le stesse parti dinanzi al Tribunale di Roma di altro giudizio inerente al rapporto di franchising sopradetto. Né è ipotizzabile che il giudice del cautelare valuti la sussistenza di tutti i requisiti di competenza ammissibilità e fondatezza dell’azione cautelare in relazione a tutte i vari giudizi di merito che potrebbero essere instaurati né tantomeno sia lo stesso giudice ad individuare tra i medesimi quello che sarà iniziato o che sia comunque conveniente promuovere.

Alla stregua di tali dichiarazioni devesi pertanto dichiarare la nullità del ricorso sopradetto con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese giudiziali che si liquidano in £.3.000.000 oltre I.V.A.e C.P.

...Omissis...

dichiara la nullità della domanda cautelare proposta dalla Hertz Italiana S.p.A. nei confronti della Apulia Car s.r.l.

 

 

II

Tribunale di Bari, sez., 5 settembre 1996, ord. - Pres.- est. Labellarte - Massara c. Sporting club il Trampolino s.r.l.

 

Deve essere dichiarata inammissibile la domanda di misura cautelare proposta con ricorso non contenente la precisa indicazione dell’instaurando giudizio di merito

 

...Omissis...

Osserva il collegio che il reclamo è parzialmente fondato e, pertanto, va accolto per quanto di ragione.

Preliminarmente, in rito, deve osservarsi che l’eccezione della reclamata, secondo cui il provvedimento di sospensione dell’esecuzione delle delibere assembleari, di cui all’art. 2378 c.c., non è reclamabile al Collegio in base all’art. 669terdecies c.p.c., è del tutto infondata.

L’art. 669quaterdecies c.p.c. infatti, stabilisce che le norme sul procedimento cautelare uniforme, si applicano anche ai provvedimenti cautelari previsti dal codice civile.

La giurisprudenza, invero, in tema di sospensione di delibere ex art. 2378 c.c., ritiene applicabile il procedimento cautelare uniforme.

E’ pertanto conseguenziale e pacifica la reclamabilità del provvedimento.

La domanda ex art. 700 c.p.c., proposta dalla convenuta è stata esattamente rigettata dal G.I. , perché nel relativo ricorso (materialmente contenuto nella comparsa di costituzione e risposta), non è stata articolata alcuna precisa delimitata domanda di merito.

Come è ormai a tutti noto, ogni domanda cautelare è inammissibile ove non si indichi l’azione che si ha in animo di proporre nel giudizio di merito, stante l’indefettibile rapporto di strumentalità esistente tra cautela e merito.

Ma, quand’anche si voglia, dalla comparsa di risposta, enucleare una domanda di merito (declaratoria di validità delle delibere? - ma si tratterebbe, in realtà, solo di eccezione volta a paralizzare la domanda di controparte -azione di responsabilità contro l’attrice?, consegna e gestione dell’azienda?), la domanda cautelare proponibile nella specie era quella del sequestro giudiziario di cui all’art. 670 c.p.c. e non quella - atipica e residuale- di cui all’art. 700c.p.c

L’art. 670 c.p.c. disciplina il sequestro giudiziario di azienda, di beni mobili, immobili, di libri, registri e documenti e la domanda ex art. 700 c.p.c. è volta ad ottenere proprio detti beni.

...Omissis...

IL COMMENTO

di Maria Laura Spada

Ai sensi dell’art. 669 bis c.p.c., la domanda diretta ad ottenere un provvedimento cautelare si "propone con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente".

La norma nulla dispone in merito al contenuto del ricorso, agli eventuali casi di nullità e al regime di sanatoria dei vizi dell’atto introduttivo.

Tuttavia la lacuna contenuta nella disposizione normativa, è solo apparente.

Una disciplina specifica del contenuto della domanda cautelare si ricava, indirettamente dall’immutato art. 693, comma 3°, c.p.c., che con riguardo alla domanda di istruzione preventiva, richiede "l’indicazione dei motivi dell’urgenza e dei fatti sui quali debbono essere interrogati i testimoni, e l’esposizione sommaria delle domande o eccezioni alle quali la prova è preordinata".

In ogni caso, giova sottolineare che l’art. 125 c.p.c., essendo una norma generale sul contenuto - forma e sulla sottoscrizione degli atti di parte, è certamente applicabile anche in sede cautelare.

In tal senso, la parte istante nel ricorso diretto ad ottenere una misura strumentale al processo di cognizione, deve indicare "l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda cautelare".

Considerazioni di ordine sistematico, "convincono che il ricorso cautelare, (...) dovrà già identificare la domanda giudiziale che darà fondamento ed oggetto all’instaurando giudizio di merito (...)" .

In particolare il ricorrente dovrà esprimersi "sia con riguardo al petitum della domanda di merito (...) sia con riguardo alla sua causa petendi, almeno in ogni ipotesi in cui uno specifico fatto costitutivo sia richiesto per individuare il diritto sostanziale fatto valere e così, a differenza che per le domande su diritti assoluti e reali di godimento (c.d. autodeterminate), soprattutto per le domande deducenti diritti di obbligazione o pretese costitutive" .

La necessità di indicare all’interno del ricorso cautelare gli elementi relativi al merito cautelando, si ricava da alcune norme:

"a) in primo luogo, dall’art. 669 ter c.p.c. nella parte in cui prevede che prima dell’inizio della causa di merito la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito;

b) in secondo luogo, dall’art. 669 sexies c.p.c. a tenore del quale il giudice deve procedere agli atti di istruzione indispensabili in relazione "ai presupposti e ai fini del provvedimento" e quindi al c.d. fumus boni iuris come "probabile esistenza del diritto che costituirà oggetto del processo a cognizione piena" (...);

c) infine, dagli art. 669 octies e 669 novies c.p.c. per cui, in ipotesi di accoglimento della domanda cautelare, la parte istante deve provvedere, a pena di inefficacia della misura concessa, alla instaurazione della relativa causa di merito entro il termine perentorio stabilito dal giudice" .

Cosicché, la esatta prospettazione della "materia della domanda di merito" risulta essere necessaria, oltre che ai fini della corretta valutazione del fumus boni iuris, anche per un corretto funzionamento delle regole procedimentali introdotte per l’emanazione della misura cautelare.

La giurisprudenza formatasi successivamente all’entrata in vigore della norma, ritiene necessaria l’indicazione della causa di merito nella domanda cautelare formulata ante causam.

L’omissione di tale indicazione, però, risulta essere diversamente sanzionata: in alcuni casi si è proceduto alla dichiarazione di nullità della domanda cautelare, in altri alla inammissibilità, in altri ancora si è provveduto con il rigetto del relativo ricorso.

Diversamente dalla giurisprudenza, una parte della dottrina ritiene si possa applicare in via analogica il meccanismo di sanatoria ex nunc delineato dal 5°, 6° e 7° comma dell’art. 164 c.p.c. per vizi attinenti alla editio actionis dell’atto di citazione, con la conseguenza che in ipotesi di mancanza o assoluta incertezza della domanda di merito, il giudice deve ordinare alla parte ricorrente di rinnovare o integrare il ricorso con possibilità di chiudere in rito il procedimento nella ipotesi di mancata rinnovazione entro il termine stabilito.

Ragioni di tipo sistematico muovono a favore di quest’ultima soluzione.

Si è osservato, infatti, che "la soluzione finora adottata dalla giurisprudenza, sembra peccare di eccessivo formalismo nel contesto di un procedimento, come quello cautelare, che è destinato a svolgersi nella più completa libertà di forme".

Se si considera che lo stesso tipo di vizio, nell’ambito del processo ordinario di cognizione basato su un regime di preclusioni, è sottoposto ad un meccanismo di sanatoria ex nunc, si può ritenere una forzatura quella che, proprio nell’ambito di un procedimento deformalizzato e in assenza di una espressa previsione legislativa, il vizio di omessa indicazione della domanda di merito possa essere soggetto ad un regime più rigido di quello previsto nell’ambito del processo a cognizione piena.

Cosicché, non è ingiustificato il dissenso espresso da qualche autore contro l’eccessivo formalismo in ordine al contenuto del ricorso cautelare. Formalismo, che spinge talora ad esigere che la domanda cautelare ante causam contenga già le vere e proprie "conclusioni di merito", con la conseguenza che la nullità del ricorso è stata pronunciata in giurisprudenza anche per carenze relative ad elementi che attengono alla sola fondatezza dell’istanza cautelare.

In tale prospettiva, vi sono recenti pronunce che con riferimento alla mancata indicazione del merito cautelando, al fine di evitare la declaratoria di nullità, ritengono che l’azione di merito possa essere evinta dal giudice attraverso l’interpretazione complessiva della domanda cautelare proposta.

Cosicché, al giudicante viene attribuito un generale potere di interpretazione e di qualificazione del ricorso, che rende superabile il vizio relativo alla mancata indicazione espressa della causa di merito.

In altre parole, il magistrato, nell’esercitare tale potere, deve ricercare l’effettiva volontà delle parti, tenendo conto non solo della manifestazione di volontà specificamente formulata ed espressa nelle conclusioni, ma anche di quella che può essere desunta indirettamente o implicitamente dalle deduzioni o dalle richieste, incontrando come unico limite il rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

 

8) Il processo cautelare

Torna all'indice

8.2) COMPATIBILITA’ DELLA DISCIPLINA CAUTELARE UNIFORME CON LE LEGGI SPECIALI (R. D. 1127/1939 e L. 633/1941)

I

Tribunale di Lecce, sez. 21 giugno 1995, decr. - G.D. Positano - Passerini s.p.a. c. Allumi Center s.r.l.

 

La nuova disciplina del procedimento cautelare si applica al provvedimento di descrizione previsto dalla legge sui brevetti per invenzione industriali

 

Letto il ricorso che precede; ritenuto che al procedimento cautelare speciale previsto dall’art. 81 del R. D. n. 1127 del 1939, sia per quanto attiene alla competenza, che al procedimento debbano trovare integrale applicazione le norme della novellata disciplina processuale in materia di procedimenti cautelare, dovendosi reputare abrogate le norme precedenti che all’uopo disponevano in senso contrario. Con ciò disattendendo l’orientamento di quegli autori secondo i quali, nel capo particolare della descrizione (ricorrente nell’ipotesi de quo) dovrebbe trovare applicazione soltanto l’art. 669septies c.p.c., in analogia con quanto previsto, per i procedimenti di istruzione preventiva, dall’art. 669quaterdecies (Attardi, Consolo, Oberto). Neppure convince la tesi di chi (Costantino) ritiene che l’attuazione di siffatte procedure dovrebbe modellarsi alla stregua delle norme sull’esecuzione dei sequestri, piuttosto che ai sensi dell’art. 669duodecies, e ciò proprio a ragione della generalità della proclamazione contenuta nell’art. 669quaterdecies.

Appare preferibile l’applicazione in toto del procedimento cautelare, con sostituzione delle norme processuali eventualmente previste dalla legge anteriore, con quelle dettate dalla normativa generale in tema di procedimenti cautelari.

In tal senso si è già espressa la giurisprudenza di merito che ha ritenuto ammissibile il reclamo di provvedimenti emessi in tema di diritto d’autore (Trib. Milano 21.6.93 in Foro It.) ed espressamente ritenuto applicabile la disciplina processuale ex art. 669 bis e ss. ai procedimenti di sequestro e descrizione (Pret. Bologna 5.4.93 in Foro It.)

...Omissis...

 

 

II

Tribunale di Bari, sez. II, 12 luglio 1995, ord. - Pres. Napolitano, Rel. Labellarte - Edinform s.r.l. c. Regione Puglia

 

La nuova disciplina del procedimento cautelare si applica ai provvedimenti di sequestro previsti dalla legge sul diritto d’autore

 

La prima questione da affrontare concerne la compatibilità tra la disciplina del procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669 bis. e ss. c.p.c. e la particolare disciplina prevista - in tema di tutela cautelare (latamente intesa) - dalla legge 22.4.41 n. 633 sul diritto d’autore. L’art. 669 quaterdecies c.p.c. stabilisce che le disposizioni della Sez. I del capo III del libro III del c.p.c. (artt. 669 bis - 669 terdecies c.p.c.) si applicano, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dalle leggi speciali.

Deve ritenersi pacifico che la compatibilità non vada intesa nel senso che la disciplina uniforme debba poter trovare applicazione per intero, sì che - ove vi fosse anche una sola norma incompatibile - l’intera disciplina codicistica sarebbe destinata a recedere a fronte delle disposizioni speciali.

La compatibilità va verificata, invece, considerando le norme isolatamente ed effettuando un’operazione di armonizzazione tra norme generali e speciali, avendo ben presente la "ratio" e le finalità dei procedimenti cautelari speciali.

La EDINFORM ha chiesto il sequestro dell’opera e, dato che nel ricorso introduttivo è espressamente richiamata la legge n. 633/41, è evidente che si tratta dello speciale sequestro di cui all’art. 161 della legge. Inoltre nella memoria dell’11.4.95, la EDINFORM cita espressamente l’art. 161.

E’, pertanto, infondata l’eccezione della Regione secondo cui non sono state rispettate le norme del codice di rito sul sequestro giudiziario.

L’art. 162 della legge citata, quanto al sequestro, prevede la competenza del Pretore del luogo ove il provvedimento deve essere eseguito e, se vi sia lite pendente per il merito, la competenza spetta al Pretore od al G.I.

Nella presente controversia è decisivo stabilire se la competenza sia rimasta in ambito pretorile (non essendovi lite pendente), atteso che, in tal caso, il G.D. non avrebbe dovuto emettere il provvedimento impugnato, bensì declinare la propria competenza.

E’ pure chiaro che tale aspetto, oltre che investire profili di ripartizione di competenza, attiene soprattutto alla compatibilità tra le due discipline.

L’art. 162 l.d.a. è modellato, quanto alla competenza, sull’art. 701 c.p.. in tema di procedimento atipico d’urgenza (abrogato dall’art. 89 della legge n. 353 del 1990).

Ciò significa che il legislatore del 1941 ha riprodotto i criteri di competenza stabiliti, in tema di procedimento cautelare, dal c.p.c.

E’ vero che la legge n. 633 è del 1941, mentre il c.p.c. è entrato in vigore il 21 aprile 1942, ma è pur vero che detto codice è stato promulgato con R. D: 28.10.1940 n. 1443, prima dell’approvazione della legge n.6433/41.

Venuto meno l’art. 701 c.p.c., introdotto il procedimento cautelare uniforme e, segnatamente l’art. 669quaterdecies, occorre vedere se rimane ferma la competenza pretorile prevista dall’art. 162 l.d.a.

La giurisprudenza di merito si è già occupata della questione pervenendo a risultati non univoci.

Da un lato vi è chi ritiene, quanto al sequestro, compatibile la nuova disciplina (Pret. Verona 17.11.93; Trib. Verona 17.8.93; Trib. Bologna 5.4.93; Trib. Milano 21.6.93); dall’altro, chi sostiene il contrario ritenendo competente il Pretore (Trib. Milano 9.7.93; Pret. Verona17.12.93).

In verità, alcune delle pronunce che hanno ritenuto competente il Pretore si sono occupate della speciale procedura di descrizione, accertamento e perizia di cui all’art.161 e 162 l.d.a., procedura che è unanimamente assimilata al procedimento di istruzione preventiva, per la quale l’art. 669quaterdecies stabilisce l’applicabilità del solo art. 669septies.

Nel nostro caso, non è stata richiesta né la descrizione dell’opera, né la perizia della stessa, ma solo il sequestro.

Ritiene il Collegio di aderire (ed in tali sensi si è espressa la prevalente dottrina) alla tesi della "compatibilità", rientrando i sequestri speciali previsti dalla legge n. 633/41 nel novero dei procedimenti cautelari.

Invero detto sequestro presenta caratteri di specialità, quanto al rito previsto per la sua concessione ed esecuzione, ma non vi è dubbio che abbia natura cautelare.

La tesi che qui non si accoglie si basa, essenzialmente, su due argomenti.

Il primo è che la legge speciale di settore, n. 633/41, attribuisce la competenza "ante causam" al Pretore, indipendentemente dal valore della causa.

Si è già visto che tale aspetto risponde alla logica sottesa all’abrogato 701 c.p.c.; va aggiunto che l’art. 162, 2° comma l.d.a. prevede che, nei casi urgenti, anche se la causa di merito pende davanti a giudice diverso dal Pretore, questi può provvedere.

Tale schema ricalca quello di cui all’art. 704, 2° comma c.p.c., in tema di giudizio possessorio, secondo cui, il Pretore può dare i provvedimenti temporanei, anche se vi è lite pendente radicata presso altro giudice.

La novella, com’è noto, ha introdotto il principio secondo cui giudice competente per la fase cautelare è quello competente per il merito.

Conseguentemente è stato abrogato l’art. 701 c.p.c., ma non è stato abrogato l’art. 704, e ciò semplicemente perché il Pretore è sempre competente per il merito del procedimento possessorio.

In tema di diritto d’autore, invece, ai sensi dell’art. 163 della legge, la competenza per il giudizio di convalida è ripartita tra Tribunale e Pretore secondo le regole ordinarie.

L’opzione generale del legislatore di necessaria coincidenza tra giudice della cautela e giudice del merito non può, quindi, trovare deroga nel settore del diritto d’autore.

L’altro argomento a sostegno della "incompatibilità" si fonda sulla natura d’istruzione preventiva dei provvedimenti di descrizione, accertamento e perizia.

Se così è, si sostiene, nell’ipotesi assai frequente di richiesta di descrizione, accertamento e perizia, nonché di sequestro, contenuta in un unico ricorso, accogliendo, la tesi qui respinta, si avrebbe la seguente situazione;

  1. il provvedimento di accertamento, descrizione e perizia sarebbero attribuiti al Pretore del luogo di esecuzione delle misure, mentre il sequestro sarebbe disposto dal giudice individuato ai sensi dell’art. 669ter c.p.c.;
  2. a seguito del decreto che dispone la descrizione si dovrebbe iniziare il giudizio di merito entro otto giorni dall’esecuzione del provvedimento (art. 163 legge n. 633/41), mentre, per l’ordinanza che autorizza il sequestro, il giudizio di merito dovrebbe iniziare nel termine fissato dal G. D., ovvero nei trenta giorni dalla pronuncia.

In realtà tale situazione non è così particolare come si sostiene.

Sono, infatti, frequenti i casi in cui col ricorso si introducono domande cautelari per le quali, esaurita la fase urgente, il processo si scinde e le rispettive domande di merito vengono attribuite a giudici diversi.

Il giudizio di compatibilità, dunque, va effettuato non secondo parametri di opportunità, ma secondo criteri di scientificità.

...Omissis...

IL COMMENTO

di Maria Laura Spada

I provvedimenti in epigrafe affrontano il problema relativo all’ambito di applicazione del procedimento cautelare uniforme; in particolare, l’applicazione della nuova disciplina ai provvedimenti cautelari previsti dalle leggi speciali in quanto compatibili.

Al riguardo, l’art. 669quaterdecies c.p.c. stabilisce che la disciplina relativa al procedimento cautelare si applica ai provvedimenti di sequestro, ai provvedimenti in tema di denuncia di nuova opera e danno temuto, ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. "nonché, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali".

Con riferimento, invece, ai provvedimenti di istruzione preventiva, la norma esclude l’applicabilità della disciplina prevista per i provvedimenti cautelari con la sola eccezione costituita dall’applicabilità della disposizione di cui all’art. 669septies c.p.c. in tema di provvedimento negativo e di conseguente condanna alle spese.

Cosicché, l’applicazione del rito uniforme alle misure c.d. extravaganti viene fatta dipendere da un duplice accertamento:

a) che la misura richiesta abbia natura cautelare

b) che sussista il requisito della "compatibilità".

Nel caso di specie, la questione si pone in ordine sia al provvedimento di descrizione in materia di brevetti per invenzioni industriali previsto dall’art. 81 del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127 modificato dall’art. 24 del d. lgs. 15 marzo 1996 n. 198, sia con riguardo al provvedimento di sequestro in tema di diritti di autore regolato dall’art. 161 della l. 22 aprile 1941 n. 633 e modificato dall’art. 3 del d. lgs. 15 marzo 1996 n. 205.

In particolare, la tutela cautelare speciale in tema di invenzioni industriali, nonché in tema di marchi, si esplica attraverso le misure della "descrizione", del "sequestro", dell’"inibitoria" in corso di causa ed è rispettivamente prevista dagli art. 81, 82 e 83 del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127 dall’art. 83 bis introdotto dal d.p.r. 22 giugno 1979 n. 338, tutti modificati con d.lgs. del 19 marzo 1996 n. 198 e dagli art. 61 e 63 del r.d. 21 giugno 1942 n. 929, anch’essi modificati con d. lgs. 19 marzo 1996 n. 198.

Ai sensi dell’art. 81, 1° comma l. sui brevetti: "il titolare dei diritti di brevetto per invenzione industriale può chiedere che sia disposta la descrizione o il sequestro di alcuni o di tutti gli oggetti prodotti in violazione di tali diritti, nonché dei mezzi adibiti alla produzione dei medesimi e degli elementi di prova concernenti la denunciata violazione". L’art. 82, 1° e 4° comma, dispone, inoltre che: "salvo quanto disposto dai commi successivi, i procedimenti di cui all’art. 81 sono disciplinati dalle norme del codice di procedura civile concernenti i provvedimenti cautelari rispettivamente di istruzione preventiva e di sequestro. (...) Alla descrizione non si applicano i commi 2 e 3 di cui all’art. 693 del codice di procedura civile. Ai fini dell’art. 697 del codice di procedura civile, il carattere dell’eccezionale urgenza deve valutarsi alla stregua dell’esigenza di non pregiudicare l’attuazione del provvedimento. Si applica anche alla descrizione il disposto di cui all’art. 669octies, 669novies, 669undecies e 675 del codice di procedura civile. (...)"

Per quanto concerne il sequestro e l’inibitoria, previsti rispettivamente dagli art. 81 e 83 del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127 è pacifico che entrambi i provvedimenti hanno natura cautelare in senso stretto, con conseguente operatività per gli stessi delle nuove norme processuali introdotte dalla l. 26 novembre 1990 n. 353, ora anche per espressa previsione degli art. 24 e 26 del d.lgs. 19 marzo 1996 n. 198 che, come già evidenziato modificano la legge sui brevetti .

Con riferimento al provvedimento di descrizione, invece, in seguito alla legge 26 novembre 1990 n. 353 (che introduceva la disciplina del procedimento cautelare uniforme) e prima dell’attuale modifica apportata, come già indicato, agli art. 81 e 82 l. sui brevetti, si discuteva sulla sua esatta collocazione sistematica. Ossia se esso costituiva un provvedimento riconducibile in linea di principio all’accertamento tecnico preventivo, oppure a una misura cautelare che si colloca in una posizione intermedia fra i procedimenti di istruzione preventiva ed il sequestro giudiziario.

