WELFARE LOCALE E RETI SOCIALI

Alcune riflessioni intorno al decreto 112 del 1998

e alle proposte di legge quadro sui servizi sociali

Nuovi ruoli per servizi sociali Le disposizioni del decreto legislativo 112 del 1998 relative ai

servizi sociali (articolo 128 –134) costituiscono l’occasione non solo per un nuovo trasferimento di

competenza dallo Stato alle regioni e agli enti locali, ma anche per delineare alcuni degli elementi di

fondo del nuovo sistema dei servizi sociali, che dovrebbe trovare nella legge quadro di settore la specifica

e compiuta disciplina.

Non si tratta ovviamente di riconoscere al decreto 112 di conferimento delle funzioni – adottato in

attuazione della delega prevista dalla legge 59 del 1997 – meriti che non ha e una portata più ampia di

quella che gli è propria.

 

Purtuttavia, e nonostante limiti e incertezze, pure riscontrabili, sembra possibile cogliere nelle norme del

decreto legislativo 112, l’affermazione – seppure in nuce - di alcune tendenze legislative che trovano taluni

riscontri e sviluppi nelle proposte di legge quadro sulle politiche sociali.

In particolare, credo possa essere compiuta qualche riflessione proprio con riferimento a due testi normativi all’esame del Parlamento: il Testo unificato della "Legge quadro di riforma delle politiche di protezione sociale", risultante dai lavori della Commissione Affari sociali della Camera (relatore on.

Signorino) in una formulazione che è precedente(23.9.1997) alla adozione del decreto 112 (31.3.1998), inoltre, il recente disegno di legge governativo:

"Disposizioni per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali", presentato alla Camera dei deputati il 28 maggio 1998 (e quindi successivamente alla adozione del decreto 112) con il n. 4931.

Non si tratta ovviamente di proporre una lettura organica delle discipline normative in oggetto, che risultano essere assai complesse nella loro struttura e pertanto non affrontabili in maniera esaustiva nell’ambito di brevi note.

Quello che mi sembra possa essere di qualche interesse sottolineare, è invece un aspetto particolare da indagare nelle norme del decreto 112 e in quelle delle proposte legislative di legge quadro, relativamente alla possibile configurazione di un modello (o di modelli) di servizi sociali localizzati - o di welfare locale -, laddove alla differenziazione delle prestazioni e degli strumenti utilizzati faccia riscontro oppure no, la partecipazione di tutti i soggetti, pubblici e privati, nella determinazione delle scelte oltre che nella erogazione dei servizi.

Preliminarmente deve essere ricordato come il decreto 112 ,all’art. 128, offra una definizione dei servizi sociali differente da quella affermatasi –in senso onnicomprensivo – in particolare nel D.P.R. 616 del 1997.

Secondo la nuova disciplina, per servizi devono intendersi "tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della vita".

Da questa definizione possono essere tratte alcune ulteriori considerazioni.

Si tratta, innanzitutto, di attività volte a "rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà della ‘persona umana’ ", pertanto distinte da prestazioni di natura diversa (quelle previdenziali e sanitarie, seppure, potremmo aggiungere, fortemente integrabili con queste) e che riguardano la persona umana, non i soli cittadini, dando una accezione finalmente ampia delle comunità che sono, allo stesso tempo, destinatarie degli interventi e responsabili per la risoluzione delle situazioni di bisogno.

Inoltre, per quanto riguarda la natura delle attività queste possono concretizzarsi sia in servizi, del tutto gratuiti o anche in parte a carico dei

destinatari, sia in prestazioni economiche.

Il superamento della mera natura economica degli interventi assistenziali e il riconoscimento della dimensione comunitaria allargata (la persona umana, non i soli cittadini), porta a ritenere, come è stato sostenuto (v.E. Ferrari, Commento all’art. 128 del decreto 112, in Lo Stato autonomista, Bologna, II Mulino, 1998, 433,), che "è implicito nella norma, ma ben evidente alla sua logica, che le attività in questione possano essere tanto attività pubbliche e/o prestate da soggetti pubblici quanto attività private e/o prestate da soggetti privati". Così da poter concludere, nella logica del recente decreto di conferimento delle funzioni, che "il sistema, o meglio, secondo l’epressione oggi più riccorente, la rete dei "servizi sociali" è necessariamente composta da elementi pubblici ed elementi privati" (ibidem).

Il riparto delle competenze e l’annuncio dei servizi a rete nel decreto 112

Non mancano, peraltro, nelle norme del decreto 112 che riguadano più propriamente la distribuzione delle competenze tra Stato, le regioni e gli enti locali, riferimenti espliciti che portano a dover considerare il sistema dei servizi sociali non solo come sistema complesso con la partecipazione dei diversi livelli di governo territoriali, ma anche come sistema integrato pubblico-privato.