E’ noto infatti, che il provvedimento di descrizione consente di acquisire la prova, in un momento anche anteriore all’instaurazione del giudizio di merito, sulla lamentata violazione del diritto brevettuale. Consiste infatti, in un procedimento che tende a recepire, per il tramite di un pubblico ufficiale, la descrizione dell’oggetto che si pretende ledere il proprio diritto di brevetto.

Per questo motivo, l’opinione prevalente assimila il provvedimento di descrizione a quelli di istruzione preventiva, sul presupposto che entrambi sarebbero posti a tutela del diritto processuale alla prova piuttosto che a cautela di un diritto sostanziale per assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale.

La classificazione del provvedimento nell’una piuttosto che nell’altra categoria, ha rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 669 quaterdecies c.p.c.

E’ evidente che facendosi rientrare la descrizione nel genus delle misure di istruzione preventiva, ad essa si applicherebbe direttamente soltanto la disciplina dell’art. 669 septies c.p.c. relativa al "provvedimento negativo"; viceversa, ove si ritiene che la descrizione del diritto industriale abbia caratteristiche tali da rientrare nel novero dei provvedimenti cautelari in senso stretto, si potrebbe procedere alla valutazione di "compatibilità" richiesta dall’art. 669 quaterdecies c.p.c., e qualora questa sussista all’applicazione del procedimento cautelare uniforme.

Quest’ultima soluzione sembra sia stata presa in considerazione dal legislatore con il d. lgs. 19 marzo 1996 n. 198. Egli considera la descrizione un provvedimento di natura "mista", in quanto rivolto sia alla ricerca della prova, sia a finalità cautelari ed in tal senso dispone che la misura della descrizione debba essere regolata in parte con le norme proprie del procedimento di istruzione preventiva e in parte con alcune delle norme previste dal procedimento cautelare uniforme. In particolare la natura cautelare è resa manifesta dalla previsione, in caso di accoglimento del provvedimento, della necessaria instaurazione del giudizio di merito a pena di inefficacia del provvedimento cautelare.

A favore di quest’ultima tesi, ossia per l’operatività anche con riferimento alla misura della descrizione della nuova disciplina cautelare, si è espressa una parte della dottrina .

Si contrappone a questo orientamento dottrinale, l’opinione secondo cui il nuovo procedimento cautelare uniforme non si applica alla descrizione del diritto industriale. Tale conclusione si fonda sull’idea che la misura della descrizione vada ricondotta alla più specifica categoria dei provvedimenti di istruzione preventiva, con la conseguenza che ad essa è applicabile la sola disciplina prevista dall’art. 669 septies.

Quest’ultima opzione, ossia della più lata applicazione del rito cautelare uniforme alla misura della descrizione, emerge anche con riferimento ai provvedimenti di "descrizione", "accertamento" e "perizia" previsti dall’art. 161 l. 22 aprile 1941 n. 633.

Diversamente dalla misura della descrizione, i sequestri previsti dalla legge sui brevetti, dalla legge sul diritto d’autore, nonché dalla legge in materia di marchi, sono predeterminati ad una peculiare tutela, in quanto presuppongono in chi li richiede la titolarità di diritti esclusivi sanciti dalle rispettive leggi, cui fa riscontro per tutti gli altri soggetti il divieto di utilizzare l’invenzione, il modello, il marchio o l’opera dell’ingegno.

In particolare tali provvedimenti hanno "natura composita, in quanto da un lato determinano la indisponibilità provvisoria degli oggetti colpiti, dall’altro i provvedimenti in esame tendono anche o soltanto ad assicurare la conservazione del bene nel quale si materializza l’oggetto della esclusiva che si ritiene violata".

Quanto alla struttura dei provvedimenti in esame, va rilevata la presenza della sommarietà poiché la pronuncia si fonda sul giudizio della probabile validità del titolo che conferisce l’esclusiva e sulla probabile esistenza della violazione.

I provvedimenti hanno inoltre il carattere della strumentalità rispetto alla pronuncia di cognizione piena essendo subordinati all’instaurazione del giudizio di merito entro un termine rigoroso pena la perdita di efficacia.

Le misure in questione non mancano, infine anche del carattere della provvisorietà, in quanto oltre a non definire il rapporto sostanziale di cui si discute, esse perdono di efficacia non solo nel caso di mancata instaurazione del giudizio di merito, ma anche quando il giudizio di merito si pronuncia sull’inesistenza sostanziale del diritto esclusivo o del fatto di una violazione.

Proprio sulla base di tali considerazioni, sia la dottrina che la giurisprudenza attribuiscono al sequestro previsto dall’art. 161 della legge sul diritto d’autore natura di provvedimento strettamente cautelare, con conseguente applicabilità degli art. 669 bis e ss.

 

8) Il processo cautelare

Torna all'indice

8.3) INAPPLICABILITA’ DELL’ART. 669 QUINQUIES C.P.C. IN IPOTESI DI CLAUSOLA COMPROMISSORIA PER ARBITRATO IRRITUALE

Tribunale di Bari, IV sez., 22 gennaio 1996, ord. - Pres. Petrizzelli, Rel. Magaletti - S.a.c.a.l.b. Soc. Coop. s.r.l. c. Carlucci

 

La tutela cautelare è inammissibile in presenza di clausola compromissoria per arbitrato irrituale

 

...Omissis...

Il reclamo proposto dalla cooperativa sopraddetta è fondato e meritevole di accoglimento. Devesi in primo luogo rilevare l’infondatezza dell’eccezione di nullità del reclamo per omessa indicazione della parte reclamante e del provvedimento impugnato atteso che l’uno e l’altro elemento sono facilmente individuabili dall’esame del contenuto del reclamo, proposto peraltro dal difensore della Cooperativa, così come confermato dalla circostanza che il Carlucci ha svolto le proprie difese anche nel merito accettando di conseguenza il contraddittorio. Passando all’eccezione di inammissibilità dell’azione cautelare proposta ritiene il Collegio che la stessa sia fondata sotto un duplice profilo. Devesi in primo luogo rilevare che l’art. 45 dello statuto contiene una clausola compromissoria per arbitrato irrituale che demanda al Collegio dei Probiviri, eletto dall’assemblea, il potere di decisione delle controversie insorte tra soci o tra socio e società relative a deliberazioni dell’assemblea o del C. di A. in materia di recesso, decadenza, esclusione, e di tutte le altre relative alla interpretazione delle disposizioni statuarie o dei regolamenti. In virtù della clausola compromissoria sopradetta deve ritenersi il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a conoscere del merito della controversia insorta tra le odierne parti a nulla rilevando che il Collegio dei Probiviri non sia stato ancora nominato ben potendo il Collegio essere costituito a seguito dell’impugnazione proposta dal socio. Ne consegue che l’inammissibilità dell’azione cautelare in esame atteso che secondo l’orientamento dominante in dottrina e giurisprudenza l’art. 669 quinques c.p.c. non è applicabile in presenza di una clausola compromissoria per arbitrato libero.

 

...Omissis...

IL COMMENTO

di Maria Laura Spada

Nel senso che la stipulazione di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale determina il difetto del potere del giudice di statuire sulla domanda, anche in via cautelare, con conseguente improponibilità della relativa istanza cfr.:

- con riferimento alla normativa degli art. 669 bis ss. c.p.c.; Trib. Vercelli, 20 agosto 1996, Foro it., 1996, I, 3198; Trib. Roma, 17 novembre 1995, id., 1996, I, 2257; Trib. Torino 4 dicembre 1995, in Riv. arbitrato, 1995, 709; Trib. Verona, 18 ottobre 1993, in Giur. it., 1994, I, 2, 177 con nota critica di Cavallini; Trib. Milano, 29 settembre 1993, Foro it., Rep. 1994, voce Procedimenti cautelari, n. 68, per esteso in Nuova giur. civ., 1994, I, 720 con nota adesiva di Saletti;

- con riferimento alla disciplina previgente all’entrata in vigore della l. 26 novembre 1990 n. 353; Cass. 6 novembre 1984, n. 50601, in Giur. it., Rep. 1984, voce Competenza e giurisdizione civile, n. 255; Cass. 29 ottobre 1982, n. 5656, ivi, 1982, voce Arbitrato, n. 61; Trib. Treviso, 7 dicembre 1964, in Giur. it., 1966, I, 1, 25; Pret. Bari, 14 gennaio 1991, in Foro it., 1991, I, 2937; Pret. Matera, 25 gennaio 1989, in Nuovo dir., 1989, 905; Pret. Molfetta, 20 gennaio 1989, in Foro it., 1989, I, 558; Pret. Montesarchio, 11 gennaio 1989, in Giur. merito, 1991, 1091; Pret. Taranto, 25 settembre 1986, in Foro it., 1986, I, 2924; Pret. Roma, 29 ottobre 1984, in Foro pad., 1984, I, 475.

Contra, nel senso che, pur in presenza di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, il giudice ordinario può emettere provvedimenti cautelari v., Trib. Napoli, 24 gennaio 1989, in Giur. comm., 1989, II, 592; Trib. Bergamo, 25 ottobre 1979, in Giust. civ., 1980, I, 223; Pret. Pescara, 9 novembre 1990, ivi, 1991, I, 2207; Pret. Salò, 17 luglio 1980, in Giur. it., 1981, I, 2, 366; Pret. Roma, 20 aprile 1979, in Temi ROM., 1981, 310.

Anche con riferimento agli art 669 bis ss. c.p.c., si sono espressi, nel senso del provvedimento in rassegna: Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 236; Carpi, Il procedimento nell’arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 396; Cirrulli, Arbitrato irrituale e provvedimenti d’urgenza, in Giust. civ. 1991, I, 2210; Saletti, Appunti sulla nuova disciplina delle misure cautelari, in Riv. dir. proc., 1991, 365; Guarnieri, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, Commentario a cura di Tarzia e Cipriani, Padova, 1992, 308; Oberto, Il nuovo processo cautelare, Milano, 1992, 10; Lapertosa, In tema di competenza e procedimento cautelare, in Riv. dir. proc., 1995, 425; Caputo, La nuova normativa sul processo cautelare, Padova, 1996, 409.

Contra, Arieta, Note in tema di rapporti tra arbitrato rituale ed irrituale e tutela cautelare, in Riv. dir. proc., 1993, 755; Consolo (Consolo-Luiso-Sassani), La riforma del processo civile, Milano, 1991, 460; La China, Diritto processuale civile : la novella del 1990, Milano, 1991, 88.

Sulla nuova disciplina introdotta dalla l. 5 gennaio 1994 n. 25 v., Punzi, I principi generali della nuova normativa sull’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1994, 331; Ricci, L’"efficacia vincolante"del lodo arbitrale dopo la L. 25 del 1994, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 809; Montesano, Sugli effetti del nuovo lodo arbitrale, id., 1994, 631; La China, L’arbitrato, Milano, 1995.

 

  1. Applicazioni dell’art. 700 c.p.c.
  2. Torna all'indice

    9.1) ORDINE DI ESIBIZIONE DI DOCUMENTAZIONE BANCARIA

    Tribunale di Trani, sez., 26 aprile 1996, ord. - G.I. Pica - Fallimento Damiano e Sabino c. Banca Popolare Andriese

     

    E’ tutelabile in via d’urgenza extra. 700 c.p.c., il diritto del curatore fallimentare ad ottenere dalla banca copia degli estratti conto e dei contratti di conto corrente relativi ai rapporti intrattenuti con l’istituto di credito dall’impresa fallita

     

    ...Omissis...

    Sul piano sostanziale, la banca ha eccepito, sia pure genericamente, da un lato l’insussistenza di un diritto ad ottenere la documentazione completa dei rapporti intercorsi tra banca e fallito negli ultimi due anni, e dall’altro di avere adempiuto agli obblighi di documentazione che le competevano.

    Sul piano processuale ha eccepito l’insussistenza dei presupposti per l’esperimento della procedura d’urgenza.

    ritiene il giudicante che le eccezioni dell’istituto di credito siano infondate, per i motivi che seguono.

    Per quanto concerne i poteri del curatore fallimentare, e l’interpretazione degli artt. 30 e 31 l. fall., non può esservi dubbio che il curatore fallimentare non sia un mero sostituto del fallito, pur essendo investito della legge dell’esercizio dei poteri che spettavano al fallito, al fine dell’amministrazione del di lui patrimonio, ma riveste ed esercita un "ufficio pubblico", al punto che è dalla legge stessa qualificato pubblico ufficiale "per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni" (art. 30 l. fall.).

    Egli quindi esercita i poteri che la legge gli attribuisce, in proprio, e nella duplice veste di sostituto ex lege del fallito nell’esercizio di diritti e poteri originariamente suoi propri, e di diretto titolare di diritti e poteri inerenti all’ufficio di cui è investito, tra cui la titolarità dell’esercizio dell’azione revocatoria, nonché di obblighi, come quello, ex art. 33 l. fall. di relazionare dettagliatamente al giudice delegato sulla situazione patrimoniale del fallito.

    Tuttavia, la duplice veste del curatore fallimentare non significa che egli, nel caso in esame, agisca con esercizio di poteri di supremazia.

    La prova che non si è di fronte ad alcuno esercizio di potere di supremazia è data proprio dal fatto che il curatore ha adito l’Autorità giudiziaria, al pari di qualsiasi soggetto privato, per il riconoscimento e la tutela del suo diritto.

    Fra i diritti del fallito, che il curatore si trova ad esercitare nell’esercizio delle sue funzioni, vi è anche quello di accedere alla documentazione relativa ai rapporti bancari intrattenuti dal fallito medesimo.

    Tale diritto trova la propria fonte positiva negli artt. 1856 e 1713 c.c.

    Il primo stabilisce che la banca risponde secondo le regole del mandato per l’esecuzione di incarichi ricevuti dal correntista o da altri clienti, e quindi richiama l’art. 1713 c.c., il cui primo comma prevede l’obbligo generale di rendiconto del mandatario, ed il secondo comma fissa il principio, di ordine pubblico, che "la dispensa preventiva dall’obbligo di rendiconto non ha effetto nei casi in cui il mandatario deve rispondere per dolo o colpa grave".

    Tale disposizione trova il suo fondamento in principi più generali, relativi agli obblighi di correttezza e buona fede, ma soprattutto discende dal fondamentale ed inderogabile principio di cui all’art. 1229 c.c., secondo il quale non sono ammissibili, e sono nulli, i patti che escludano (o anche limitano ) preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave, come pure i patti che esonerino la responsabilità del debitore o dei suoi ausiliari, per violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico.

    Che il principio di cui all’art. 1229 c.c. costituisca un principio inderogabile di ordine generale, è confermato altresì dal fatto che esso è espressamente riaffermato in tutti i casi in cui si possono profilare ipotesi di esclusione o riduzione convenzionale di responsabilità.

    L’obbligo di rendiconto si estrinseca appunto nel porre a disposizione del mandante ogni documento inerente alle attività svolte dal mandatario, onde consentirgli di valutare se questi abbia agito nei limiti del mandato ed in conformità dei patti e delle norme di legge.

    Non può in alcun modo escludersi tale obbligo del mandatario, neppure adducendo che ne potrebbero derivare azioni giudiziarie nei confronti del mandatario, poiché l’obbligo del rendiconto è indipendente ed autonomo da qualsiasi altro diritto che il mandante voglia far valere.

    Né può ritenersi che tale obbligo generale di rendiconto sia derogato o eliminato dalle disposizioni della normativa in materia bancaria e finanziaria, dettate in materia di estratti -conto, sia perché altra è la funzione di tale normativa, e sia perché una siffatta deroga, che non potrebbe mai ritenersi introdotta surrettiziamente, per via implicita ed indiretta, anche qualora affermata espressamente dalla legge porrebbe seri problemi di legittimità e di compatibilità con i principi generali dell’ordinamento.

    In questo ordine di idee, del resto, si pone l’affermazione costante in giurisprudenza secondo cui è irrilevante l’avvenuta approvazione dell’estratto conto, allorché viene posta in dubbio la validità dei fatti giuridici da cui discendono le poste in esso indicate (cfr. in tal senso, da ultimo, Cass. n.452/1984, n.2095/1980, n. 1456/1975).

    Per quanto concerne il disposto dell’art. 119, comma 4°, del T. U. 385/1993 in materia bancaria e finanziaria, che ha sostituito l’art. 8 della legge 154/1992, è vero che tali norme dispongono che " il cliente ha diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni"

    (così l’art. 119, comma 4, testo unico 385/1993) e, prima di esso, analogamente l’art. 8 L. 154/1992 che "il cliente ha diritto di ottenere, entro un congruo termine, e comunque non oltre sessanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere a partire dal quinto anno precedente nell’ambito di rapporti di deposito o conto corrente, con facoltà per gli enti e i soggetti di cui all’art. 1 di ottenere il rimborso delle spese effettivamente sostenute" (così l’art. 8, quarto comma, L. 154/1992, formalmente abrogato ma lasciato espressamente in vigore sino all’emanazione di non meglio specificati provvedimenti attuativi del testo unico 353/1993, ex art. 161, c. 2, TU cit.).

    Tuttavia non può sfuggire che entrambe tali norme, per la loro collocazione sistematica (v. il titolo della L. 154/1992 ed il timolo IV entro cui è allocato l’art. 119 nel TU 385/1993) hanno la funzione di assicurare il minimo sufficiente di trasparenza delle condizioni contrattuali tra clientela e banche.

    Così entrambe sono intitolate "comunicazioni periodiche alla clientela", e regolano dunque gli obblighi ordinari di comunicazione e documentazione da parte "dei soggetti indicati nell’art. 115" del testo unico e cioè delle banche e degli intermediari finanziari, nei contratti di durata, al cliente.

    Come si deduce dalla loro ratio, tali norme non possono avere la funzione di modificare, in danno del cliente, i principi generali in materia di rendiconto e di responsabilità applicabili anche ai contratti bancari, ed in particolare al contratto di deposito in conto corrente, che trova specifica ed articolata disciplina del codice civile.

    Se quindi tali disposizioni fissano il diritto ("minimo") del cliente di ottenere, ad mutua, "copia della documentazione" inerente a singole operazioni, fissando un termine per l’adempimento della baca o intermediario finanziari, regolando altresì l’attribuzione delle spese, non può però dedursi da tali norme che a contrario la legge avrebbe escluso ogni altro obbligo di documentazione a carico delle banche, poiché restano in vigore i principi generali citati, che non risultano contraddetti ne tanto meno abrogati dalle norme esaminante.

    In conclusione, non può aderirsi alla tesi secondo cui nella normativa vigente si potrebbe dedurre il diritto della banca di rifiutare l’esibizione di ogni documentazione inerente ai rapporti intrattenuti con il fallito, perché ciò equivarrebbe ad impedire una verifica sull’operato della banca, tanto più necessaria ed imprescindibile allorquando si ponga il dubbio sul rispetto di principi di diritto e di correttezza da parte della stessa.

    E’ quindi priva di pregio l’obiezione conseguente, secondo cui la banca non può essere obbligata ad esibire la documentazione finalizzata all’accertamento delle condizioni per la proposizione di eventuali azioni revocatorie contro se stessa, perché , alla luce dei principi generali predetti, la banca mandataria non può occultare le proprie responsabilità rifiutandosi di rendere conto della gestione, e perché, come si è già chiarito, poiché l’obbligo di rendiconto è indipendente ed autonomo, che prescinde da qualsiasi altro diritto che il mandante voglia far valere, dopo aver avuto cognizione dell’attività svolta dal mandatario.

    Ciò chiarito sul piano sostanziale, vanno esaminate le obiezioni processuali all’esperibilità della procedura di cui all’art. 700 c.p.c.

    Come è noto, presupposti indispensabili, ex lege, per l’esperibilità del procedimento ex art. 700 c.p.c. sono:

    a) l’esistenza di un diritto da far valere in via ordinaria, diritto che deve essere tra l’altro specificato nel ricorso;

    b) il timore fondato di un pregiudizio grave ed irreparabile per il diritto medesimo, durante il tempo necessario per adire la giustizia in via ordinaria;

    c) la inesistenza di altra azione tipica prevista dall’ordinamento con funzione egualmente cautelare;

    Non può ravvisarsi nel caso in esame l’inesistenza di un diritto a tutela del quale esperire il procedimento ex art. 700, per assicurarne provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito, poiché il curatore fallimentare è titolare di più di un diritto a cui la domanda ex art. 700 in esame può essere cautelarmente finalizzata.

    E’ tale infatti il diritto di agire in revocatoria per recuperare i beni illegittimamente sottratti all’attivo fallimentare.

    Ma ancor prima del diritto di agire in revocatoria, ben si colloca anche il diritto, pieno e tutelato dalla legge, di conoscere l’esatta situazione patrimoniale del fallito.

    Tale diritto ben legittimerebbe una azione di accertamento, e ben potrebbe, quindi, fondare un ricorso in via cautelare ove il ritardo nella sua soddisfazione rendesse impossibile la verifica di lesioni della sfera patrimoniale dell’interessato e l’esercizio delle corrispondenti azioni di tutela.

    Non si tratta, quindi, di una tutela d’urgenza invocata a supporto di un’azione futura ed eventuale (quella revocatoria), in relazione alla quale senz’altro lo strumento cautelare in esame sarebbe inammissibile, difettando l’attualità dell’interesse e del pregiudizio nel ritardo, ma si tratta di una tutela invocata a salvaguardia di un diritto attuale, cioè il diritto di conoscere e verificare la situazione patrimoniale del fallito, che compete pienamente al curatore fallimentare.

    Quanto al requisito dell’urgenza, che sussiste in astratto in virtù dei termini di legge per l’esperimento delle incombenze della curatela e dell’eventuale revocatoria, esso è oggi in concreto altresì ravvisabile in re ipsa, in virtù della persistente inerzia della banca convenuta, che a fronte delle legittime richieste della curatela fallimentare di prendere visione ed ottenere copia di tale documentazione, avanzate già da tempo, ha disatteso tali richieste, limitando ad un periodo esiguo ed insufficiente la comunicazione degli estratti conto, ed omettendo le altre informazioni, esponendo la curatela, con i propri i ritardi ed omissioni al rischio del decorso del termine per l’eventuale esercizio di azioni revocatorie, e ostacolando il regolare svolgimento della procedura fallimentare.

    Resta da esaminare la sussistenza del terzo requisito, necessario per la esperibilità della procedura ex art. 700 c.p.c., e cioè la inesistenza altra azione tipica.

    Con riferimento ai provvedimenti di cui si chiede l’adozione, l’unica azione tipica che si profila come astrattamente idonea in alternativa all’esperito art. 700 c.p.c. è il ricorso per sequestro giudiziario di cui all’art. 670, n.2, c.p.c.

    Tuttavia, non sembra che lo strumento dell’art. 670 c.p.c. possa costituire una misura cautelare generale tale da escludere automaticamente l’esperibilità dell’art. 700 c.p.c.

    La funzione dell’art. 670 n. 2, c.p.c., è quindi quella di assicurare al futuro giudizio, o al giudizio in corso, la conservazione di già individuati mezzi di prova, documentali, o consistenti in oggetti vari, dei quali è allo stato controversa la utilizzabilità processuale, ovvero l’obbligo o il diritto alla produzione nel processo.

    Tanto è vero che la giurisprudenza ritiene che per l’autorizzazione al sequestro ex art. 670, è necessario che ricorrano gli estremi perché possa essere domandata l’esibizione ex art. 210 c.p.c.

    Benché si tratti di ipotesi affini al caso in esame, i casi di cui all’art. 670 n.2 c.p.c. non appaiono coincidenti con l’oggetto del procedimento ex art. 700 c.p.c. in esame, in quanto:

    a) in primo luogo, l’art. 700 è finalizzato al riconoscimento di un immediato diritto, quello alla conoscenza ed alla ricezione in copia della documentazione bancaria de qua,

    b) nel presente procedimento si chiede di ordinare l’esibizione di un complesso di documenti ed atti, e non di singoli e specifici documenti;

    c) è del tutto ipotetica la loro utilizzabilità in un futuro giudizio, conseguendo alla valutazione, ancora da farsi, sulle loro risultanze oltreché sulla fondatezza di una eventuale azione revocatoria;

    d) non occorre assicurare la custodia di tali documenti, ma occorre assicurarne il diritto di visione, potendo soltanto eventualmente subentrare una successiva esigenza di custodia.

    Esclusa la utilizzabilità per il caso in esame dello strumento di cui agli artt. 669 bis e ss. e 670 c.p.c., deve allora ritenersi pienamente esperibile la procedura ex art. 700, sussistendone i presupposti di diritto sostanziale e processuale.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Maria Laura Spada

    Non constano precedenti editi in termini.

    Sulla possibilità in generale di esperire un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. al fine di ottenere dall’istituto di credito la esibizione della documentazione relativa alle operazioni effettuate dal titolare del conto corrente v., Trib. Roma, 21 gennaio, Foro it., 1989, I, 3256.

    Nello stesso senso del provvedimento in rassegna, ma a conclusione di un giudizio ordinario di cognizione diretto all’accertamento, vuoi in capo al semplice cliente, vuoi in capo al curatore del fallimento, nella sua posizione di sostituto del debitore, il diritto di pretendere dalla banca l’esibizione dei documenti concernenti i rapporti negoziali intrattenuti dall’imprenditore v., Trib. Milano, 21 giugno 1996, Trib. Milano, 2 maggio 1996 e Trib. Venezia, 2 aprile 1996, Foro it., 1996, I, 3200, con nota di FABIANI; Trib. Rimini, 24 ottobre 1995, in Fallimento, 1996, 491 con osservazioni di CHIOZZI; Trib. Verona, 20 ottobre 1988, id., Rep. 1989, voce Fallimento, n. 298 e in Giust. civ., 1989, I, 435 con nota di LO CASCIO nonché in Fallimento 1989, 834 con nota di MASSARO; Trib. Verona, 26 aprile 1988, in Giur. it., 1988, I, 2, 557 con nota di DI CHIO; Trib. Verona, 23 marzo 1988, Foro it., Rep. 1988, voce, Fallimento, n. 287 e in Nuova giur. civ., 1988, I, 527 con nota di Reali; Trib. Verona, 16 luglio 1987, Foro it., 1988, I, 1334.

    In dottrina, nello stesso senso v., D’ANGELO, L’ordine di esibizione degli estratti conto, il "diritto alla documentazione" del curatore fallimentare e sua azionabilità, in Giur. comm., 1995, II, 496; REALI, Conto corrente- Esibizione da parte della banca di copia integrale degli assegni, in Nuova giur. civ., 1988, I, 530; CANTELE, Il curatore ha diritto all’esibizione degli assegni del fallito? Nuovo conflitto tra banca e fallimento, in Fallimento, 1988, 1013; BATTAGLIA, Conto corrente di corrispondenza e diritto del correntista alla visione integrale degli assegni emessi, in Giust. civ., 1989, I, 720; BRUNO, Diritto di informazione del correntista nei confronti della banca, in Giur. it. 1989, I, 2, 409; LO CASCIO, La complessa figura giuridica del curatore e i suoi poteri nei confronti dei terzi: un’anomala ipotesi di ordine di esibizione alla parte o al terzo, in Giust. civ., 1989, I, 435.

    Contra, App. Venezia, 4 ottobre 1991, in Bancaria, 1991, 63 con nota di BERTUCELLI, Poteri di indagine della curatela fallimentare e segreto bancario.

     

     

    9) Applicazioni dell’art. 700 c.p.c.

    Torna all'indice

    9.2) GARANZIA BANCARIA A PRIMA RICHIESTA

    Tribunale di Bari, sez. II, decr. 29 maggio 1996; Giud. Cassano; Dioguardi s.p.a. c. Banca Commerciale Italiana s.p.a. e Monte dei Paschi di Siena.

     

    Va accolta l’istanza di concessione di provvedimento cautelare d’urgenza avanzata dal debitore principale, al fine di ottenere nei confronti del garante inibitoria di pagamento in relazione ad un contratto autonomo di garanzia a prima richiesta (nella specie performance bond), in presenza della frode del beneficiario (1).

     

    La ricorrente, quale aggiudicataria in forza di contratti stipulati il 31.3.1994 ed il 6.4.1995, della funzione di imprenditrice generale della OPT Wohaungsbangasellschaft mbh i.G., avente sede in Teltow (Berlino), per la costruzione chiavi in mano di n. 11 palazzine per civile abitazione, del complessivo ammontare di DM 44.956.000, espone che la committente OPT in sede di stipulazione chiese ed ottenne performance bond a primo rischio, con percentuali varianti dal 3 % al 14 % dell’importo contrattuale, da svincolarsi alle scadenze del collaudo del cemento armato e del collaudo definitivo di ciascuna palazzina.

    Espone quindi che, dato corso alle opere, per vero con taluni lievi ritardi nell’esecuzione e con talune lievi irregolarità imputabili alle difformità di prescrizioni in materia edilizia rispetto alla legislazione italiana ed alla diversità di tradizioni costruttive, la committenza aveva assunto un atteggiamento vessatorio ed aveva cercato "con ogni mezzo di rendere difficile la sopravvivenza stessa dei cantieri, rilevando difformità, specie in sede di collaudo, il più delle volte pretestuose", pur nell’ambito di pattuizioni negoziali che comunque la garantivano, sia mercé la percezione diretta di canoni di locazione relativi agli appartamenti già finiti ed abitati, sia mercé la previsione di clausole penali d’importo pari a tre volte il costo necessario al rifacimento delle opere contestate.

    Era quindi accaduto che per futili motivi, ed in assoluta evidente malafede, la committenza, approssimandosi la fine delle opere, aveva addirittura sospeso il pagamento degli S.A.L. minacciando di escutere le fideiussioni a primo rischio, che invece avrebbero dovuto esserle restituite già con il collaudo del cemento armato o delle palazzine.

    In particolare, pur nell’avvenuto collaudo di talune palazzine ed in quello prossimo di tutte le altre, la committenza tedesca, alla richiesta di svincolo della garanzia relativa alle palazzine abitate ed a quelle collaudate quanto al c.a., aveva opposto rifiuto motivato con la necessità di accertare previamente l’assenza di difetti nella esecuzione delle opere. E ciò, pur in presenza delle apposite garanzie per la buona esecuzione delle opere, pari al 5% ed al 4% del valore contrattuale, restituibili a 120 mesi dal collaudo, nonché di tutte le altre ritenute di garanzia su ogni singolo edificio.

    Ciò aveva cagionato una esposizione di essa deducente di complessivi DM 23.524.042 (di cui DM 12.631.939 per crediti maturati e DM 10.892.103 per fidejussioni) che, in uno con il pericolo di inopinate escussioni delle garanzie, rischiava di compromettere in modo definitivo la sopravvivenza sua propria.

    Tanto premesso, instava acché, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., fosse ordinato - con decreto - alla Banca Commerciale S.p.A. ed al Monte dei Paschi di Siena S.p.A., che avevano prestato la garanzia, di non procedere al pagamento - in favore delle rispettive filiali tedesche - di eventuali somme da queste ultime corrisposte alla OPT Wohaungsbangasellschaft in relazione a sue richieste svolte a titolo di pagamento delle garanzie fideiussorie, con il conseguente addebito ad essa istante; nonché di inibire l’esercizio delle azioni di regresso nel caso di pagamenti già effettuati; ciò in via temporanea, e sino all’esito del giudizio di merito, di competenza del Tribunale di Heideberg.

    L’istanza cautelare, nei limiti della cognitio consentita in questa sede, appare fondata e da accogliere.

    I contratti stipulati il 31.3.1994 ed il 6.4.1995 tra l’impresa Dioguardi S.p.A. e la OPT Wohaungsbangasellschaft contemplavano, al pgf. 4.4, l’obbligazione dell’appaltatrice di consegnare fidejussioni bancarie senza termine, senza beneficio d’escussione, ed a prima richiesta scritta, di una banca o di un’assicurazione tedesca, fidejussioni che sarebbero state restituite in parte in corrispondenza del positivo collaudo della struttura grezza di un blocco di appartamenti, in parte in occasione del positivo collaudo finale.

    Facendo seguito alle richieste della Comit e del Montepaschi Siena, la Banca Commerciale Niederlassung Frankfurt am Main ed il Monte dei Paschi di Siena Niederlassung Frankfurt am Main assunsero effettivamente la garanzia dell’adempimento regolare del contratto d’appalto, a semplice richiesta scritta e senza necessità di ulteriore documentazione.

    Tanto fecero quegli Istituti, a seguito di delega resa dalle banche italiane, che fornirono pure la provvista.

    Consta documentalmente che, con lettere del 3.4.1996 (prot. 113 e 13/GH/R), la Dioguardi S.p.A. ebbe a richiedere lo svincolo delle polizze fideiussorie per complessivi DM 1.140.000, sul presupposto dell’avvenuto collaudo, o del cemento ovvero delle palazzine.

    In risposta, la committente, pur non contestando la verificazione dei presupposti addotti dalla Dioguardi S.p.A., rifiutò la restituzione, rappresentando che "una restituzione anticipata di queste fideiussioni aumenterebbe il nostro rischio. Nel caso dobbiamo incaricare altre imprese per finire i lavori mancherebbero i mezzi finanziari per coprire le spese per questi provvedimenti" (vd. lettera del 23.4.1996).

    La committenza, in altra lettera sempre del 23.4.1996, lamentava ulteriori inadempimenti, in larga parte relativi a palazzine affatto diverse da quelle per le quali era stata richiesta la restituzione delle garanzie (giacché, almeno in apparenza, tra le palazzine per le quali era stata richiesta la restituzione, la sola palazzina G era in contestazione). In particolare, la doglianza (che, afferendo ad un ritardo nella consegna di soli quattro giorni, dal 18 al 23 aprile, appariva per vero pretestuosa) si concludeva con l’avvertenza per cui "anche questo fatto ci dà motivo di farvi notare un’altra volta che non ci sentiamo di restituire le garanzie prima che gli edifici non siano completati collaudati e consegnati puntualmente e senza difetti".

    Il tutto, s’inseriva nel contesto di generalizzato disagio in cui le imprese italiane hanno dovuto operare in Germania, disagio ben illustrato dagli articoli di stampa depositati in atti, dai quali traspare la sostanziale accusa di "atteggiamenti protezionistici" rivolta dall’ANCE allo stesso ministro tedesco delle costruzioni, in un momento che vede il settore edilizio tedesco investito da una forte crisi economica.

    La ricorrente ha evidenziato come a fronte di lavori eseguiti per DM 36.133.695 e fatturati per DM 32.913.068, la committenza, avvalendosi delle pretese sue inadempienza, abbia sin qui corrisposto solo DM 23.501.756.

    E ciò, pur in presenza di forme articolate e reiterate di garanzia per ogni eventuale inadempimento.

    Ha pure evidenziato la ricorrente come, su un totale di fidejussioni offerte alla committenza per DM 10.892.103, a termini di contratto avrebbero dovuto esserle già restituite fidejussioni per DM 1.840.000.

    In siffatto contesto, la successiva lettera del 25.4.1996 con la quale la committenza ebbe a minacciare la rescissione del contratto, avvertendo di non essere disposta "a fare ulteriori concessioni", letta insieme con quella precedente di appena due giorni, acquista il senso inequivoco - sia pur nell’ambito della sommaria cognitio propria di questa procedura - di un inopinato preannunzio di volersi avvalere delle garanzie fideiussorie, in sostanziale frode delle ragioni della società appaltatrice.

    In siffatte evenienze, può dirsi essere pacifico che l’appaltatrice sia terza estranea al contratto (autonomo) di garanzia, che intercorre direttamente tra la Banca Commerciale Niederlassung Frankfurt am Main ed il Monte dei Paschi di Siena Niederlassung Frankfurt am Main, da un lato, e la OPT Wohaungsbangasellschaft, dall’altro; come pure pacifico è che quel contratto sia indifferente alle vicende del rapporto sottostante, di appalto.

    La giurisprudenza riconosce invece al debitore la facoltà di chiedere che sia vietato al garante di rivalersi su di lui ove decida di pagare in favore del garantito, e ciò qualora l’escussione della garanzia si appalesi in modo evidente come esercizio emulativo del diritto ovvero, più esattamente, quale atto fraudolento del beneficiario della prestazione (cd. exceptio doli).

    Sicché, alla stregua di tanto, può dirsi sussistere il fumus del diritto azionato.

    Quanto al periculum, è di tutta evidenza che il rischio di escussioni inopinate, insieme con la massa di crediti maturati e non pagati e di oneri per le immobilizzazioni volte ad assicurare le garanzie contrattuali (la ricorrente - si rammenterà - ha indicato in DM 23.524.042 l’ammontare complessivo delle esposizioni dovute o connesse con l’appalto), implica il rischio concreto di pregiudicare le sorti della compagine sociale.

    In discussione non è solo un diritto di credito, di suo sempre riparabile, quantomeno in forma succedanea, ma lo stesso diritto d’impresa, assoluto e costituzionalmente garantito, la cui lesione comunque sarebbe in concreto difficilmente riparabile.

    Sussistono dunque le condizioni per accedere all’istanza cautelare in atti.

    Ovviamente, non può ritenersi d’ostacolo la circostanza per cui l’escussione non si è ancora verificata, sicché vi sia uno stato di pendenza e di incombenza del pregiudizio, giacché da tempo la giurisprudenza ha riconosciuto l’ammissibilità del provvedimento cautelare atipico pur in presenza di azioni di mero accertamento.

    La natura a prima richiesta scritta propria della garanzia in questione, il rapporto di c.d. controgaranzia che lega le Banche convenute con quelle che hanno reso in Germania la garanzia (banche facenti parte tutte del medesimo gruppo d’imprese), il rapporto di mandato che lega quelle banche alla società ricorrente con riguardo all’individuazione del garante, il rapporto di conto corrente che plausibilmente le avvince con la ricorrente sul piano dei rapporti interni, sono circostanze tutte che sostanziano il rischio che, in caso di escussione degli istituti garanti, il regresso possa essere esercitato in tempo reale, mediante operazioni meramente contabili, con la conseguenza per cui l’attuazione del provvedimento giudiziale potrebbe risultare in concreto pregiudicata dalla preventiva comparizione delle parti.

    La cautela va quindi disposta con decreto, cui fanno seguito i conseguenti provvedimenti.

    Accoglie l’istanza cautelare in atti e, per l’effetto, vieta alla Banca Commerciale Italiana S.p.A. ed al Monte dei Paschi di Siena, in persona dei rispettivi legali rappresentanti, di pagare rispettivamente alla Banca Commerciale Niederlassung Frankfurt am Main ed al Monte dei Paschi di Siena Niederlassung Frankfurt am Main quanto da queste eventualmente preteso in esecuzione e per effetto della garanzia prestata in favore della OPT Wohaungsbangasellschaft mbh i.G., avente sede in Teltow (Berlino), e comunque impone loro di astenersi dall’esercitare il regresso verso la Dioguardi S.p.A., ovvero dal conteggiare a carico della stessa società qualsiasi somma a titolo di rimborso conseguente al rapporto di garanzia.

    Fissa per la comparizione delle parti e per i provvedimenti di cui all’art. 669 sexies, co. III, c.p.c. l’udienza del 13.6.1996, ad h. 9,30, assegnando termine alla ricorrente sino al 5.6.1996 per la notificazione alle controparti del ricorso e del presente decreto.

    IL COMMENTO

    di Domenico Dalfino

    I. Nello stesso senso, v. da ultime, Trib. Napoli, ord. 18 giugno 1996, in Gius, 1996, 3107; Trib. Udine, ord. 22 giugno 1995, in Giust. civ., 1996, I, 551, con nota critica di Di Garbo, Garanzia bancaria a prima richiesta, provvedimento cautelare e "genuina controversia" e in Giur. it., 1996, I, 2, 428, con nota critica di Tommaseo, Vizio del consenso, exceptio doli, cavalli miliardari e abuso dell’inibitoria urgente delle garanzie a prima richiesta; Trib. Roma, ord. 26 maggio 1995, in Foro it., 1996, I, 1091.

    La pronuncia in epigrafe e quelle appena richiamate s’inseriscono nel prevalente orientamento giurisprudenziale che ritiene esperibile la tutela cautelare atipica in materia di garanzie bancarie a prima richiesta in caso di dolo del beneficiario ed in presenza di una prova "liquida" dei fatti su cui l’exceptio doli si fonda.

    Per ulteriori indicazioni sul punto e sul minoritario orientamento contrario, v. la nota di richiami a Trib. Roma, ord. 26 maggio 1995, cit.

    V., inoltre, Trib. Milano, ord. 29 maggio 1995, in Gius, 1995, 2271, con nota di Chiné, nel senso anche che dinanzi ad una pretestuosa escussione di una garanzia bancaria "a prima richiesta" la banca ha l’obbligo di proporre l’exceptio doli, che si iscrive in un dovere di protezione del garantito con riferimento abusi del beneficiario, pena, in difetto, la perdita del diritto di rivalsa nei confronti dell’ordinante; Trib. Milano, ord. 2 marzo 1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 308, nel senso che il dolo del beneficiario, necessario per impedire l’escussione della garanzia, deve consistere in un utilizzo della garanzia pretestuoso e fraudolento, in contrasto con lo scopo perseguito dalle parti con il negozio sottostante; ord. 12 agosto 1993, id., 1996, I, 2, 60, con nota di Daccò, Garanzie "astratte". Appalti internazionali ed exceptio doli generalis, nel senso che l’escussione della garanzia è faudolenta nel caso in cui il beneficiario appaia inadempiente al contratto sottostante e non abbia dato prove del suo adempimento.

    Sulla legittimazione del debitore principale a domandare un provvedimento d’urgenza nello specifico caso in cui il contratto autonomo di garanzia a prima richiesta sia costituito da un c.d. performance bond (ovvero garanzia di buona esecuzione, che indica la garanzia contro il rischio di inadempimento del contratto principale), v. Pret. Roma 4 novembre 1992, Foro it., Rep. 1993, voce Provvedimenti d’urgenza, n. 99, in Impresa, 1993, 499 e in Nuovo dir., 1993, 192, con nota di Lotito.

    Contra e sempre in riferimento a performance bond, v. Trib. Roma, ord. 26 gennaio 1996, in Foro it., 1996, I, 2540, nel senso che il reclamo contro il rigetto dell’istanza cautelare tesa a paralizzare una garanzia "a prima richiesta", non merita accoglimento perché il debitore principale non subisce alcun pregiudizio "imminente ed irreparabile" per effetto del pagamento da parte del garante e della conseguente azione di regresso che potrà esperire nei suoi confronti; Trib. Torino 16 marzo 1993, id., Rep. 1993, voce cit., n. 96 e in Giur. it., 1993, I, 2, 387, secondo cui. pur essendo ammissibile il ricorso alla tutela d’urgenza avverso una garanzia bancaria a prima richiesta del tipo perfomance bond in presenza del dolo del beneficiario comprovato da prove "liquide", la relativa domanda deve essere respintea ove non sia ravvisabile un pregiudizio imminente e irreparabile per il diritto fatto valere.

    In dottrina, nel senso della legittimazione attiva del debitore, v. Meo, Fideiussioni bancarie e garanzie a prima richiesta: le tutele cautelari, in Banca, borsa ecc., 1995, IV, 452, secondo il quale la banca, invece, non avrebbe un analogo interesse all’inibitoria.

    V., infine, tra i fondamentali scritti in materia, Portale, Le garanzie bancarie internazionali, Milano, 1989; Viale, Le garanzie bancarie - La fideiussione e il contratto autonomo di garanzia, in Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. dell’economia, diretto da Galgano, XVIII, Padova, 1994, 175 ss.; Laudisa, Garanzia autonoma e tutela giursidizionale, Milano, 1993; Bonelli, Le garanzie bancarie a prima domanda nel commercio internazionale, Milano, 1990; Tommaseo, Autonomia negoziale e tutela giurisdizionale nei rapporti di garanzia a prima richiesta, negli Studi in onore di V. Denti, II, Padova, 1994.

    V., inoltre, Chiné, Garanzie bancarie "a prima richiesta" e tutela cautelare atipica, in Giur. it., 1993, I, 2, 553; Cicala, Sul contratto autonomo di garanzia, in Riv. dir. civ., 1991, I, 143 ss.; Canale, "Performance bond" e inibitoria del pagamento con provvedimento d’urgenza, in Riv. trim. dir. proc. e civ., 1983, 1581 ss.; Vaccà, Polizza fideiussoria "a prima richiesta", performance bond, fideiussione di buona esecuzione, in Resp. civ., 1991, 323.

    II. Come noto, da tempo nella prassi del commercio internazionale, a fronte di esigenze di immediatezza, elasticità ed automaticità delle operazioni economiche di rilevanti interessi e proporzioni, si è diffuso l’utilizzo di nuovi strumenti di garanzie "autonome", "caratterizzate dall’insensibilità del rapporto di garanzia rispetto alle vicende del sottostante rapporto garantito" (Viale, op. cit., 175). Tali garanzie svolgono una funzione ben diversa da quelle accessorie ed in particolare dalla fideiussione.

    A norma dell’art. 1936, 1° comma, c.c. "è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di una obbligazione altrui". Il negozio fideiussorio è diretto a rafforzare la tutela dell’interesse del creditore all’attuazione del suo diritto, attraverso l’estensione della garanzia patrimoniale ai beni del fideiussore, il quale aggiunge la propria obbligazione accessoria a quella del debitore principale.

    Al contrario, le garanzie in questione sono "dirette a tenere indenne il beneficiario dai rischi deivanti dalla mancata o non corretta esecuzione dell’obbligazione stessa" (cfr. Cass. 6 ottobre 1989, n. 4006, in Giust. civ., 1990, I, 731, con nota di Costanza, Contratto autonomo di garanzia e ripetizione dell’indebito e in Corriere giur., 1990, 158, con nota di Catalano, Dalla fideiussione al contratto autonomo di garanzia). Di conseguenza, la prestazione del garante "non è né identica né omogenea a quella del debitore principale, ma consiste sempre ed esclusivamente nel pagamento di una somma di denaro" (Viale, op. cit., 177), cosicché il garante si impegna "a pagare un debito proprio, non un debito altrui" (Portale, Le Sezioni Unite ed il contratto autonomo di garanzia ("Causalità ed astrattezza" nel Garantievertrag), in Dir. banca, merc. fin., 1988, I, 504).

    Si noti, inoltre, che la mera presenza della clausola "a prima richiesta" non è sufficiente ad escludere l’accessorietà della garanzia, occorrendo, invece, una serie di pattuizioni incompatibili con il carattere accessorio della fideiussione (cfr., in questo senso, Trib. Ravenna 28 marzo 1995, in Gius, 1995, 2262 e Pret. Lecco 22 dicembre 1992, in Banca, borsa ecc., 1994, II, 286).

    V., inoltre, Trib. Milano 9 ottobre 1986, Foro it., Rep. 1987, voce Contratto in genere, n. 180 e in Banca, borsa ecc., 1987, II, 333, nel senso che il performance bond non può identificarsi con la fideiussione tipica, poiché il garante, rinunciando ai vantaggi riconosciuti dalla legge al fideiussore, assume una obbligazione autonoma, assimilabile alla lettera di credito irrevocabile.

    Per effetto di tali garanzie il garante si obbliga ad eseguire la prestazione "a semplice o prima domanda" del creditore e, in presenza della formula "senza eccezioni" o altre equivalenti, senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all’efficacia ed alla vicenda del rapporto sottostante; il meccanismo dell’adempimento "a prima richiesta" scatta a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale (Cfr. Cass. 18 novembre 1992, n. 12341, Foro it., Rep. 1993, voce Contratto in genere, n. 210, in Giust. civ., 1993, I, 1535, con nota di Costanza, Contratto di garanzia e diritti di regresso della banca controgarante, De Vitis, Brevi riflessioni in merito alla struttura del c.d. contratto autonomo di garanzia e ibid., 2765, con nota di Cassera, Contratto autonomo di garanzia, escussione fraudolenta del garante ed exceptio doli).

    L’ammissibilità di tali forme di garanzia, ormai pacificamente riconosciuta, si fonda sull’art. 1322, comma 2°, c.c. e cioè sulla disposizione che consente alle parti di concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. A tal proposito, v. Cass. 18 novembre 1992, n. 12341, cit.; sez. un., 1 ottobre 1987, n. 7341, in Foro it., 1988, I, 103 e 3022, con note di Viale, Sfogliando la margherita: "Garantievertrag" e fideiussione "omnibus" in Cassazione, Tucci, Tutela del credito e validità della fideiussione"omnibus" e Calderale, La Cassazione ed il contratto autonomo di garanzia: il"big sleep" delle sezioni unite, in Giur. it., 1988, I, 1, 1204, con nota di Alessandri, La fideiussione con clausola di pagamento "a semplice richiesta" e in Corriere giur., 1987, 1159, con nota di Mariconda, Sulla fideiussione omnibus e sul contratto autonomo di garanzia.

    III. Il caso di specie. La società ricorrente, "quale aggiudicataria in forza di contratti stipulati il 31.3.1994 ed il 6.4.1995, della funzione di imprenditrice generale della OPT Wohaungsbangasellschaft mbh i.G., avente sede in Teltow (Berlino), per la costruzione chiavi in mano di n. 11 palazzine per civile abitazione", si obbligava a consegnare alla committente "performance bond a primo rischio", "da svincolarsi alle scadenze del collaudo del cemento armato e del collaudo definitivo di ciascuna palazzina".

    Assumevano effettivamente le garanzie la Banca Commerciale Niederlassung Frankfurt am Main ed il Monte dei Paschi di Siena Niederlassung Frankfurt am Main, su richiesta e delega della Comit e del Montepaschi Siena, che fornivano altresì la provvista, instaurando un rapporto di c.d. controgaranzia.

    Sul presupposto dell’avvenuto collaudo, la Dioguardi s.p.a. chiedeva lo svincolo delle garanzie, ma la OPT, assumendo un atteggiamento vessatorio, rifiutava in modo pretestuoso la restituzione e minacciava di avvalersi delle garanzie stesse.

    Come già accennato, l’automaticità del meccanismo delle garanzie autonome comporta che "la banca deve pagare sulla base della semplice richiesta del creditore garantito che affermi essersi verificati i presupposti per l’operatività della garanzia, salvo ovviamente il successivo esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito qualora detti presupposti si rivelino in realtà insussistenti" (Viale, op. cit., 180 s.).

    Tuttavia, in quest’ultimo caso anche l’esercizio dell’azione di ripetizione non sarà possibile se la pattuizione contiene la ulteriore formula "senza sollevare eccezioni", residuando soltanto l’eventuale azione del debitore principale, nei cui confronti la banca abbia esercitato il regresso, contro il garantito-beneficiario per ottenere la restituzione di quanto risulta non dovuto in base al rapporto sottostante (v. Cass. 6 ottobre 1989, n. 4006, cit.).

    Accade, peraltro piuttosto frequentemente, che il beneficiario si rivolga alla banca per escutere la garanzia, nonostante il contratto principale sia stato già correttamente eseguito oppure l’inadempimento sia dipeso da fatto non imputabile al debitore o perfino imputabile al beneficiario stesso.

    In tali ipotesi la banca, che, stante l’insensibilità del rapporto di garanzia rispetto alle vicende del sottostante rapporto garantito, può opporre al beneficiario soltanto le eccezioni relative al rapporto di garanzia, non può rifiutarsi di pagare.

    Sennonché, tale meccanismo si presta a facili abusi da parte del beneficiario, il quale può escutere la garanzia in frode alle ragioni del debitore (perché, ad esempio, è egli stesso inadempiente al contratto sottostante), utilizzandola per conseguire profitti ingiusti.

    Sorge così l’esigenza di tutelare il debitore principale in simili evenienze in via preventiva, attraverso un provvedimento giudiziale d’urgenza che ordini alla banca di sospendere il pagamento o di rifiutarlo del tutto ovvero le inibisca di esercitare la rivalsa qualora decida di dar corso al pagamento.

    La giurisprudenza maggioritaria riconosce al debitore questa possibilità, quando il dolo del beneficiario appaia da prove "liquide" e cioè documentali o di facile esame e anche da sentenze irrevocabili (v. Trib. Napoli, ord. 18 giugno 1996, cit.) ovvero quando l’escussione della garanzia venga effettuata successivamente alla scadenza del termine di efficacia della stessa (Pret. Milano 30 settembre 1991, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 102 e in Contratti, 1993, 43, con nota di Bozzola).

    Da quanto detto, appare evidente che il debitore sia "il soggetto maggiormente interessato ad impedire che la garanzia venga pagata sulla base della richiesta fraudolenta del beneficiario" (Viale, op. cit., 201). Minoritario è l’orientamento che, sul presupposto della estraneità del debitore al rapporto di garanzia, nega tale legittimazione riconoscendola, invece, in via esclusiva al garante (v. Trib. Bologna, ord. 19 gennaio 1994, in Gius, 1994, 9, 201; Pret. Roma, ord. 4 novembre 1992, cit.; Pret. Roma, ord. 23 febbraio 1989, in Banca, borsa ecc., 1990, II, 4).

    IV. La valutazione circa la ricorrenza dei presupposti per la concessione del provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c. viene effettuata dalla giurisprudenza secondo criteri non sempre rigorosi.

    Il fumus boni iuris si sostanzia nel diritto alla controprestazione di cui è titolare il debitore (il quale, fonderà presumibilmente il giudizio di merito sulla c.d. exceptio doli, cioè sull’abusiva escussione della garanzia da parte del creditore-beneficiario, attraverso un comportamento contrario alla principio della buona fede, in violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.: v. Pret. Roma 1 maggio 1987, in Giur. comm., 1988, 835, con nota di De Marinis, Recenti elaborazioni giurisprudenziali in tema di garanzie cosiddette a prima richiesta stipulate in margine a contratti di appalto internazionale).

    Gli indici dell’abusività stati volta a volta individuati nell’asserita nullità del contratto sottostante da parte del beneficiario (Trib. Milano, ord. 14 giugno 1994, in Giur. it., 1996, I, 2, 59, con nota di Daccò, cit.); nell’inadempimento dello stesso beneficiario (Trib. Milano, decr. 22 luglio 1994, ibid., 60); e così via.

    Il diritto ad ottenere l’inibitoria sussiste, peraltro, soltanto ove il giudice sia in grado di escludere ictu oculi l’inesistenza di una genuina controversia tra le parti del rapporto principale in funzione del quale fu rilasciata la garanzia (Trib. Udine, ord. 22 giugno 1995, cit., che concede il provvedimento ex art. 700 c.p.c. nell’ambito della nota vicenda dello stallone Supergill, venduto da una "farm" statunitense ad una coppia di allevatori italiani, per la somma di 2,5 milioni di dollari, dietro garanzia bancaria autonoma a prima richiesta del tipo payment guarantee).

    A ben vedere, la sussistenza di una genuina contrversia diventa l’effettivo criterio in base al quale viene concessa l’inibitoria (sul punto v. Viale, op. cit., 194 s.).

    Il periculum in mora può risultare dal comportamento del beneficiario, dall’entità della somma data in garanzia ed anche dall’intrinseca difficoltà di recuperare all’estero le somme in ipotesi abusivamente riscosse (v. Trib. Milano, ord. 12 agosto 1993, cit.).

    Nel provvedimento in epigrafe lo si individua nel "rischio di escussioni inopinate, insieme con la massa dei crediti maturati e non pagati e di oneri per le immobilizzazioni volte ad assicurare le garanzie contrattuali"; più in particolare, "il rischio che, in caso di escussione degli istituti garanti, il regresso possa essere esercitato in tempo reale, mediante operazioni meramente contabili".

    V. In ultima analisi, si fa rilevare che esiste un diffuso atteggiamento critico in dottrina nei confronti di quella giurisprudenza che con una certa facilità concede provvedimenti d’urgenza in questa materia.

    Ci si chiede, in particolare, "se la garanzia a prima richiesta così disinnescata, possa continuare a definirsi autonoma: se infatti l’escussione della stessa può essere paralizzata da una contestazione del debitore principale che riguarda il rapporto sottostante (sia pure qualificata dall’elemento "dolo"), è evidente che l’accessorietà della garanzia ... degrada a concetto estremamente relativo" (Di Garbo, op. cit., 557 s.).

    Il rischio insito nell’abuso del provvedimento d’urgenza è sostanzialmente quello che siano vanificate le finalità e le esigenze di autonomia alle quali è improntato il contratto di garanzia a prima richiesta, laddove si concede al debitore, soggetto estraneo al rapporto di garanzia, di "bloccarne" l’operatività anche in presenza di genuine controversie sul rapporto sottostante.

    In tali ipotesi, "dare ingresso all’inibitoria significa attribuire alla garanzia a prima richiesta, la natura di garanzia accessoria del rapporto fondamentale, una garanzia permeabile a tutte le eccezioni che sono opponibili a quest’ultimo: in altri termini ... ciò significa la distruzione delle caratteristiche salienti della garanzia a prima richiesta, di un istituto che è stato definito, non senza enfasi, "la linfa necessaria per la vita del commercio internazionale"" (Cfr. Tommaseo, Vizi del consenso, exceptio doli ..., cit., 430).

     

    9) Applicazioni dell’art. 700 c.p.c.

    Torna all'indice

    9.3) CANCELLAZIONE DI PROTESTO RELATIVO AD ASSEGNO BANCARIO E PROVVEDIMENTO D’URGENZA

    Pretura di Matera, ord. 24 maggio 1996; Giud. Spagnuolo; Organizzazione Vendite Ragazzo s.a.s. c. C.C.I.A.A.

     

    Va rigettata l’istanza intesa ad ordinare alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura in via d’urgenza la cancellazione dal bollettino ufficiale del protesto erroneamente o illegittimamente levato, relativo ad assegno bancario.

     

    ...Omissis...

    Con ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato il 12.4.96, la Organizzazione Vendite Ragazzo s.a.s., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, premettendo che con atto del 1.3.96 era stato elevato nei suoi confronti protesto per l'assegno bancario n. 9106608208-09 di £.35.000.000, emesso in favore della ditta Laser Trade di Potenza e negoziato presso la Banca di Credito Cooperativo di Ruoti; che quanto innanzi era avvenuto per esclusiva colpa della banca di Roma -Agenzìa di Matera-, che aveva dichiarato al presentatore del titolo che il conto su cui era stato tratto l'assegno era privo di provvista, mentre invece quello stesso giorno vi era stata versata la complessiva somma di £. 43.560.000; che tale errore era stato ammesso dalla Banca di Roma, la quale aveva provveduto a richiedere la restituzione del titolo "perché erroneamente protestato"; che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, essa ricorrente sarebbe stata esposta al pericolo di un danno grave e irreparabile alla propria immagine commerciale, e che si riservava di agire nei confronti della Banca di Roma, per il ristoro di tutti i danni subiti in conseguenza del suo negligente comportamento; tutto ciò premesso chiedeva che il giudice adito, pronunciando inaudita altera parte, ordinasse alla Camera di Commercio di Matera di non procedere ovvero di sospendere la pubblicazione del protesto dell'assegno bancario in questione.

    Con decreto del 13/4/96 il giudicante concedeva il chiesto ordine di sospensione, fissando l'udienza di comparizione innanzi a sé per la conferma in contraddittorio del provvedimento reso inaudita altera parte.

    all'udienza così stabilita la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Matera si costituiva in giudizio e, sostenendo la propria estraneità al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, chiedeva il rigetto dell'avverso ricorso.

    Dopo la discussione orale dei procuratori costituiti, il giudicante si riservava la decisione.

    ...Omissis... Una più attenta valutazione della materia portata all'attenzione del giudicante deve condurre al rigetto della domanda cautelare proposta dalla ricorrente e alla revoca dell'ordine di sospensione della pubblicazione del protesto, dato con il decreto di cui in premessa.

    Il presente giudizio ripropone la dibattuta questione dei rimedi a disposizione di chi si ritenga pregiudicato, in maniera ingiusta, dalla elevazione e dalla conseguente pubblicazione di un protesto a suo carico.

    La società ricorrente, seguendo un orientamento abbastanza diffuso nella giurisprudenza di merito, ha chiesto in via provvisoria e d'urgenza l'emissione di un ordine di sospensione della pubblicazione del protesto, nei confronti dell'ente (C.C.I.A.A.) che a tale incombente è tenuto per legge.

    L'esperibilità del rimedio cautelare atipico a tutela della propria reputazione commerciale, asseritamente lesa da un protesto erroneo o illegittimo, è stata autorevolmente riconosciuta dallo stesso giudice di legittimità (cfr. Cass. SS.UU. 3/4/89, n.1612; 29/8/90, n.8933; 21/12/90, n.12144), anche se con affermazione meramente incidentale, resa nell'ambito di giudizi instaurati su questioni di giurisdizione, e, dunque, senza affrontare nel vivo la tematica.

    Data la natura provvisoria e la funzione strumentale della tutela cautelare, rispetto alla risoluzione definitiva della res controversa all'esito del giudizio a cognizione piena, per una corretta impostazione della questione non può prescindersi - come correttamente evidenziato dalla difesa dell'ente convenuto - dall'esatta individuazione della situazione giuridica soggettiva cautelanda, giungendo ad "isolare" il rapporto giuridico sostanziale sottostante e i soggetti che ne sono parte: operazione necessaria ai fini del riscontro della sussistenza del cosiddetto fumus boni iuris.

    Preliminarmente, non è superfluo ricordare che il protesto - preordinato a conservare l'azione di regresso al portatore di un titolo di credito - è atto pubblico che constata la mancata accettazione o il mancato pagamento del titolo da parte del debitore, ed è redatto da un pubblico ufficiale su richiesta dello stesso creditore.

    I protesti per mancato pagamento sono soggetti a una forma di pubblicità legale. La legge 12/2/55 n.77 ha onerato di questa attività le Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, attraverso un meccanismo che prevede l'obbligo per i pubblici ufficiali abilitati a levare i protesti di trasmettere al presidente del tribunale, non oltre il giorno 7 e il giorno 22 di ogni mese, l'elenco in duplice copia dei protesti per mancato pagamento e delle dichiarazioni di rifiuto di pagare, e l'onere di detto organo giurisdizionale di trasmettere a sua volta alla C.C.I.A.A. competente per territorio un'esemplare dell'elenco, per la pubblicazione con cadenza quindicinale nel suo bollettino. La successiva legge 12/6/73 n.349 ha introdotto delle ipotesi di cancellazione dei protesti dagli elenchi innanzi citati, nei casi in cui il debitore esegua il pagamento di una cambiale o di un vaglia cambiario nel termine di cinque giorni dalla levata del protesto, ovvero quando il pubblico ufficiale che ha elevato il protesto o l'azienda di credito richiedente denuncino l'erroneità o la illegittimità della levata; la cancellazione consegue a un provvedimento del presidente del tribunale all'esito di un procedimento di natura non contenziosa.

    Il detto rimedio è stato ritenuto non applicabile al di fuori dei casi espressamente contemplati dalla legge, e in particolare non è stato ritenuto estensibile alla materia degli assegni bancari (cfr. Corte Cost.5.7.90 n.317 e 19.1.93,n.14): da qui il frequente ricorso al rimedio cautelare atipico di cui all'art.700 c.p.c., per ovviare al pericolo del discredito commerciale, spesso essenziale per gli operatori economici derivante dalla pubblicazione di un protesto erroneo o illegittimo di un assegno bancario.

    A ben vedere, il meccanismo disegnato dalla l.n.77/55, col prevedere che la C.C.I.A.A. provveda semplicemente a pubblicare l'elenco dei protesti ricevuto dal presidente del tribunale, vale a configurare in capo alla medesima un'attività amministrativa meramente materiale e meccanica, priva di qualunque contenuto di discrezionalità e nella quale non si esprime alcuna potestà pubblicistica. Orbene, come ha recentemente affermato una certa dottrina, è necessario partire proprio dal punto fermo della natura dell'attività posta in essere dalla C.C.I.A.A. per stabilire l'ammissibilità e i termini di una tutela urgente in questa materia.

    In particolare, di fronte ad una attività di pubblicazione doverosa e assolutamente vincolata per l'ente camerale, sol che un determinato protesto

    risulti inserito nell'elenco trasmessogli dal presidente del tribunale, non è possibile configurare alcuna valida pretesa del privato nei confronti dell'ente stesso ad omettere la pubblicazione di quel protesto: l'ente, invero, non ha alcuna possibilità di conoscere della correttezza o della legittimità del protesto medesimo, dovendo soltanto dar corso alla forma di pubblicità prevista dalla legge. Questa riflessione deve portare a spostare il baricentro del problema dalla pubblicazione sul bollettino al protesto in sé considerato: per ottenere l'esclusione del protesto dal bollettino pubblicato a cura della C.C.I.A.A. è di tutta evidenza necessario ottenerne preliminarmente l'eliminazione dal mondo giuridico e, pertanto, farne valere l'erroneità o l'illegittimità (per vizi formali -p.es. inosservanza delle modalità di presentazione del titolo, art.5 l. n.349/73- e/o per inesistenza dell'obbligazione cambiaria sottostante), a seconda dei casi, nei confronti del pubblico ufficiale che ha erroneamente elevato il protesto o del creditore che ne ha illegittimamente fatto richiesta.

    In buona sostanza, l'unica pretesa riconoscibile in capo al debitore ingiustamente protestato è quella di veder dichiarare l'erroneità o l'illegittimità intrinseca del protesto oppure l'inesistenza dell'obbligazione cambiaria, rispettivamente nei confronti del pubblico ufficiale procedente o del creditore richiedente: accertamento fine a se stesso (rectius, finalizzato a neutralizzare gli effetti del protesto, tra cui la pubblicazione nel bollettino), oppure pregiudiziale alla condanna di uno dei due soggetto indicati al risarcimento dei danni cagionati al debitore con la propria illegittima condotta.

    Rispetto a questa ricostruzione della vicenda sottesa alla materia in esame, per cui, in ultima analisi, il debitore cambiario può vantare soltanto una pretesa al comportamento corretto del creditore che richiede il protesto e del pubblico ufficiale che lo esegue, nessuna situazione giuridica soggettiva, da far valere in via ordinaria, può essere riconosciuta al debitore medesimo nei confronti della C.C.I.A.A. che adempie al proprio obbligo legale di pubblicare il protesto: ergo, nessuna tutela d'urgenza può concedersi a quel debitore nei confronti dell'ente camerale.

    Al fine di meglio comprendere l'insussistenza di alcuna pretesa tutelata nei confronti di chi, come la C.C.I.A.A., adempie ad una funzione doverosa di pubblicità, suggestivo è il parallelismo che la dottrina più innanzi menzionata fa tra la pubblicazione dei protesti e la tenuta dei registri immobiliari: colui che tema un pregiudizio dall'imminente trascrizione di un atto invalido, potrà agire per ottenere l'eliminazione di quell'atto nei confronti dell'altra parte del rapporto giuridico sostanziale, ma non potrà mai convenire in giudizio il conservatore, obbligato per legge a dar corso alla pubblicità immobiliare, per ottenere dal giudice un ordine di non procedere a tale trascrizione.

    Se al debitore ingiustamente protestato è riconosciuta una pretesa tutelata unicamente nei confronti del pubblico ufficiale che elevò il protesto o del creditore istante, allora egli potrà legittimamente richiedere una misura cautelare, tendente ad anticipare gli effetti della sentenza di merito ed a neutralizzare le conseguenze perverse del protesto, soltanto nei confronti di questi soggetti. Il provvedimento urgente di sospensione degli effetti del protesto (e, dunque, della sua pubblicazione) sarà, pertanto, strumentale all'accertamento definitivo dell'erroneità e/o dell'illegittimità del protesto, da far valere nei confronti del pubblico ufficiale procedente o del soggetto richiedente.

    A questa statuizione provvisoria non potrà non conformarsi, pur non essendo parte del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, anche la C.C.I.A.A., opportunamente notiziata del provvedimento giudiziale da parte del debitore, apparendo del tutto ovvio che intanto su essa può dirsi incombere l'obbligo di pubblicazione in quanto esista un protesto attualmente efficace. Soltanto in caso di mancato adeguamento, il debitore ingiustamente protestato potrà convenire in giudizio la C.C.I.A.A., se del caso anche con domanda cautelare, questa volta per far valere un comportamento illecito proprio del detto ente.

    Sulla scorta delle suesposte riflessioni, la domanda cautelare proposta dalla società ricorrente nei confronti della C.C.I.A.A. di Matera deve essere rigettata per insussistenza di una pretesa tutelata nei confronti dell'ente convenuto: deve, pertanto, revocarsi l'ordine di sospensione della pubblicazione del protesto, emesso con decreto del 13/4/96.

    Passando al regolamento delle spese processuali, la peculiarità della questione trattata e le incertezze giurisprudenziali tuttora esistenti in materia suggeriscono come equa la compensazione integrale tra le parti delle spese di lite.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Domenico Dalfino

    I. Come noto, l’art. 12, l. 12 giugno 1973, n. 349, contenente modificazioni alle norme sui protesti delle cambiali e degli assegni bancari, ha aggiunto ben sei commi all’art. 3, l. 12 febbraio 1955, n. 77, sulla pubblicazione degli elenchi dei protesti cambiari.

    Tale intervento legislativo ha introdotto un particolare procedimento per ottenere la cancellazione del protesto dall’elenco che, ai sensi dell’art. 2, l. 1955/77, i pubblici ufficiali a ciò abilitati e i procuratori del registro debbono far pervenire periodicamente al presidente del tribunale, in duplice esemplare.

    In particolare:

    a) ai sensi del comma 3° dell’art. 3, l. 1955/77 - il primo di quelli aggiunti, come detto, dalla l. 1973/349 - il debitore, che esegua il pagamento nel termine di cinque giorni dalla levata del protesto, può chiedere la predetta cancellazione, proponendo, entro il giorno susseguente al pagamento, formale istanza al presidente del tribunale competente corredata del titolo quietanzato e dell’atto di protesto o della dichiarazione di rifiuto del pagamento.

    Sennonché, la circostanza che la disposizione si riferisca esclusivamente alla cambiale e al vaglia cambiario costituisce un chiaro indizio della voluntas legis, nel senso della sua inapplicabilità all’assegno bancario.

    V., sul punto, Trib. Ascoli Piceno 29 maggio 1993, in Foro it., 1993, I, 2965.

    V., inoltre, Corte cost. 5 luglio 1990, n. 317, id., Rep. 1990, voce cit., nn. 61 e 62 e in Giust. civ., 1990, I, 2492, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, l. 1955/77, così come modificato dall’art. 12, l. 1973/349, in relazione agli artt. 3 e 24, Cost., nella parte in cui non estende al debitore di assegno bancario la possibilità, concessa al debitore di cambiale o di vaglia cambiario, di ottenere la cancellazione del proprio nome dal bollettino dei protesti, ove paghi, nel termine di cinque giorni dal protesto, la somma dovuta e nella parte in cui non consente al debitore di assegno bancario di ricorrere al presidente del tribunale per ottenere la detta cancellazione. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata da Pret. Latina 26 aprile 1989, in Giur. it., 1990, I, 2, 796, con nota di Sicchiero, La legge sugli elenchi dei protesti cambiari torna alla Corte costituzionale.

    In seguito, Corte cost., ord. 19 gennaio 1993, n. 14, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 91 e in Giur. it., 1993, I, 2, 892, con nota critica di Sicchiero, La terza decisione della Corte costituzionale sulla pubblicazione del protesto di assegni bancari, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale (sollevata da App. Palermo 22 maggio 1992, ibid., 14, con nota di Sicchiero, Ancora sulla illegittimità costituzionale della legge sulla pubblicazione dei protesti e in Giust. civ., 1993, I, 2235, con nota di Zino, Nota sul procedimento per la cancellazione dei protesti e sui poteri cautelari del giudice ordinario dopo la rimessione degli atti alla Corte costituzionale) della disposizione in esame, anche dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina sanzionatoria dell’emissione di assegni privi di copertura introdotta dalla l. 15 dicembre 1990, n. 386.

    b) Qualche dubbio può sorgere in relazione al comma 4° dell’art. 3, cit., che prevede un’altra ipotesi in cui è possibile chiedere la cancellazione del protesto e cioè quella in cui questo sia stato illegittimamente o erroneamente levato, non specificando, però, se tale possibilità sia da riferire soltanto alla cambiale e al vaglia cambiario ovvero anche all’assegno bancario.

    L’orientamento giurisprudenziale sul punto è ancora una volta in senso negativo: Trib. Verona 1 luglio 1994, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 73 e in Giur. merito, 1995, 743; Trib. Venezia 30 agosto 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, 1.

     

    II. Gli spazi di tutela a favore del soggetto leso dalla pubblicazione di un protesto, relativo ad assegno bancario, erroneamente o illegittimamente levato, che, stante il restrittivo orientamento giurisprudenziale in ordine all’applicabilità dell’art. 3, l. 1955/77 per ottenerne la cancellazione, sembrerebbero ridursi notevolmente fino ad azzerarsi, sono destinati ad espandersi su un piano diverso.

    Si ammette, infatti, la possibilità di chiedere in via d’urgenza un provvedimento cautelare atipico ex art. 700 c.p.c., al fine di inibire la pubblicazione del protesto nel Bollettino Ufficiale ovvero ottenere la sospensione della stessa, fino all’esito del giudizio di merito diretto a farne dichiarare la nullità o l’illegittimità.

    In tal senso, v. Trib. Catanzaro 7 aprile 1995, Foro it., Rep. 1995, voce Titoli di credito, n. 72 e in Banca, borsa ecc., 1995, II, 491; Trib. Verona 1 luglio 1994, cit.; Pret. Taranto-Manduria, 21 luglio 1991, in Foro it., 1992, I, 971, secondo cui il ricorso cautelare va presentato al giudice del luogo di pubblicazione del bollettino ufficiale.

    V., inoltre, la decisiva Corte cost. 1994, n. 151, in Foro it., 1994, I, 2649, con nota di Monnini, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2°, l. 1955/77, nella parte in cui prevede l’obbligo per le Camere di commercio di provvedere alla pubblicazione nel bollettino ufficiale dell’elenco di tutti i protesti elevati nella circoscrizione, senza prevedere l’esclusione delle ipotesi in cui il mancato pagamento sia dovuto a causa non imputabile al debitore, stante il potere del giudice ordinario di provvedere alla previa sospensione ex art. 700 c.c.p. del protesto di assegni di debitore incolpevole e di ordinare nel conseguente giudizio di merito la definitiva cancellazione dall’elenco dei protesti cambiari.

    Contra, v. Pret. Savona 17 aprile 1990, id., Rep. 1990, voce Provvedimenti d’urgenza, n. 201 e in Nuovo dir., 1990, 779, con nota di Lotito, Protesto di assegno bancario, pubblicazione dello stesso e spazi di tutela in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., secondo cui l’accoglimento della domanda intesa ad inibire la levata del protesto ovvero la sua pubblicazione integrerebbe un’indebita interferenza nell’attività di pubblica certificazione, di rispettiva spettanza del notaio e della Camera di commercio.

    In relazione alla cambiale v. Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1612, in Foro it., 1909, I, 3276, con nota di richiami di C.M. Barone, in Giust. civ., 1989, I, 1043, con nota di Triola, In tema di divieto di pubblicazione di protesto, ibid., 1849, con nota di Sotgiu, Sull’ammissibilità del ricorso al giudice ordinario in caso di tutela d’urgenza in tema di pubblicazione di protesto illegittimo, ibid., 2642, con nota di Annunziata, Ancora sulla sospensione della pubblicazione di un protesto cambiario, in Giur. it., 1989, I, 1, 1318, con nota di Sicchiero, Ancora in tema di cancellazione del nome dal bollettino dei protesti; 29 agosto 1990, n. 8983, Foro it., Rep. 1991, voce Provvedimenti d’urgenza, n. 135 e in Vita not., 1990, 642; 21 dicembre 1990, n. 12144, Foro it., Rep. 1990, voce Titoli di credito, n. 30.

    Cfr., però, in senso contrario, Pret. Cagliari 4 agosto 1990 e 30 marzo 1990, Foro it., Rep. 1992, voce cit., nn. 165 e 166.

    In dottrina, nel senso della ammissibilità della tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c., che, peraltro, "avrà un contenuto di mero accertamento, conducendo (in ipotesi di accoglimento del ricorso) ad una declaratoria di presumibile (essendo la valutazione limitata all’esistenza del fumus boni iuris della domanda) illegittimità o erroneità del protesto", v. Fornaciari, Pubblicazione dei protesti e tutela d’urgenza, in Giust. civ., 1992, II, 77 ss.

    Sulla cumulabilità del rimedio ex art. 700 c.p.c. con quello previsto dalla l. 1955/77, v. Trib. Macerata 12 maggio 1990, Foro it., Rep. 1991, voce Titoli di credito, n. 56.

     

    III. Una volta ammesso (pressoché pacificamente) il ricorso alla tutela cautelare atipica al fine di ottenere in via provvisoria e urgente la sospensione della pubblicazione del protesto di assegni e cambiali del debitore incolpevole, il passaggio ulteriore non può che consistere nell’individuazione del destinatario dell’ordine costituente il contenuto del provvedimento d’urgenza.

    Il dibattito si incentra principalmente sulla possibilità o no di ordinare direttamente alla C.C.I.A.A. di sospendere la pubblicazione del protesto ovvero di procedere alla sua cancellazione. Il riferimento immediato è all’art. 4, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, abolitiva del contenzioso amministrativo, contenente il divieto per il giudice ordinario di imporre un facere o un non facere alla p.a.

    In particolare, da un lato si esclude tale possibilità, sulla base della disposizione ora richiamata e della natura di ente pubblico della Camera di commercio (cfr. Pret. Milano 12 giugno 1987, in Giur. comm., 1988, II, 485 e, in dottrina, Triola, cit., 1044); dall’altro, invece, si sostiene che, nel caso di specie, il suindicato divieto non opera in quanto, dal meccanismo disegnato dalla l. 1955/77, deriva che l’attività (amministrativa) di pubblicazione nel Bollettino Ufficiale dei nominativi negli elenchi dei protesti da parte di tali enti è meramente materiale, doverosa e vincolata, priva, pertanto, di qualunque contenuto di discrezionalità, nella quale non si esprime alcuna potestà pubblicistica (cfr. Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1612, cit. e, in dottrina, Annunziata, cit., 2643, il quale saluta con particolare favore la decisione con la quale le Sezioni unite della Suprema Corte hanno riconosciuto il potere del giudice ordinario di ordinare alla Camera di commercio la sospensione della pubblicazione di un protesto sul Bollettino Ufficiale).

    Il provvedimento in epigrafe si schiera nettamente con quell’orientamento che nega possano essere considerate legittimate passivamente le Camere di commercio (v. anche Trib. Catanzaro 7 aprile 1995, cit.)

    Le conclusioni cui perviene ("l’unica pretesa riconoscibile in capo al debitore ingiustamente protestato è quella di veder dichiarare l’erroneità o l’illegittimità intrinseca del protesto oppure l’inesistenza dell’obbligazione cambiaria, rispettivamente nei confronti del pubblico ufficiale procedente o del creditore richiedente") sono da condividere.

    Ripercorriamo i passaggi più significativi, che sembrano i seguenti:

    I.a) i protesti per mancato pagamento sono soggetti ad una forma di pubblicità legale, di cui sono onerate le Camere di commercio, ai sensi della l. 1955/77; I.b) la successiva la l. 1973/349 ha introdotto due ipotesi di cancellazione dei protesti dagli appositi elenchi; I.c) la cancellazione consegue ad un provvedimento del presidente del tribunale all’esito di un procedimento di natura non contenziosa; I.d) il rimedio introdotto dalla l. 1973/349 non è applicabile all’assegno bancario, anche e soprattutto a seguito delle recenti pronunce della Corte costituzionale.

    II.a) il ricorso alla procedura ex art. 700 c.p.c. per ovviare al pericolo del discredito commerciale, derivante dalla pubblicazione di un protesto erroneo o illegittimo di un assegno bancario, non è ammissibile direttamente nei confronti della Camera di commercio, posto che II.b) l’attività amministrativa svolta da quest’ultima è meramente materiale, non costituendo espressione di alcun potere discrezionale e, pertanto, II.c) sol che un determinato protesto risulti inserito nell’elenco trasmesso dal presidente del tribunale, non è possibile configurare alcuna valida pretesa del privato nei confronti dell’ente Camerale ad omettere la pubblicazione di quel protesto; cosicché II.d) per ottenere l’esclusione del protesto dal bollettino ufficiale è necessario preliminarmente ottenerne la eliminazione dal mondo giuridico, facendone valere la erroneità o la illegittimità, a seconda dei casi, nei confronti del pubblico ufficiale che ha erroneamente elevato il protesto o del creditore che ne ha illegittimamente fatto richiesta; in conclusione, II.e) nessuna situazione giuridica soggettiva, da far valere in via ordinaria, può essere riconosciuta al debitore incolpevole nei confronti della C.C.I.A.A. che adempie al proprio obbligo legale di pubblicare il protesto e, quindi, nessuna tutela d’urgenza può concedersi al debitore medesimo nei confronti dell’ente Camerale.

    Un solo profilo argomentativo, nella motivazione, non è chiaro ed è il passaggio dal punto sub II.a) a quello sub II.b). In particolare, non si comprende come possa costituire ostacolo alla pronuncia del provvedimento giurisdizionale la circostanza che l’attività della Camera di commercio sia meramente materiale e che non esprima alcun potere discrezionale della p.a. Al contrario, potrebbe essere questa la motivazione principale per ammettere la possibilità di ordinare direttamente all’ente Camerale la sospensione della pubblicazione del protesto ovvero la sua cancellazione. E’ noto, infatti, che il divieto di cui all’art. 4, l. 1865/2248, all. E, non opera in relazione ai c.d. meri atti amministrativi, a quelli cioè in cui l’amministrazione si limita a esprimere un giudizio o ad attestare un fatto che è a sua conoscenza.

    A ben vedere, la soluzione della questione relativa all’esperibilità o no della tutela cautelare d’urgenza nei confronti della Camera di commercio non può non prendere le mosse dalla considerazione di ordine generale, secondo cui "i provvedimenti d’urgenza non cessano di essere atti giurisdizionali, e, pertanto, non possono non essere dominati dai principi generali, che degli atti giurisdizionali sono propri: in primis, il principio per il quale sententia lata tertiis neque nocet neque prodest" (Andrioli, Provvedimenti di urgenza in "incertam personam", in Foro it., 1951, I, 1476).

    Essi, dunque, non possono essere emessi che tra le parti e non hanno effetto che tra le parti medesime. Ciò significa e comporta anche che le parti del giudizio cautelare devono coincidere con quelle del giudizio di merito. Ora, anche ammettendo che il giudice ordinario in sede cautelare possa ordinare direttamente all’ente Camerale la sospensione della pubblicazione del protesto, è di tutta evidenza che l’ente stesso non potrebbe essere parte del giudizio di merito, non incontrando alcuna responsabilità nella pubblicazione degli elenchi che le vengono trasmessi (cfr., negli stessi termini, Triola, cit. 1044).

    In conclusione, mutuando le parole, in parte già innanzi riportate, di Fornaciari, Pubblicazione dei protesti e tutela d’urgenza, in Giust. civ., 1992, II, 88, "il procedimento ex art. 700 c.p.c. in questione non si svolgerà nei confronti della C.C.I.A.A. e non condurrà ad un ordine, a questa diretto, di sospendere la pubblicazione del protesto ... Esso si svolgerà tra le parti - vale a dire ... tra il soggetto passivo del protesto e colui su istanza del quale sia avvenuta la levata di questo - ed avrà un contenuto di mero accertamento, conducendo (in ipotesi di accoglimento del ricorso) ad una declaratoria di presumibile (essendo la valutazione limitata all’esistenza del fumus boni iuris della domanda) illegittimità o erroneità del protesto".

     

     

    9) Applicazioni dell’art. 700 c.p.c.

    Torna all'indice

    9.4) TUTELA DEI SEGNI DISTINTIVI E DIRITTO ALL’UTILIZZAZIONE DI DOMINI INTERNET

    Tribunale di Bari, IV sez., 23 luglio 1996, ord. - G.I. Magaletti - Teseo S.p.A. c. Teseo Internet Provider S.r.l.

     

    Va rigettato il ricorso proposto ex art. 700 c.p.c. per la tutela del diritto all’uso esclusivo della denominazione sociale dovendosi escludere ogni rischio di confusione, anche in relazione all’utilizzo del nome di dominio internet, tra le denominazioni sociali di società svolgenti attività diverse.

     

    Letto il ricorso in data 30\5\96 con il quale la Teseo S.p.A. ha chiesto in via d’urgenza:

    a) inibirsi alla Teseo Internet Provider S.r.l. l’utilizzo della denominazione sociale "Teseo" o "Teseo Internet Provider" e del marchio costituito dalla parola "Teseo" sia sul servizio Internet sia altrove in quanto idonee a creare confusione con il marchio "Teseo" e la denominazione sociale "Teseo S.p.A." legittimamente utilizzate dalla ricorrente per contraddistinguere la propria attività ed i propri prodotti e servizi;

    b) ordinarsi alla resistente di annullare la presenza sulla rete Internet del dominio "Teseo it."

    ...Omissis...

    L’azione cautelare proposta dalla Teseo S.p.A. non può essere accolta non sussistendo i requisiti del fumus boni juris e del periculum in mora.

    Per quanto attiene alla richiesta di tutela in via d’urgenza del diritto all’uso esclusivo della denominazione sociale, deve escludersi che sussista il rischio di confusione tra le denominazioni sociali delle due società contendenti considerato che:

    a) a seguito delle contestazioni mosse dalla ricorrente, la resistente ha provveduto a modificare l’originaria denominazione sociale "Teseo S.r.l." aggiungendovi le parole Internet Provider, idonee ad avviso del giudicante a distinguerla nettamente dalla denominazione sociale della ricorrente e ad evitare ogni rischio di confusione, considerato che il nome Teseo, di origine mitologica, utilizzato come nome proprio ed adottato come ditta da numerose imprese operanti sul territorio nazionale, non è dotato di una particolare originalità ed intensità tale da assumere valore predominante rispetto alla locuzione Internet Provider che efficacemente descrive l’attività svolta dalla resistente, tanto più ove si consideri la netta differenziazione grafica tra i segni distintivi delle due società che contribuisce ulteriormente ed efficacemente ad evitare il rischio di confusione;

    b) la resistente, come è pacifico tra le parti, svolge esclusivamente attività di provider, consistente nella gestione di un nodo Internet per la connessione di terzi sulla rete laddove la ricorrente svolge attività di produzione e progettazione di apparecchiature elettroniche ed elettromeccaniche per il controllo di processi industriali nel settore calzaturiero, di assistenza tecnica per la relativa manutenzione e di elaborazione di software non prevedendo invece l’attività di provider, sicché anche con riferimento alle attività svolte non sussiste il paventato pericolo di confusione; né alcuna rilevanza può attribuirsi alla circostanza che l’oggetto sociale della resistente preveda alcune attività affini a quelle espletate dalla Teseo S.p.A. (quali la produzione di software e la manutenzione di elaboratori alla previsione delle quali nel proprio oggetto sociale peraltro la Teseo Internet Provider S.r.l. ha dichiarato di essere disposta a rinunciare), dovendosi aver riguardo alla concreta attività svolta dalla resistente e non invece alle enunciazioni contenute nell’atto costitutivo che molto spesso contengono previsioni di attività ben più ampie e variegate di quelle effettivamente svolte o che si sia in concreto ed operativamente in grado di esercitare, rilievo che assume maggior spessore ove si consideri che il rischio paventato dalla ricorrente, ove si accedesse alla tesi prospettata dalla difesa della stessa, non sarebbe escluso ove l’originario oggetto sociale non prevedesse in astratto l’esercizio di attività similari ed affini, considerata la facilità con la quale potrebbe essere ampliato o mutato l’oggetto sociale; peraltro quand’anche si accedesse all’opposta tesi deve pur sempre rilevarsi che l’attualità della differenziazione delle attività espletate dalle due Società esclude la sussistenza dell’imminenza del pericolo di danno grave ed irreparabile.

    Le considerazioni che precedono evidenziano altresì l’infondatezza della richiesta cautelare formulata con riferimento alla tutela del marchio: il conflitto tra ditta e marchio è regolato dall’art.13 R.D.21/6/42 n°.929, così come modificato dall’art.13 d.lgs. 4/12/92 n°.480, a tenore del quale il divieto di adottare come ditta, denominazione o ragione sociale un segno uguale o simile all’altrui marchio opera solo quando sussista il pericolo di confusione per il pubblico determinato dall’identità o dall’affinità tra l’attività di impresa normale di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è stato adottato ovvero qualora si verifichi una delle ipotesi (nel caso di specie neppure adombrata) previste dal secondo comma del citato articolo di legge. Orbene nel caso di specie come già ampiamente argomentato il requisito dell’identità o affinità tra attività della resistente ed i prodotti o servizi tutelati dal marchio non sussiste. Di contro deve rilevarsi che l’espresso riferimento al carattere di normalità dell’impresa costituisce ulteriore elemento a sostegno della tesi accolta in ordine alla necessità che l’indagine che il giudice deve svolgere concerne l’attività in concreto esercitata e non invece a quella che in astratto potrebbe essere esercitata secondo le previsioni statutarie.

    In base alle considerazioni che precedono deve altresì rigettarsi la domanda cautelare sotto il profilo della concorrenza sleale.

    Parimenti infondata è la domanda volta ad ottenere l’ordine alla resistente di annullare la presenza su INTERNET del dominio "teseo.it". Devesi infatti osservare che il diritto all’utilizzazione dei domini INTERNET viene concesso al richiedente dalla R.A. Italiana mediante la registrazione del nome del dominio il quale può non corrispondere al nome del richiedente (in proposito deve infatti osservarsi che le disposizioni del regolamento GARR prescrivono che il nome a domini richiesto non deve essere fuorviante né indurre confusione con altre entità presenti su INTERNET e consigliano, ma non prescrivono in via tassativa, che il nome a domini prescelto sia simile o al nome dell’entità richiedente, oppure ad uno dei suoi servizi, prodotti, marchi, etc.) e costituisce un semplice codice d’accesso ai servizi telematici, "un’entità per identificare univocamente dei gruppi di oggetti (servizi, macchine, caselle postali, etc.) presenti sulla rete e non invece un’indicazione dell’importanza, globalità, o disponibilità dei servizi o dell’entità che esso identifica (§ B.0.6. reg.cit.). Ciò premesso deve osservarsi da un lato che la resistente ha legittimamente acquisito il diritto all’utilizzazione del dominio in contestazione avendo per prima ottenuto la relativa concessione dall’organo competente a ciò preposto e dall’altro lato che la ricorrente non può vantare alcun diritto di esclusiva in ordine all’utilizzazione del dominio "teseo.it", sia perché, come già rilevato il nome a domini può non corrispondere a quello dell’entità richiedente, sia perché in ogni caso esso avrebbe potuto essere richiesto da qualsiasi entità che legittimamente avesse utilizzato nella propria ditta o in altri segni distintivi la parola "Teseo". Peraltro il regolamento citato esclude la possibilità di prenotazione di un nome a domini (che può essere assegnato in uso solo quando esso venga effettivamente utilizzato per un servizio funzionante) ed anche i sottodomini assegnati che desiderino ottenere una registrazione a livello superiore nell’albero dei nomi non possono considerare preriservato il nome che essi avevano. Ne consegue pertanto che deve escludersi qualsiasi diritto della ricorrente ad ottenere l’utilizzazione del dominio top level denominato "teseo.it" e conseguentemente la fondatezza della relativa domanda cautelare. Nè può ritenersi fondata la tesi della ricorrente secondo la quale l’uso del dominio in contestazione da parte della resistente impedirebbe alla prima di poter usufruire della stessa forma di pubblicità e del servizio di posta elettronica, nel contempo rendendo più concreto e reale il pericolo di confusione da parte di un potenziale cliente. Sotto il primo profilo devesi infatti osservare che nulla impedisce alla ricorrente di richiedere l’uso di un dominio top level a livello internazionale anziché a quello nazionale con il nome "teseo com." ovvero "teseo.it" ovvero di avvalersi per i suoi scopi pubblicitari o di indirizzo elettronico di un sottodominio così come peraltro avviene per la gran parte delle imprese presenti in INTERNET, ivi compresa la ricorrente. Sotto il secondo profilo deve osservarsi che, come già rilevato, il nome a domini ha soltanto la funzione di identificare dei gruppi di oggetti e non anche l’entità che utilizza il dominio sicché nessuna confusione è possibile tra i due soggetti potendo eventualmente la confusione essere determinata dal contenuto delle pagine pubblicitarie dei due soggetti ove ne sussistano i presupposti: "un nome a dominio è un nome a domini e null’altro (§ B.0.6. reg.cit., nota).

    Alla stregua di tali considerazioni la domanda cautelare in oggetto non può dunque trovare accoglimento.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Umberto Volpe

    Sul tema la Suprema Corte ha innanzitutto avuto occasione di affermare (Cass. 9 agosto 1991, n. 8691, Giur. it., 1991, I, 1, 1303) che la tutela accordata dagli artt. 2598 e segg. c.c., per atti di concorrenza sleale che si realizzino con l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, concorre con quella dei segni distintivi ex artt. 2563 e segg. c.c. e la ricomprende quando, oltre all’atto confusorio, si verifichi una situazione idonea ad arrecare pregiudizio all’esercizio dell’impresa. E’ indiscutibile, infatti, che la disciplina della concorrenza sleale per atti confusori abbia una funzione integrativa di quella che tutela l’esclusiva sui segni distintivi. Con la precisazione, peraltro, che per l’applicabilità delle norme sulla concorrenza sleale non occorre che la confusione tra due segni distintivi sia effettivamente avvenuta e che si sia verificato un danno, essendo sufficiente l’idoneità a produrre confusione ed il mero pericolo di danno.

    Ciò detto, giurisprudenza (cfr. Cass. 21 ottobre 1988, n. 5716, Foro it., 1990, I, 976, con nota di MASSA; Cass. 28 ottobre 1987, n. 7958, id., 1988, I, 405 e 23 dicembre 1983, n. 7583, id., 1984, I, 410, entrambe con osservaz. di TROIANO) e dottrina (DI CATALDO, I segni distintivi, Milano, 1985, 200; GUGLIELMETTI, Il marchio celebre o "de haute renommée", Milano, 1977,294; FRANCESCHELLI, Sul conlitto ditta-marchio (a proposito del caso "Buton"), in Riv. dir. ind., 1976, II, 36) sono quasi unanimi nel circoscrivere la tutela accordata ai segni distintivi entro limiti in cui sussista almeno una probabilità di confusione tra attività; del tutto isolati sono rimasti i tentativi, peraltro ormai remoti, di riservare agli stessi una tutela assoluta.

    Pertanto, il principio di specialità che governa la tutela dei segni distintivi non consente di inibire l’uso dell’altrui marchio o denominazione per prodotti che, per essere merceologicamente distinti sia dagli oggetti di prima produzione, sia dai settore di potenziale espansione commerciale del segno imitato, non possono ingenerare presso il pubblico confusione alcuna circa la provenienza differenziata di prodotti omonimi. "I comportamenti vietati sono quelli che tendono ad uno sviamento di clientela, ad ottenere cioè che una parte della clientela del soggetto passivo sposti le sue preferenze a favore del soggetto attivo. Ma è chiaro che quel fenomeno può verificarsi soltanto se vi è potenzialmente una clientela comune; e dunque soltanto se tra i due soggetti vi è un rapporto di concorrenza, inteso in senso più o meno ampio" (così Cass. 5716/88, cit.).

    Così, nel caso di specie, il Tribunale, dopo aver verificato a) la coincidenza solo parziale delle denominazioni sociali; b) la mancanza di particolare originalità ed intensità del nome comune rispetto alla parte difforme (sulla quale il primo non assume valore predominante); c) la netta differenziazione grafica tra i segni distintivi; d) il diverso tipo di attività svolta; e) la irrilevanza dell’uso di un dato nome di dominio INTERNET (concesso, peraltro, previa autorizzazione dell’autorità competente), posto che questo non determina una identificazione univoca con l’entità richiedente, ma costituisce un semplice codice di accesso ai servizi telematici presenti sulla rete, opportunamente ha escluso il paventato rischio di confusione fra le società contendenti.

    Va peraltro ricordato, infine, che tale "giudizio sull’accertamento della confondibilità tra segni distintivi e sulla sussistenza di atti di concorrenza sleale attiene ad un apprezzamento di merito che non è censurabile in sede di legittimità se sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici": in questo senso, da ultima, Cass. 23 settembre 1993, n. 9665, Foro it., Rep. 1994, voce Concorrenza (disciplina), n.198.

     

  3. Novella e giudizi fallimentari
  4. Torna all'indice

    GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE ALLO STATO PASSIVO EX ART. 98 L.F. e INAPPLICABILITA’ DEGLI ARTT. 166 E SEGG. C.P.C.

    Tribunale di Bari, IV sez., 27 maggio 1996, ord. - G.I. Magaletti -

     

    Sono inapplicabili, in quanto incompatibili, nel giudizio di opposizione allo stato passivo ex art. 98 L.F. i termini e le decadenze previsti dagli artt. 166 e 171 c.p.c. per il giudizio ordinario di cognizione.

     

    Rilevato che all’udienza del 22/5/96, alla quale la causa era stata rinviata per la prima comparizione delle parti, la Curatela del fallimento Rinaldi Domenico si è costituita in giudizio spiegando domanda riconvenzionale e chiedendo l’autorizzazione alla chiamata in causa di terzi; rilevato che l’opponente allo stato passivo ha eccepito la decadenza in ordine ad entrambe le richieste ai sensi dell’art. 171 c.p.c. per essersi costituita oltre il termine previsto dall’art.166 c.p.c., osserva:

    Ai sensi dell’art. 98 III co L.F. l’opponente allo stato passivo deve costituirsi almeno cinque giorni prima dell’udienza fissata dal G.D. per non incorrere nella presunzione di abbandono della domanda. Il termine sopradetto è incompatibile con i termini di costituzione delle parti previsti dalle vigenti disposizioni del codice di rito; infatti se può ritenersi la compatibilità tra il termine di cui all’art. 165 c.p.c. e quello sopraindicato (diverse essendo le conseguenze connesse alla loro violazione), non altrettanto può affermarsi per quanto attiene al termine di venti giorni dall’udienza di prima comparizione di cui all’art. 166 c.p.c. sia perché l’attore può costituirsi entro cinque giorni dall’udienza sia perché in teoria ben potrebbe non esserci un lasso di tempo di almeno venti giorni tra il termine di cui all’art. 165 c.p.c. e la data dell’udienza non essendo previsto per tale tipo di giudizio, che inizia peraltro con ricorso, seguito dal decreto di fissazione d’udienza del G.D., il rispetto dei termini di cui all’art. 163bis c.p.c. Il convenuto quindi potrebbe trovarsi nella situazione di doversi costituire in giudizio senza aver potuto esaminare la documentazione allegata dall’attore e sinanco senza sapere se l’attore si costituirà in giudizio. Orbene, poiché nel silenzio della legge l’art. 98 III° co. L.F. non può ritenersi abrogato per sopravvenuta incompatibilità con le nuove norme del codice di rito stante il carattere speciale della norma, deve ritenersi la prevalenza della normativa fallimentare, in tema di opposizione allo stato passivo, per quanto concerne la fase introduttiva del giudizio, e conseguentemente deve affermarsi l’inapplicabilità in tali giudizi delle decadenze di cui all’art. 171. Devesi pertanto ritenere ammissibile e tempestiva la richiesta di concessione del termine per la chiamata in causa formulata dalla Curatela convenuta.

    ...Omissis...

    IL COMMENTO

    di Umberto Volpe

    Non constano precedenti editi.

    In dottrina, nel senso che le disposizioni che regolano la fase introduttiva del processo ordinario di cognizione innanzi al tribunale non si applicano ai giudizi di opposizione allo stato passivo, di impugnazione e di revocazione dei crediti ammessi, di insinuazione tardiva ex art. 98, 100, 102 e 101 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, e a quelli di opposizione al provvedimento di esclusione dei crediti e di impugnazione dei crediti ammessi nella liquidazione coatta amministrativa ex art. 209, 2° e 3° comma, r.d. 16 marzo 1942 n. 267 e 87 d.leg. 1° settembre 1993 n. 385, "i quali trovano nella normativa speciale la propria disciplina, in virtù del principio per il quale, ai sensi dell’art. 15 disp. prel., la legge generale sopravvenuta, salvo espresse previsioni, non abroga, né modifica la legge speciale anteriore" v. COSTANTINO, Procedimenti introdotti con ricorso e novella del processo civile, in Foro it., 1996, V, 249; l’A., in particolare, al termine di una dettagliata analisi comparativa, sottolinea che nei giudizi sopra indicati "le parti arrivano alla udienza innanzi al giudice istruttore senza aver avuto la possibilità di svolgere compiutamente le attività previste dalla disciplina relativa alla introduzione della causa nel processo ordinario di cognizione", e, di conseguenza, "in considerazione della specialità della fase introduttiva in ciascuna delle ipotesi considerate, appare, quindi, fuor di luogo chiedersi se tali udienze coincidano con quella di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. ovvero con la prima udienza di trattazione ex art, 183 c.p.c.".

    Ancora nel senso che è la specialità della legge fallimentare il criterio guida da tenere presente nell’opera di coordinamento con la nuova disciplina processuale, sicché la fase introduttiva resta disciplinata per intero dalla legge fallimentare, sia in relazione all’atto introduttivo che ai termini di costituzione, mentre trovano applicazione le norme del codice - in quanto compatibili - per ciò che attiene alla fase di cognizione ordinaria del procedimento e, quindi, alle forme di costituzione in giudizio e alla fase successiva di trattazione, cfr. DIDONE, Processo ordinario di cognizione e fallimento, Milano, 1996, 141-142.

    Ritengono prevalente la normativa fallimentare anche STALLA, Il sistema delle riserve di collegialità nel nuovo processo civile e le sue implicazioni in materia fallimentare, in Dir. fall., 1991, I, 347; PANZANI, Fallimento e nuovo processo civile, in Fallimento, 1991, 654; PELLEGRINO, Fallimento e nuovo processo civile, Padova, 1994, 169 ss.; FERRETTI, La fase introduttiva dell’accertamento del passivo, in Il fallimento, 1994, 925; e TARZIA, Procedure concorsuali e riforma dl processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, 737 ss., il quale osserva che, affermandosi al contrario la prevalenza della novellata disciplina codicistica, si esigerebbe dal curatore convenuto "una difesa tanto difficile, quanto, eventualmente, inutile. Una difesa difficile, perché si riprodurrebbe un grave difetto della legge generale, che può qui essere evitato, e cioè quello di imporre al convenuto la costituzione, con la formulazione delle eccezioni e delle domande riconvenzionali sotto pena di decadenza, anche quando l’attore non si sia già costituito, e quindi i documenti da lui prodotti a fondamento del ricorso in opposizione non siano noti. Un’attività inutile del resto, e costosamente inutile, giacché non si vede perché la massa fallimentare debba essere onerata delle spese di difesa di fronte ad un’opposizione, che potrebbe essere caducata dalla mancata costituzione del creditore opponente almeno cinque giorni prima dell’udienza".

    Contra, per una ricostruzione del procedimento di opposizione allo stato passivo in termini compatibili con il sistema introdotto dai novellati articoli 167, 183 e 184 c.p.c., cfr. FABIANI, Prime riflessioni su alcune interferenze tra la riforma del c.p.c. e la l.fall., in Foro it., 1991, I, 2176; nel senso che si deve cercare di applicare per quanto possibile la nuova disciplina generale, tentando però di non ledere i principi e le funzionalità tutelate dalle disposizioni speciali, cfr. SANTANGELI, Procedimenti fallimentari e processo civile ordinario, Padova, 1996, 184 ss.

    Infine, nel senso che il disposto dell’art. 98, 3° comma, legge fall. trova applicazione anche in grado di appello, ancorché questo si introduca con citazione, con conseguente dimezzamento del termine ordinario di costituzione di cui all’art. 165 c.p.c., v. App. Venezia, 7 febbraio 1996, Giur. it., 1996, I, 2, 552, con nota critica di DE CRISTOFARO.

     

  5. Fattispecie peculiari

Torna all'indice

11.1) ACQUISIBILITA’ NEL PROCESSO CIVILE DI PROVE ASSUNTE NEL PROCESSO PENALE (ART. 238, COMMA 1°, C.P.P., UN PRINCIPIO DI ORDINE GENERALE?)

Tribunale di Lecce, ord. 5 luglio 1996; Giud. Gaeta; Marchese, Amico ed altri.

 

L’art. 238, comma 1°, c.p.p. introduce un principio di ordine generale in ordine alla acquisibilità in ogni processo dei verbali di prove assunte in processo penale, purché nel dibattimento o nell’incidente probatorio e salvo il diritto delle parti sancito dal comma 5° della medesima disposizione.

 

a) Gli attori devono cucire il proprio fascicolo, facendo sottoscrivere l’indice anche dal cancelliere (Cass. 1791/95; 8628/95; 10674/95).

b) L’art. 238, comma 1°, c.p.p. introduce un principio di portata generale, in ordine alla acquisibilità in ogni processo dei verbali di prove assunte in processo penale, purché nel dibattimento o nell’incidente probatorio e salvo il diritto delle parti ex art. 238, co. 5° c.p.p.

Di conseguenza, vanno acquisiti gli atti del fascicolo per il dibattimento del processo per violenza sessuale in danno della figlia minore degli attori, attualmente pendente innanzi al Tribunale per i Minori di Lecce col n. 19/95 8Amico Maik + 3).

Sarà invece eventuale compito delle parti produrre altri verbali, rimasti nel fascicolo del P.M., in quanto l’acquisizione degli stessi come prova nel presente giudizio civile potrebbe richiedere il consenso delle controparti (art. 238, co. 4° c.p.p.).

c) E’ appena il caso di osservare che, stante il principio dell’art. 10 cpv. D.P.R. 448/88, non sussistono i presupposti per la sospensione ex art. 295 c.p.c. del presente giudizio.

...omissis...

h) La citazione riguarda una serie di danni materiali e morali elencati in modo disordinato al punto 3) delle conclusioni, e qualificati in modo sintetico e onnicomprensivo, ma assolutamente immotivato, al punto 4) delle conclusioni.

Risulta quindi la genericità assoluta del petitum e della causa petendi, sicché deve provvedersi ex art. 164, co. 5° c.p.c., con notifica al convenuto contumace della memoria integrativa.

...Omissis...

 

 

11) Fattispecie peculiari

Torna all'indice

11.2) EFFICACIA PROBATORIA DELL’ESTRATTO CONTO BANCARIO IN RELAZIONE AL SUO EFFETTIVO CONTENUTO

Pretura di Bari, 30 aprile 1996 - Giud. Ruffino - Charello c. Caripuglia s.p.a.

 

L’efficacia probatoria dell’estratto conto bancario è limitata al procedimento relativo al ricorso per ingiunzione e non si estende al giudizio di opposizione né ad altro procedimento di cognizione

 

...Omissis...

Oggetto della controversia è il credito della Caripuglia S.p.A. (liquidato con l'ingiunzione opposta in £. 46.375.563, oltre interessi di mora al tasso convenzionale sulla quota capitale), derivante dal saldo negativo del conto corrente, con apertura di credito, intestato a Chiariello Michele (contratto del 27.5.1992) ed assistito dalla garanzia fideiussioria di Chiariello Giuseppe e Lamonaca Carmela (lettera del 29.12.1992).

Le posizioni contrattuali tanto dell'obbligato principale (correntista e beneficiario della linea di credito), quanto degli obbligati solidali (fideiussori) sono incontestate in causa ed emergono inoppugnabilmente dai documenti, sopra menzionati, prodotti dalla Caripuglia.

Quanto all'esistenza ed all'entità del credito, è in atti (fascicolo monitorio) un documento denominato "estratto conto", munito della certificazione di conformità alle scritture dei registri contabili nonché della dichiarazione di verità e liquidità del credito di un Dirigente della Caripuglia SpA, ai sensi dell'art. 50 decr. leg.vo 1°.9.1993 n.385, in cui sono riportati, oltre ai dati di identificazione del conto corrente, intestato a Chiariello Michele, gli importi di "capitale" (£.46.375.563) e di "interessi di mora" (£.2.458.222, contabilizzati al 31.12.1994), per un "saldo" di £.48.833.785.

Il quadro probatorio - immutato rispetto alla fase ingiuntiva, non avendo le parti richiesto né prodotto, nel presente giudizio, altri mezzi di prova - è completato dalla lettera di revoca dell' "affidamento", inviata dalla Caripuglia al correntista ed ai fideiussori, in data 26.5.1993.

Premesso che, per nota regola processuale, nel giudizio conseguente all'opposizione al decreto ingiuntivo, si ristabiliscono le posizioni sostanziali delle parti, nel senso che il creditore assume le vesti dell'attore, tenuto perciò a provare gli elementi costitutivi del diritto vantato, ed il debitore quelle del convenuto, onerato della dimostrazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi dell'altrui domanda, occorre primariamente verificare se, in base alle risultanze documentali innanzi illustrate, la pretesa creditoria in esame possa ritenersi o meno provata.

Così impostato, il problema giuridico fondamentale (e sostanzialmente assorbente) posto dalla controversia sembra concentrarsi nello stabilire se l'estratto conto formato ai sensi dell' art. 50 decr. leg.vo n.385/1993 abbia efficacia probatoria del credito vantato dalla banca non soltanto nel procedimento monitorio, ma anche nel successivo (ancorché, ovviamente, solo eventuale) processo di opposizione al decreto ingiuntivo, che - come si sa - dà vita ad un giudizio di cognizione.

La questione trova un noto antecedente in quella, analoga, sorta in relazione all'estratto del saldaconto, previsto dall'art.102 l. banc., che, per un certo tempo, ha conosciuto esiti giurisprudenziali contrastanti.

Ne è utile un sommario riepilogo, ai fini della soluzione della odierna controversia.

Ai sensi dell'art. 102 del r.d.l. 12.3.1936 n.375, con le successive modificazioni ed integrazioni (c.d. legge bancaria), la Banca d'Italia, gli Istituti di credito di diritto pubblico, le Banche di interesse nazionale e le Casse di risparmio potevano ottenere l'ingiunzione di pagamento in base all'estratto dei loro saldaconti, certificato conforme alle scritturazioni contabili da un proprio dirigente, unitamente alla dichiarazione di verità e liquidità del credito.

La norma - oggi abrogata dal t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1°.9.1993 n.385 (art. 161), che vi ha sostituito, appunto, l'art. 50 cit. - derogando al regime codicistico della prova nel procedimento ingiuntivo, ampliava (in tal senso milita chiaramente il dato letterale, concentrato nella congiunzione "anche") le facoltà degli istituti ivi menzionati, ai quali concedeva di avvalersi, oltre che della prova scritta richiesta in via generale dall'art. 634 co. 2 c.p.c. (sub specie di copia autentica delle schede originali di conto corrente, con attestazione notarile di corrispondenza al contenuto dei libri contabili dell'azienda di credito, regolarmente tenuti e vidimati: cfr. Cass., III, 12.4.1980 n.2336; ma non mancavano perplessità dottrinali sul punto, ingenerate soprattutto da motivi di carattere pratico), dello speciale documento contabile da essa indicato, al fine di ottenere il decreto monitorio.

Ciò posto sul piano normativo, il problema interpretativo principale stava nel riconoscere o meno all'estratto di saldaconto efficacia probatoria del credito della banca verso il correntista anche in un giudizio di cognizione, quale, anzitutto, quello instaurantesi con l'opposizione al decreto ingiuntivo (stesso problema si era posto per il giudizio di opposizione allo stato passivo).

La soluzione, pur non potendo che reperirsi nell'ambito del tema della formazione della prova civile in sede cognitoria (tutt'altro che "sedimentato") e dell'applicazione delle regole che vi presiedono (tutt'altro che uniforme ed univoca), aveva nettamente diviso la giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità.

Almeno sotto un profilo "quantitativo", sembrava prevalente ed in via di consolidamento la soluzione positiva, secondo la quale "nei rapporti di conto corrente bancario l'estratto di saldaconto ha efficacia probatoria, anche nei confronti del correntista, fino a prova contraria, non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo (...), ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso, ed in ogni altro procedimento di cognizione" (Cass., III, 1°.8.1987 n.6656; nello stesso senso: Cass. 4.11.1992 n.11948 e 5.1.1981 n.23; App. Napoli, 21.5.1991, App. Milano 11.10.1991; Trib. Saluzzo 29.1.1994, Trib. Milano 16.9.1991 e 5.11.1990, Trib. Napoli 15.6.1990, Trib. Cagliari 4.7.1989; e molte altre).

E' stata, però, l'opposta soluzione (già divisata, per esempio, da Cass. 10.8.1990 n.8128 e 29.1.1982 n.575) a ricevere l'ultimo e più autorevole avallo giurisprudenziale, con la recente Cass., ss. uu., 18.7.1994 n.6707, in cui, a sigillo di un iter logico-giuridico assolutamente solido e convincente, si afferma che l'efficacia probatoria dell'estratto di saldaconto di cui all'art. 102 legge bancaria è limitata al procedimento relativo al ricorso per ingiunzione e non si estende ad alcun procedimento di cognizione.

Osserva in particolare la Suprema Corte che, esclusa la possibilità di assimilare sul piano sia sostanziale, sia processuale (efficacia probatoria) l'estratto di saldaconto, da un lato, all'estratto conto, e, dall'altro, alle scritture di cui all'art. 634 co. 2 c.p.c. (pure soggette, peraltro, ad esaurire la propria valenza probatoria nella fase ingiuntiva), il problema va risolto alla stregua della disciplina generale della prova e, quindi, del principio, vigente anche in tema di contabilità di impresa (art.2709 c.c.), secondo cui il documento redatto o la dichiarazione resa da uno dei contendenti può costituire prova soltanto contro di lui e non a suo vantaggio, salve le eccezioni previste dalla legge, fra le quali non si annovera l'estratto di saldaconto.

Più che per aver segnato il punto di arrivo della travagliata vicenda interpretativa inerente l'estratto di saldaconto, peraltro fatalmente destinata a scomparire dalla prassi giudiziaria per via della ricordata abrogazione dell'art. 102 l. banc., la pronuncia delle Sezioni unite merita particolare risalto nel quadro della vicenda "affine" dell'efficacia probatoria dell'estratto conto nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, alla cui definizione offre solidi ancoraggi argomentativi.

Innanzitutto, la premessa teorica deve restare immutata, nel senso che, attenendo l'art. 50 decr. leg.vo n.385/1993 alla prova scritta che le banche possono dare per ottenere il decreto ingiuntivo previsto dall'art. 633 c.p.c. (estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido), la prova del credito nella (eventualmente successiva) sede cognitiva non può che formarsi secondo le normali regole sostanziali e processuali e, quindi, primariamente, in osservanza di quella, generale e negativa, che esclude la valenza probatoria di documenti o dichiarazioni a vantaggio della parte che li ha formati o le ha rese (non vi è dubbio che l'estratto di un conto corrente bancario venga formato dall'istituto che agisce per il credito da esso portato): le diverse disposizioni di legge devono ritenersi eccezionali e, perciò, inapplicabili analogicamente o estensivamente (art. 14 prel.).

Sennonché, raccogliendo l' obiter dictum del Supremo Collegio, l'ostacolo testé indicato può superarsi avendo riguardo alla disciplina codicistica del contratto di conto corrente e segnalando, nell'art. 1832 co. 1 c.c., il "ponte" che consente al documento contemplato dalla nuova disposizione speciale sui decreti ingiuntivi chiesti dalle banche (l'estratto conto) di passare dal procedimento ex artt. 633 ss. c.p.c. al giudizio di cognizione successivo senza perdere l'efficacia probatoria del credito, attraverso il meccanismo dell'approvazione del correntista, anche soltanto "tacita", per mancata o intempestiva contestazione.

In definitiva, può dirsi, rispondendo al quesito iniziale, che l'estratto conto, che, formato nei modi di cui all'art. 50 decr. leg.vo 1°.9.1993 n.385, consente a tutte le banche di agire per l'ingiunzione di pagamento ex art. 633 c.p.c., può valere come prova del credito (cioè, può far ritenere assolto l'onere probatorio principale, incombente sul creditore opposto) anche nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, laddove esso sia o debba intendersi approvato dal correntista destinatario, ai sensi dell'art. 1832 co. 1 c.c..

Tralasciando, per difetto di rilevanza nel caso di specie, le questioni relative sia al contenuto della contestazione, sia agli effetti sostanziali e processuali dell'approvazione per il correntista cui essa è riferita, è evidente la condizione di operatività della prospettata soluzione.

Premesso il carattere di eccezionalità della norma codicistica sull'estratto conto, rispetto alle ricordate regole generali sulla prova documentale, e, dunque, la necessaria applicazione rigorosa, ossia non oltre i casi da essa previsti, occorre che l'azione della banca sia basata proprio su un estratto conto, e non su qualunque altro documento contabile, che, senza avere forma e contenuti tipici dell'estratto conto, venga impropriamente definito come tale dall'interessata.

L'estratto conto (e, in particolare, quello di un conto corrente bancario) si caratterizza, infatti, come prospetto contabile in cui sono annotate tutte le operazioni effettuate sino ad una certa data, la loro successione cronologica, la natura e le causali (anche per sintesi, per sigle o espressioni convenzionali, purché comprensibili, conosciute o conoscibili dal destinatario), la valuta, gli interessi maturati e, quindi (ma solo conclusivamente) il saldo attivo o passivo (sulla definizione dei contenuti dell'estratto conto, cfr. Cass. n.2336/1980, nonché, in motivazione, la citata Cass., ss.uu., n.6707/1994).

Diversamente, l'estratto perderebbe quell'intrinseco carattere funzionale (controllo dell'esattezza delle annotazioni) costituente il supporto logico della norma che sancisce il valore di prova delle sue risultanze in caso di mancata contestazione del correntista al quale viene trasmesso.

In altre parole, in tanto può giustificarsi, in deroga ai generali principi sulla prova documentale civile, l'efficacia probatoria dell'estratto conto, in quanto il documento portato a conoscenza del correntista abbia i contenuti contabili sopra indicati, che sono quelli necessari e sufficienti a consentire una verifica effettiva del risultato finale (saldo a credito o a debito) da esso portato.

In senso sostanzialmente confermativo può leggersi, del resto, la giurisprudenza che ammette gli effetti probatori anche di documenti diversi, quali la copia della scheda del conto, purché "equipollenti" dell'estratto conto, ossia obiettivamente riproducenti tutti gli elementi propri di quest'ultimo (come innanzi specificati), ed intellegibili per il destinatario secondo un criterio di media cultura ed esperienza (Cass. n.2249/1985).

Nel caso di specie, non pare che il documento contabile versato in atti dalla Caripuglia, ancorché recante il nomen di "estratto conto" (peraltro inserito nel corpo della dichiarazione di "conformità" ex art. 50 cit., stampigliata in calce al documento), possa ritenersi tale ai fini della prova dell'an e del quantum del credito.

Esso, come già evidenziato, riporta esclusivamente il "saldo" (di cui, comunque, neppure è specificata la natura, a credito o a debito del correntista), con le due voci di "capitale" ed "interessi" che lo compongono.

In assenza, però, di qualsivoglia annotazione relativa alle operazioni determinanti l'ammontare della quota capitale e, conseguentemente, il calcolo degli interessi, il documento in questione, inibendo al correntista ed ai fideiussori coobbligati la verifica puntuale ed analitica dell'avversa pretesa creditoria, non può avere natura di estratto conto (rilievo in base al quale doveva essere negata già l'ingiunzione di pagamento) e, quindi, non può produrre nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo gli effetti probatori di cui all'art. 1832 co. 1 c.c..

Esclusi questi ultimi e negato, sulla scorta dei principi disciplinanti la prova civile nonché della citata sentenza delle Sezioni unite, che, in sede di cognizione, possa riconoscersi valore di prova del saldo di un conto corrente ad un documento, proveniente dalla stessa parte creditrice, sostanzialmente diverso dall'estratto conto, la domanda della Caripuglia risulta infondata, senza che abbia rilievo il contenuto, generico o specifico, delle contestazioni sollevate dagli opponenti.

Ne deriva la revoca del decreto ingiuntivo opposto.

...Omissis...

 

 

11) Fattispecie peculiari

Torna all'indice

11.3) AFFITTO D’AZIENDA, CESSIONE DI CANONI FUTURI, CESSIONE SUCCESSIVA D’AZIENDA E TUTELA D’URGENZA EX ART. 700 C.P.C.

Tribunale di Bari, sez. II, ord. 23 ottobre 1996; Collegio; Case di Cura Riunite e Oncohospital S.r.l. c. Ospedale Oncologico - I.R.C.C.S., Isveimer s.p.a., Caripuglia S.p.A., Sud Factoring S.p.A.

 

Nell’ipotesi di cessione del credito relativo ai canoni futuri derivanti da contratto d’affitto di azienda e successiva cessione dell’azienda medesima, va rigettato il ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. proposto dal fallimento del cedente al fine di ottenere una condanna in futuro in relazione a detti canoni.

 

Con ricorso proposto, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., nel corso della causa iscritta sotto il n. 1127/96 R.G.A.C., e depositato il 28 giugno 1996, l’Amministrazione Straordinaria de "CASE DI CURA RIUNITE" S.r.l. e de "ONCOHOSPITAL" S.r.l. - quest’ultima intervenuta nel giudizio di merito iscritto sotto il n. 1127/96 R.G.A.C. con atto d’intervento del 21/6/96 - chiedevano che il G.I. ordinasse all’OSPEDALE ONCOLOGICO - Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico - il pagamento, direttamente ed esclusivamente nei confronti della ONCOHOSPITAL, il pagamento dei canoni di locazione, alla data del ricorso dovuti, e di quelli debendi dall’OSPEDALE ONCOLOGICO per l’utilizzo della Clinica "MATER DEI", canoni di cui era originariamente creditrice la S.r.l. "CASE DI CURA RIUNITE", ma che erano stati da questa ceduti all’ISVEIMER, alla CASSA DI RISPARMIO DI PUGLIA ed alla SUD FACTORING.

In prosieguo di tempo, il ramo di azienda relativo all’attività di gestione della Clinica MATER DEI, era stata ceduto, dalla S.r.l. CASE DI CURA RIUNITE, all’ONCOHOSPITAL S.r.l., sicché la tutela cautelare veniva invocata esclusivamente a favore della cessionaria del ramo di azienda.

Esponevano le ricorrenti in via d’urgenza quanto appresso.

Con convenzione del 30/4/90, la S.r.l. CASE DI CURA RIUNITE, aveva concesso in affitto all’OSPEDALE ONCOLOGICO, la struttura sanitaria denominata MATER DEI, con le relative attrezzature ed il relativo personale medico e paramedico.

Con atto pubblico del 26/11/92, l’ISVEIMER, aveva concesso alla CASE DI CURA RIUNITE S.r.l. (che, per brevità, d’ora innanzi si indicherà come CCR), un finanziamento di 225 miliardi di eurolire, da versarsi in due soluzioni, di cui l’ultima - pari a 75 miliardi - condizionata alla cessione "a garanzia" , da parte della CCR, del credito vantato nei confronti dell’OSPEDALE ONCOLOGICO per l’affitto della struttura ospedaliera.

Con atto pubblico del 18/2/93, la CCR cedeva - pro solvendo - all’ISVEIMER, a scopo di garanzia, tutti i crediti - anche futuri - vantati nei confronti dell’OSPEDALE ONCOLOGICO e, nell’atto notarile, interveniva anche la CASSA DI RISPARMIO DI PUGLIA, già cessionaria di una quota - parte dei canoni d’affitto in esame, la quale prestava il proprio consenso alla postergazione della cessione in suo favore, rispetto a quella effettuata in favore dell’ISVEIMER e, contestualmente, si rendeva cessionaria dell’ulteriore importo di £ 1.000.000.000, su ciascun canone mensile per il periodo aprile - dicembre 1993, "a garanzia" di una fideiussione, concessa dal predetto istituto di credito (che d’ora innanzi, per brevità, si indicherà come CARIPUGLIA) all’ISVEIMER e nell’interesse di CCR.

Quest’ultima - nel medesimo atto - si impegnava ad ottenere dalla SUD FACTORING S.P.A. - altra precedente cessionaria pro - quota dei medesimi canoni di affitto - dichiarazione di riconoscimento della prevalenza della cessione in favore dell’ISVEIMER, rispetto a quella precedente, concessa ad essa SUD FACTORING, con scrittura del 24/1/92.

Con atti in date 8 e 18/2/94, CCR cedeva l’intero complesso aziendale denominato MATER DEI in favore della ONCOHOSPITAL S.r.l., che subentrava nella convenzione stipulata con l’OSPEDALE ONCOLOGICO.

L’ISVEIMER, informata debitamente dell’avvenuta cessione di azienda, in data 7/11/94, dichiarava di non aderire alla cessione d’azienda, riconoscendo come cedente dei crediti solo CCR.

L’OSPEDALE ONCOLOGICO, dal canto suo, aveva sempre corrisposto e continuava a corrispondere i canoni mensili (pari a £ 5.341.099.390, oltre IVA) mediante accredito su un c/c della CARIPUGLIA, intestato all’ISVEIMER; detti istituti, dopo aver trattenuto per sé e per la SUD FACTORING circa la metà dei canoni, rimettevano a CCR il residuo.

Le decurtazioni effettuate da ISVEIMER, CARIPUGLIA e SUD FACTORING, erano da ritenere illegittime, in quanto effettuate in costanza di procedura concorsuale, per crediti sorti anteriormente all’apertura della procedura di cui alla c.d. legge Prodi (legge 3/4/79, n. 95), in violazione del principio della "par condicio creditorum".

Invero, secondo le ricorrenti, i canoni di affitto, benché ceduti, erano ancora nella disponibilità di CCR, trattandosi di canoni a maturarsi e, quindi, futuri, i quali si acquistano solo al momento della loro venuta ad esistenza. Pertanto, nel momento in cui il credito viene ad esistenza, esso entra nel patrimonio del cedente, per essere immediatamente trasferito in capo al cessionario, in virtù del contratto di cessione, avente efficacia meramente obbligatoria.

Ai sensi degli artt. 1605, 2918 e 2924 c.c., occorreva - secondo le ricorrenti - aver riguardo, per l’opponibilità della cessione ai terzi, alla trascrizione dell’atto di cessione, sicché, mancando nella specie detta formalità, la cessione in esame era inopponibile ad esse ricorrenti.

Pertanto, ritenendone sussistenti presupposti, le ricorrenti chiedevano al G.I. un provvedimento che, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ordinasse all’OSPEDALE ONCOLOGICO di pagare i canoni direttamente ed esclusivamente nei confronti della S.r.l. ONCOHOSPITAL s.r.l., in Amministrazione Straordinaria.

In particolare, il "periculum in mora" era costituito dal fatto che l’Amministrazione Straordinaria versava in gravi difficoltà finanziarie e, per di più, in base al contratto concluso con l’OSPEDALE ONCOLOGICO, una serie rilevantissima di oneri (gestione e pagamento dei dipendenti, anche medici e paramedici, scorte alimentari, vitto ai degenti, servizi di lavanderia e biancheria ecc.) era posta a carico dell’Amministrazione Straordinaria.

Il G.I. disponeva la comparizione delle parti.

All’udienza fissata tutte le parti resistenti depositavano memorie (eccezion fatta per l’ISTITUTO ONCOLOGICO) e chiedevano tutte il rigetto dell’istanza cautelare. Il G.I., all’esito dell’udienza, emanava l’ordinanza depositata il 20/7/96, con cui rigettava la domanda cautelare.

In data 31/7/96, l’Amministrazione Straordinaria della CCR e di ONCOHOSPITAL proponeva reclamo avverso l’ordinanza del G.I., insistendo per la riforma della stessa e la concessione del provvedimento d’urgenza in favore di CCR o di ONCOHOSPITAL.

Tutte le altre parti (compreso l’OSPEDALE ONCOLOGICO) depositavano memorie nella fase del reclamo ed il Collegio, all’esito dell’udienza camerale del 2/10/96, si riservava la decisione del reclamo.

- IN DIRITTO -

Il reclamo è infondato e merita, pertanto, integrale rigetto.

Ritiene il Collegio che, ai fini della decisione dell’impugnazione qui proposta, occorre prendere le mosse dall’ordinanza del G.I. censurata dalle reclamanti.

Detto provvedimento - che si segnala per l’estrema acutezza e completezza delle varie argomentazioni che lo sostengono (come riconosciuto, anche in sede di discussione orale, da tutte le parti in causa) - ha ritenuto inopponibile all’Amministrazione Straordinaria della ONCOHOSPITAL la cessione, ai sensi dell’art. 2918 c.c., ma solo a partire dal primo anno successivo alla data del 7/3/96, nella quale è stata aperta la procedura concorsuale ex lege n. 95/79 in riferimento alla predetta società, cessionaria del ramo di azienda e, dato che detto termine spirerà il 7/3/97, la cautela non è stata concessa, non essendo stata ritenuta ammissibile una condanna in futuro, azionata ai sensi dell’art. 700 c.p.c.

In rito va subito detto che, così come eccepito da alcune delle parti resistenti (ISVEIMER E CARIPUGLIA), ove venisse da questo Collegio riformata l’ordinanza del G.I., non potrebbe mai concedersi la cautela a favore di CCR, perché essa è stata richiesta solo a favore della cessionaria dell’azienda, sicché, nel reclamo, si è inammissibilmente chiesta - sia pure in via alternativa - la condanna in favore di CCR.

Indipendentemente dall’opzione dogmatica cui si voglia aderire in ordine alla natura del reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. (vera e propria impugnazione, ovvero "revisio prioris istantiae"), il reclamo contiene una nuova domanda che è inammissibile.

Il punto nodale della controversia cautelare, attiene alla natura dell’atto di cessione dei crediti ed al suo perfezionamento, perché la risoluzione dei vari conflitti esistenti tra le parti in causa, passa necessariamente attraverso l’esame attento dell’istituto della cessione dei crediti.

E’ assolutamente condiviso dal Collegio il rilievo per cui, con riguardo ai canoni non ancora scaduti, si sia in presenza di una cessione di crediti futuri, ai sensi degli artt. 820, 1260 e 1348 c.c., perfettamente ammissibile (Cass. Sent. 5/6/78, n. 2798); anzi, si è ritenuta ammissibile anche la cessione del semplice credito sperato (Cass. Sent. n. 4040/90).

E’ altresì pacifico che, nella cessione di credito futuro, l’effetto traslativo a favore del cessionario si produce solo nel momento in cui il credito viene ad esistenza (Cass. 10/1/66, n. 184; Cass. 10/5/66, n. 1209; Cass. Sent. n. 2746/72; Cass. 24/10/75, n. 3519; Cass. Sent. n. 3421/77; Cass. Sent. n. 2798/78; Trib. Ancona, 22/2/80, in Giur. Comm., 1981, II, 129; Trib. Foggia, 5/10/81, in Dir. Fall., 1982, II, 509; Trib. Napoli, 26/9/84, in "Il Fallimento", fasc. n. 5/1985, pag. 537 e ss.).

Recentissimamente, è ancora intervenuta la S.C. stabilendo che, nel caso di cessione di credito futuro, il trasferimento del credito dal cedente al cessionario, si verifica soltanto nel momento in cui il credito viene ad esistenza; prima di allora il contratto, pur essendo perfetto, esplica efficacia meramente obbligatoria (Cass. Sez. I, 17/3/95, n. 3099).

Né rileva, ai fini che qui interessano, la circostanza che la cessione sia avvenuta a scopo di garanzia, atteso che, anche in tal caso, il trasferimento del diritto è immediato (Cass. Sent. 16/5/63, n. 1244; App. Milano, 31/10/89, in Giust. Civ. 1990, I, 463; Cass. Sez. I, 19/1/95, n. 575).

Ovviamente il trasferimento immediato di cui alle predette pronunce riguarda il caso della cessione di crediti presenti e, quindi, rimane immutato il principio proprio della cessione di crediti futuri.

E’, infatti, ammissibile la cessione, a scopo di garanzia, di crediti futuri (arg. ex App. Palermo, 8/3/91, in Giur. Comm., 1992, II, 471; Cass. Sent. 11/5/90, n. 4040 cit.).

Il provvedimento reclamato, pur avendo dato ampiamente conto di detto indirizzo, dopo avere approfonditamente affrontato l’esegesi degli artt. 2918 e 1605 c.c. rispettivamente in tema di opponibilità delle cessioni di fitti e pigioni al creditore pignorante ed al terzo acquirente della cosa locata, ha motivatamente dissentito da quell’orientamento giurisprudenziale per il quale, ove il fallimento intervenga prima della venuta ad esistenza del credito futuro ceduto, poiché il trasferimento del credito è avvenuto dopo la dichiarazione di fallimento, il curatore fallimentare subentra nella titolarità di tutti i rapporti patrimoniale facenti capo al fallito, ai sensi dell’art. 42, 2° comma, della legge fallimentare. Detta norma sancisce il principio per il quale sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento medesimo.

Il G.I. ha ritenuto detto orientamento non condivisibile, in quanto confonde il piano dell’esistenza del diritto con quello dell’atto di disposizione del medesimo.

Si evidenzia nell’ordinanza impugnata, che il cedente ha già validamente disposto del diritto con l’avvenuta cessione e la venuta ad esistenza del diritto (futuro) ceduto nel patrimonio del cedente è solo un presupposto del compimento dell’effetto traslativo; non entra, quindi, in gioco l’art. 42 della legge fallimentare, perché il cedente ha già disposto del diritto prima della apertura della procedura concorsuale, tant’è che il cessionario, in astratto, può validamente disporre del diritto futuro già cedutogli, anche prima che lo stesso sia venuto ad esistenza.

In buona sostanza, dice il G.I., il diritto di credito ceduto, al momento della sua nascita non transita nel patrimonio del cedente, perchè la distinzione tra l’acquisto del cessionario e quello del cedente è di carattere meramente logico, solo al fine di chiarire che l’acquisto del cessionario è subordinato a quello del cedente, in forza del noto brocardo "nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet".

Infatti, il debitore ceduto, avuta conoscenza della cessione nei modi di legge (attraverso la notifica, accettazione o comunque qualunque altro atto equipollente), è obbligato solo verso il cessionario e si libera dall’obbligazione soltanto pagando a questi.

Infine (sul punto), il G.I. argomenta - a contrario ex art. 7 legge 21/2/91, n. 52 sul factoring - che la cessione di crediti futuri non ancora esistenti alla data del fallimento, sono allo stesso opponibile, perché non si capirebbe - diversamente opinando - la ragione per cui - sia pure a certe condizioni - nel factoring è ammesso il recesso del curatore dalle cessioni stipulate dal cedente.

La questione può, semplificativamente, ridursi a ciò:

Quando il credito futuro ceduto diviene attuale, transita o no nel patrimonio del cedente?

Solo se al quesito si desse risposta positiva, l’art. 42, 2° comma L.F. consentirebbe di rendere inopponibile alla massa la cessione, perché il bene futuro è pervenuto al fallimento dopo la sua apertura (spesso, nel presente provvedimento, si troveranno riferimenti al fallimento o al fallito, ma gli stessi riguardano, in realtà, l’amministrazione straordinaria ex lege n. 95/79, stante l’assoluta identità delle problematiche che qui interessano).

Sembra al Collegio che, posto che il cedente ha validamente disposto del diritto di credito quando era "in bonis", sia una vera "fictio iuris", quella di ritenere che il credito, quando nasce (superando la fase di "futurità"), transiti nel patrimonio del cedente, ma solo per un istante, per poi definitivamente entrare nel patrimonio del cessionario, salvo il diritto del curatore di far valere l’inopponibilità alla massa della cessione, ritenendo che l’art. 42, 2° comma abbia "folgorato" il diritto ceduto, una volta divenuto attuale, nel medesimo istante in cui è "passato" nel patrimonio del cedente.

La evidente forzatura di questa costruzione sta nel fatto essa collide - insanabilmente - col dato obbiettivo che il cedente ha validamente disposto del suo diritto, quando era "in bonis", sicché l’atto dispositivo (opponibile anche al ceduto a seguito della notifica) produce i suoi effetti direttamente in capo al cessionario, il quale - medio tempore e dopo la cessione - ben potrebbe validamente cedere, a sua volta, a terzi il credito futuro.

Non si vede la ragione perché una situazione soggettiva attiva, della quale il titolare si sia legittimamente spogliato, debba ritornare solo idealmente nel suo patrimonio prima di entrare in quello del soggetto beneficiario dell’atto dispositivo, sol perché il diritto ceduto era futuro.

L’art. 42 L.F. disciplina gli effetti dell’incapacità giuridica del fallito rispetto ai beni presenti alla data dell’apertura della procedura ed a quelli pervenutigli successivamente, ma non può applicarsi all’ipotesi in cui l’atto dispositivo del bene futuro sia stato compiuto da un soggetto capace di obbligarsi.

Non è, quindi, condivisibile il rilievo delle reclamanti, secondo cui il G.I. non avrebbe fatto buon governo dei principi di diritto concorsuale.

Deve rimarcarsi che, sul punto specifico, si rinvengono due pronunce (Trib. Ancona, 22/2/80 cit. e Cass. Sent. 22/1/93, n. 11516), le quali sanciscono il principio dell’inopponibilità al fallimento della cessione di credito futuro.

In realtà la pronuncia di legittimità è giunta ad affermare tale principio perché, nella specie decisa, si trattava di appalto di opera pubblica, non ancora collaudata con conseguente illiquidità del credito ceduto.

Inoltre, la sentenza di merito sottoposta all’esame della S.C., non era stata impugnata sul punto, sicché la Corte di legittimità non si è affatto pronunciata a riguardo.

La sentenza del Tribunale di Ancona, poi, riguarda anch’essa una fattispecie di cessione di crediti derivanti da un contratto di appalto, con notifica della cessione al debitore ceduto P.A., dopo la dichiarazione di fallimento del cedente, nella quale l’inopponibilità alla massa deriva dall’art. 2914, n. 2 c.c. (applicabile anche in tema di fallimento, inteso come "pignoramento generale" - Cass. n. 3657/84 - ), che dispone l’inefficacia rispetto al creditore pignorante (cui è parificata la massa dei creditori) delle cessioni dei crediti notificate dopo il pignoramento (cui è parificata la sentenza di fallimento).

Ne deriva, quindi, che dette pronunce non sono applicabili al caso di specie.

Va, inoltre, detto che la più accorta dottrina (che l’art. 118 disp. att. c.p.c. vieta di citare) ritiene che, nell’ipotesi di cessione di credito futuro, al momento della venuta ad esistenza del diritto stesso, si avrà l’immediato trasferimento della situazione soggettiva dal cedente al cessionario e la cessione produrrà immediatamente l’effetto traslativo della situazione preliminare (esistente quando il diritto non è ancora sorto) e l’acquisto del diritto di credito avverrà direttamente nella sfera giuridica del cessionario, appena si sarà verificato il fatto che condizionava il venire ad esistenza del diritto stesso.

La dottrina ha evidenziato che un meccanismo analogo a quello della cessione volontaria dei crediti, si attua anche in tema di assegnazione giudiziale di crediti, disciplinata dagli artt. 553 c.p.c. e 2928 c.c.

Nella cessione volontaria figurano tre soggetti: il cedente, il cessionario ed il ceduto; nell’assegnazione dei crediti vi sono sempre tre soggetti: il debitore espropriato assegnante, il terzo pignorato e l’assegnatario.

Possono, al riguardo, istituirsi i seguenti parallelismi:

- il debitore assegnante è equiparato al cedente, l’assegnatario al cessionario ed il terzo pignorato al debitore ceduto.

Si è discusso a lungo sul tipo di cessione che, con l’espropriazione dei crediti presso terzi, si attua.

La lettera dell’art. 553 c.p.c. farebbe propendere per una duplicità di effetti.

Il primo comma di tale articolo (che riguarda il pignoramento di somme immediatamente esigibili, ovvero esigibili nei 90 giorni) attuerebbe una cessione "pro solvendo", per la presenza dell’ inciso "salvo esazione".

Il secondo comma, invece, (che riguarda somme esigibili in termine maggiore di 90 giorni, censi o rendite) attuerebbe una cessione "pro soluto", mancando ogni riferimento all’effettiva esazione del credito.

Si è fatto - giustamente - osservare che la norma va letta coordinandola con l’art. 2928 c.c., il quale non opera alcuna distinzione in ordine ai termini di esigibilità del credito e configura la cessione, come trasferimento "pro solvendo", atteso che stabilisce che il diritto dell’assegnatario verso il debitore che ha subìto l’espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato.

Secondo la migliore dottrina, la natura giuridica dell’assegnazione dei crediti consiste in una particolare figura di cessione coattiva del rapporto obbligatorio pignorato, la cui titolarità attiva passa dal debitore espropriato assegnante al creditore assegnatario.

L’art. 553, 2° comma c.p.c., prevede anche l’assegnazione di crediti futuri quando richiama le rendite perpetue, che - ai sensi dell’art. 820, 3° comma c.c. - sono beni futuri, equiparati espressamente proprio al corrispettivo delle locazioni, oggetto della controversia in esame.

L’ordinamento conosce, altresì, un’altra ipotesi di assegnazione giudiziale di credito futuro, disciplinato dal D.P.R. 5/1/50, n. 180 sul pignoramento degli stipendi, salari e pensioni dei pubblici impiegati e, all’art. 545 c.p.c. , prevede espressamente - pur fissando limiti quantitativi alla pignorabilità - l’assegnazione giudiziale di stipendi e salari di cui sono creditori i privati.

In tutte queste ipotesi, non vi è alcun dubbio che, quando il credito futuro viene ad esistenza, esso viene immediatamente trasferito nel patrimonio dell’assegnatario, senza transitare in quello del debitore esecutato assegnante.

Né può seriamente obiettarsi che qui la vicenda è diversa, trattandosi di trasferimento coattivo del credito, perché l’ordine giudiziale di assegnazione (cui può equipararsi l’atto dispositivo nella cessione volontaria), anche in detti casi, è emesso quando il credito non esiste ancora nel patrimonio dell’assegnante, sicché, quando il credito si attualizza, si pone ugualmente il problema del transito nel patrimonio del debitore esecutato.

La riprova di ciò è data dal fatto che si ritiene, dalla giurisprudenza (Trib. Bari, 30/1/95, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 1995, II, 345; Cass. Sent. n. 8966/95; Trib. Pavia, 15/3/91, in Giust. Civ., 1991, I, 2460) soggetta alla revocatoria fallimentare, ove ne ricorrano i presupposti, anche l’assegnazione dei crediti, quando fallisca l’assegnante (cui, come s’è visto, può equipararsi il cedente); è, comunque, certo che, anche nell’assegnazione "pro solvendo", il credito passa direttamente dall’assegnante all’assegnato.

Il tema della revocabilità ex art. 67 L.F. è stato toccato nell’atto introduttivo della causa di merito dall’amministrazione attrice nell’esclusivo interesse di CCR.

ONCOHOSPITAL, ha depositato comparsa di intervento nella quale ha richiamato anch’essa l’art. 67 della legge fallimentare.

Invece, nel ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto da entrambe le società in amministrazione controllata, il tema è stato completamente tralasciato e si è insistito molto sull’applicabilità degli artt. 42 e 45 della legge fallimentare e degli artt. 1605, 2918 e 2924 c.c.

Anche il ricorso depositato il 31/7/96, contenente il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c., non richiama affatto il punto di domanda (o meglio, la domanda subordinata di cui all’atto di citazione ed alla comparsa di intervento di ONCOHOSPITAL) concernente la revocatoria fallimentare.

Né, in tutti gli atti di causa, vi è alcun riferimento all’indefettibile presupposto della "scientia decoctionis".

Non a caso, infatti, il G.I., nel provvedimento reclamato, nulla ha detto in ordine all’art. 67 L.F., perché nient’affatto compreso nella "causa petendi" della domanda cautelare.

Non v’è dubbio che, pur essendovi un esplicito richiamo nell’atto di citazione e nella comparsa di intervento di ONCOHOSPITAL al tema della revocatoria fallimentare, esso non può formare oggetto di esame da parte di questo Collegio, in quanto non più ripetuto e riprodotto nel ricorso ex art. 700 c.p.c.

La circostanza che l’oggetto della domanda cautelare sia ricompreso nelle più ampie domande di merito, non esclude che il principio di cui all’art. 112 c.p.c. sulla corrispondenza tra chiesto e pronunciato - valevole sia per il petitum" che per la "causa petendi" - debba essere rigorosamente rispettato anche in materia cautelare, sia nella fase di prime cure, che in quella di reclamo (sull’immutabilità in appello della "causa petendi" cfr. Cass. Sent. n. 1309/79), come ritiene pacificamente la dottrina.

Invero, incorre nel vizio di extrapetizione il giudice che introduca nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass. 29/1/90, n. 532).

I più recenti studi sui procedimenti ex art. 737 c.p.c. (espressamente richiamato dall’art. 669 terdecies c.p.c.) hanno posto in evidenza che anche in tale materia trova applicazione l’art. 112 c.p.c. e che al giudice del reclamo è attribuito il potere - dovere di decidere identico nella sua estensione a quello del giudice di primo grado.

In ogni caso, poiché nel reclamo non è rinvenibile alcuna doglianza in ordine alla applicazione dell’art. 67 L.F., questo Collegio non può occuparsi del relativo tema.

Va, a tal proposito, evidenziato che recentissimamente sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, risolvendo un conflitto tra sezioni semplici, con sentenza 13/6/96, n. 5443, ha stabilito la natura costitutiva della sentenza dichiarativa di fallimento, perché il diritto di credito a favore della procedura sorge solo per effetto della sentenza, posto che l’atto impugnato nasce come efficace e diviene inefficace solo a seguito della verifica delle condizioni di cui all’art. 67 L.F.

E’ noto, inoltre, che parte della dottrina e della giurisprudenza negano l’applicabilità della procedura ex art. 700 c.p.c., quando la domanda di merito ha carattere costitutivo, difettando, durante lo svolgimento del processo, la minaccia ad un diritto che viene a giuridica esistenza solo con la sentenza definitiva.

Mette conto, però, di evidenziare che dottrina e giurisprudenza dominanti, ammettono la tutela cautelare anche per le azioni costitutive.

Le reclamanti ipotizzano due diversi tipi di conflitti alternativi ed escludentisi a vicenda:

- quello tra i cessionari dei crediti e CCR; - quello tra ONCOHOSPITAL - cessionaria dell’azienda - ed i cessionari medesimi.

Va subito detto che - per il profilo processuale sopra evidenziato - la cautela è astrattamente concedibile solo a favore di ONCOHOSPITAL, sicché il conflitto da dirimere è quello esistente tra i cessionari dei crediti e la cessionaria del ramo di azienda.

Inoltre, a prescindere da tale aspetto in rito, l’art. 2558 c. c. stabilisce che l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa, che non abbiano carattere personale.

La cessione dei crediti non ha certamente carattere personale e costituisce senz’altro un contratto cui è applicabile l’art. 2558 c.c.

La cessione di crediti, infatti, è un contratto che interviene fra cedente e cessionario ed al quale il debitore ceduto è estraneo e la notifica e l’accettazione servono solo a rendere opponibile il negozio al ceduto, ove egli non abbia partecipato allo stesso.

Le reclamanti assumono che, ai sensi dell’art. 1605 c.c., detto secondo conflitto è facilmente risolubile, perché la norma stabilisce che la cessione dei canoni di locazione non trascritta è opponibile al terzo acquirente della cosa locata solo entro i limiti di un triennio e, poiché la cessione del credito risale al 18 febbraio 1993, essa ha terminato di essere opponibile alla S.r.l. ONCOHOSPITAL dal 18/2/96; conseguentemente, a far data dal 19/2/96, i canoni ceduti maturati e maturandi spetterebbero alla cessionaria del ramo di azienda.

Il G.I. ha esaurientemente affrontato il tema, evidenziando che l’articolo in parola (applicabile anche in tema di affitto di azienda) disciplina il conflitto tra il cessionario dei canoni non ancora scaduti ed il terzo acquirente della cosa locata, attraverso il rimedio dell’opponibilità a determinate condizioni.

Nella specie in esame, invece, occorre dirimere il diverso conflitto tra i cessionari dei canoni non ancora scaduti e fallimento.

Tale rilievo è esatto e nel reclamo non viene addotto alcun argomento che valga a contrastare l’esatto ed acuto argomentare del G.I.

Pertanto non è affatto fondata la tesi secondo cui l’art. 1605 c.c. serva a dirimere il conflitto tra i cessionari dei canoni ed ONCOHOSPITAL.

Considerare quest’ultima quale acquirente ex art. 1605 c.c. non è risolutivo, perché il vero conflitto riguarda l’ONCOHOSPITAL, riguardato come ente societario sottoposto alla procedura dell’amministrazione straordinaria, e cessionari dei crediti.

L’art. 1605 cit. regola i rapporti per così dire fisiologici, nel caso di cessione dei fitti, tra cedente di pigioni e fitti non ancora scaduti, cessionario degli stessi e terzo acquirente della cosa locata, mentre è chiaro che tale disciplina non può regolare il diverso conflitto che sorge a seguito del fallimento (o comunque dell’assoggettamento alla procedura concorsuale speciale in oggetto) del "terzo acquirente della cosa locata", per ripetere la formula dell’art. 1605 c.c.

Le procedure concorsuali, per la specialità e peculiarità delle complesse regole che le disciplinano con riguardo alla sorte dei rapporti giuridici preesistenti, agli atti pregiudizievoli ai creditori, non possono non incidere, attraverso una diversa regolamentazione, sulla disciplina "ordinaria" dei vari rapporti giuridici.

La procedura ex legge "Prodi" che ha investito ONCOHOSPITAL (che è l’unico soggetto a favore del quale potrebbe astrattamente concedersi la cautela, per quel che si è visto), impone, quindi, di reperire le regole per dirimere il conflitto tra la società da ultimo citata ed i cessionari dei crediti, al di fuori della disciplina "fisiologica" di cui all’art. 1605 c.c. ed all’interno delle regole che l’ordinamento appresta per le procedure concorsuali.

Vi è un ulteriore argomento che corrobora quanto appena esposto.

L’art. 1605 c.c. riguarda la disciplina delle cessioni e liberazione dei fitti rispetto alla vendita volontaria, mentre l’art. 2924 c.c. concerne la cessione dei fitti nella vendita forzata.

Da ciò si desume che l’art. 1605 regola l’ipotesi di cessione dei fitti nell’ipotesi di vendita volontaria della cosa locata e che, se si tratti di vendita coatta o se sia intervenuto il fallimento, sono altre le norme che regolano il conflitto.

Nella specie, la posizione di ONCOHOSPITAL va riguardata come quella del cedente il credito, il quale sia, successivamente, fallito, perché, ai sensi dell’art. 2558 c.c., il credito ceduto è passato nel patrimonio della società cessionaria del ramo aziendale.

Si è già visto che l’art. 42, 2° comma L.F. non è applicabile e che non costituisce oggetto del "thema decidendum" la problematica afferente la revocatoria fallimentare.

La norma che - esattamente - il G.I. ha applicato è quella di cui all’art. 2918 c.c.

La giurisprudenza equipara il fallimento (ed anche le procedure concorsuali speciali) ad un "pignoramento generale" (Cass. 21/6/84, n. 3657; Cass. 22/9/90, n. 9650 concernenti l’art. 2914 c.c., ma - ovviamente - valevoli anche per l’art. 2918).

Nel caso in esame, si ripete, ONCOHOSPITAL è il soggetto fallito, i cui creditori concorsuali sono da equiparare al creditore procedente di cui parla l’art. 2918 c.c.

Ciò perché l’Amministrazione Straordinaria di ONCOHOSPITAL agisce a tutela dei creditori concorsuali.

L’articolo 2918 c.c. recita:

"Le cessioni e le liberazioni di pigioni e di fitti non ancora scaduti per un periodo eccedente i tre anni non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, se non sono trascritte anteriormente al pignoramento. Le cessioni e le liberazioni per un tempo inferiore ai tre anni e le cessioni e le liberazioni superiori ai tre anni non trascritte non hanno effetto, se non hanno data certa anteriore al pignoramento e, in ogni caso, non oltre il termine di un anno dal pignoramento".

Nella specie, è assolutamente pacifico che la cessione dei crediti ha durata ultratriennale, che ha data certa anteriore al decreto di messa in amministrazione straordinaria della S.r.l. ONCOHOSPITAL ed il G.I. ha ritenuto che la stessa non è stata trascritta.

La trascrizione di detta cessione è imposta dall’art. 2643, n. 9 c.c., il quale prescrive detta forma pubblicitaria per gli atti da cui risulti la cessione o liberazione di fitti non ancora scaduti, per un termine maggiore di tre anni.

Poiché solo il 7/3/96 ONCOHOSPITAL S.r.l. è stata sottoposta alla disciplina concorsuale della legge n. 95/79, nel provvedimento reclamato se ne è tratta la corretta conclusione che, ai sensi dell’ultima parte dell’art. 2918 c.c, solo dal 7/3/97 la cessione diverrà inopponibile al fallimento.

La CARIPUGLIA sostiene che la cessione, invece, è stata trascritta, perché - facendo essa parte integrante dell’atto di mutuo, espressamente richiamato, come dall’allegato 5, nel contratto di cessione del ramo di azienda, a sua volta trascritto prima del provvedimento di ammissione di ONCOHOSPITAL alla procedura concorsuale ed anche dell’analogo provvedimento concernente CCR - deve ritenersi compiuta la formalità della trascrizione e, quindi, riconosciuta la cessione da ONCOHOSPITAL, che - anzi - l’avrebbe fatta propria.

Seguendo detta tesi, la cessione dei canoni sarebbe pienamente opponibile alla massa dei creditori senza limiti temporali, trattandosi di atto trascritto, avente data certa anteriore al fallimento.

La cessione, in sé, certamente non è stata trascritta, sicché il G.I. ha bene argomentato.

Il rilievo concernente la ritenuta avvenuta trascrizione dell’atto di cessione, in virtù di un meccanismo di richiamo fra vari atti, in rapporto di continenza tra loro, desta, obiettivamente, perplessità, in quanto il regime pubblicitario degli atti è e deve essere improntato alla massima chiarezza e precisione, in modo di consentire ai terzi la conoscibilità.

Sembra difficile al Collegio poter ritenere, nella specie, possibile ai terzi la conoscibilità dell’atto di cessione, attraverso la trascrizione di un diverso atto, il quale pure richiami la cessione stessa.

Né va dimenticato che il terzo diligente il quale consulti i pubblici registri non può che prendere visione delle note di trascrizione o di iscrizione degli atti, così che solo se la nota di trascrizione riproduca, sia pure sinteticamente ma in maniera completa, l’intero tenore dell’atto, il terzo è in grado di avere contezza degli atti.

Nella documentazione prodotta in atti, non si rinviene alcuna nota di trascrizione che faccia esplicito riferimento alla cessione del credito futuro.

Né alcuna censura può appuntarsi al provvedimento reclamato in relazione all’applicabilità dell’art. 2918 c.c. al caso in esame, applicabilità sostenuta dalle stesse reclamanti.

Detta norma va, inoltre, coordinata con l’art. 2914, n. 2 c.c., il quale stabilisce l’inopponibilità al creditore procedente ed agli interventori, delle cessioni notificate o accettate dal debitore ceduto, successivamente al pignoramento.

Ne deriva che, nella specie, essendo avvenuta la notifica e l’accettazione della cessione prima del "pignoramento generale" (sia a quello relativo a CCR che a quello concernente ONCOHOSPITAL), l’atto in esame è inopponibile alla amministrazione straordinaria, ai sensi dell’art. 2914, n. 2 c.c., salvo quanto è disposto dall’art. 2918 c.c.

Il punto di contrasto attiene al "dies a quo" del termine di decorrenza dell’anno di cui all’art. 2918 c.c.

Secondo le reclamanti, esso decorre dalla data di apertura della procedura concernente CCR e, quindi, la cessione sarebbe divenuta inopponibile alla massa dei creditori dal 14/2/96, essendo stata aperta la procedura concorsuale il 14/2/95.

Così non è, perché la cautela è stata ritualmente richiesta solo a favore di ONCOHOSPITAL, sicché occorre fare riferimento alla data del 7/3/96, perché in tale data la predetta società è stata posta in amministrazione straordinaria, perché i creditori da tutelare sono quelli insinuati in detta procedura, non rilevando la circostanza che vi è stata una precedente procedura concorsuale, concernente altra e diversa società, nella quale si sono insinuati creditori diversi.

A parte tale profilo sostanziale, va rimarcato che, sotto il profilo processuale, nessuna pronuncia può astrattamente emettersi a favore di CCR, per quel che si è più volte detto.

Il credito ceduto è passato in capo ad ONCOHOSPITAL ai sensi dell’art. 2558 c.c. e l’art. 2918 c.c. trova applicazione tenendo fermo - quale data del "pignoramento generale" - il giorno 7/3/96.

Assolutamente condiviso dal Collegio, infine, è il rilievo del G.I., per il quale il diritto futuro non è cautelabile ex art. 700 c.p.c., perché il diritto, a detti fini, deve essere attuale ed esistente, potendo essere - al più - futuro o potenziale solo il pregiudizio.

E’, infatti, assolutamente pacifico, che le azioni future non sono cautelabili ex art. 700 c.p.c. e, poiché la domanda in oggetto sarebbe accoglibile solo a partire dal 7/3/97, il ricorso d’urgenza non è stato - esattamente - accolto dal G.I.

Ogni altra questione sollevata nella fase cautelare di prime cure e nella presente di reclamo rimane assorbita.

Il reclamo va, quindi, integralmente rigettato.

...Omissis...

Torna all'indice