Viene così delineato, attraverso la disposizione di conferimento delle funzioni, un modello di interventi sociali che, se per un verso è fortemente localizzato, con il riconoscimento del ruolo fondamentale dei comuni nella erogazione dei servizi, per altro verso rompe rispetto allo schema esclusivamente

pubblicistico del governo delle politiche sociali (che aveva in gran parte ispirato il trasferimento di funzioni del 1977), per aprire proprio sulla prospettiva dei sistemi a rete, pubblico-privato.

Cerchiamo di procedere, per esigenze di chiarezza espositiva, con riferimento ai due profili della ripartizione delle funzioni amministrative e della definizione del sistema a rete, che, solo a questo fine, consideriamo in maniera distinta.

In primo luogo, la ripartizione delle funzioni operata dal decreto 112

conferma e porta ad ulteriori sviluppi la tendenza volta a riconoscere allo

Stato un ruolo essenzialmente regolatore delle politiche sociali (oltre al mantenimento

di alcuni interventi puntuali che si ritiene ancora, per loro natura,

richiedano la competenza statale).

Allo Stato, infatti sono mantenuti i compiti di determinare: i principi e gli

obiettivi della politica sociale; gli standard essenziali dei servizi sociali; i criteri

per la riparatizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali.

Nell’ambito dei rapporti tra soggetti pubblici territoriali, il pacchetto di funzioni amministrative mantenute allo Stato dall’art. 129 del decreto 112,

lascia chiaramente intravedere, se letto in combinato con le corrispettive

disposizioni che definiscono le funzioni di regioni ed enti locali, un sistema

nazionale delle politiche che si fonda su un quadro di riferimento statale ,necessario ed unitario, (principi,

obiettivi, standard essenziali e criteri di ripartizione delle risorse), e su opzioni locali che dovrebbero poter

concretizzare gli interventi più adeguati attraverso i servizi e le prestazioni economiche –per rispondere

alle specificità di quelle "situazioni di bisogno e di difficoltà" che la stessa legge pone a fondamento degli

interventi in ambito locale. Perciò, nel contesto di scelte politiche unitarie definite - anche in via

amministrativa, è bene ricordarlo, e non solo legislativa - dallo Stato, il decreto 112, riconosce il comune come il livello di amministrazione di base, cui

sono attribuiti i compiti di erogazione dei servizi e delle prestazioni sociali

(art. 131), nonché - anche se ad opera delle leggi regionali che dovranno

seguire - funzioni e compiti concernenti i servizi sociali relativi a specifiche

categorie (minori, giovani, anziani, famiglia, portatori di handicap, non vedenti

e audiolesi; tossicodipendenti e alcoodipendenti; invalidi civili).

Dalle norme del decreto 112 relative alla ripartizione delle funzioni

amminisrative nella materia dei servizi sociali, è possibile ricavare, però, anche

elementi significativi relativi al secondo dei profili che si richiama in

precedenza, quello concernente la definizione di un sistema a rete, pubblico

privato, di servizi sociali.

A questo riguardo, infatti allo Stato è riconosciuta la competenza per la

determinazione dei criteri generali per la programmazione delle rete degli

interventi di integrazione sociale da attuare a livello locale, nonché la determinazione

degli standard organizzativi dei soggetti pubblici e privati e degli

altri organismi che operano nell’ambito delle attività sociali e che concorrono

alla realizzazione della rete dei servizi sociali (art. 129, lett. b) e i).

Alle funzioni di regolamentazione statale fanno da corrispettivo, sul piano

più propriamente gestionale e operativo, i compiti di progettazione e di

realizzazione della rete dei servizi sociali, attribuiti ai comuni (art.131) ,e le

funzioni e i compiti – trasferiti alle regioni, che dovranno successivamente conferirli agli enti locali – relativi

alla promozione ed al coordinamento operativo dei soggetti e delle strutture che agiscono nell’ambito dei

servizi sociali, con particolare riguardo alla cooperazione sociale, alle IPAB e al volontariato (132).

Come si può notare, i riferimenti al modello a rete dei servizi sociali, sono

espliciti nel decreto 112 e, se posso azzardare una lettura, non devono essere

interpretati solo nell’ottica della ripartizione delle competenze tra soggetti pubblici,

in relazione alla gestione - in termini di maggiore efficienza ed economicità

- di un modello organizzativo quale può essere quello a rete.

Credo invece che la prefigurazione di un assetto pluralistico dei soggetti

chiamati a partecipare alle politiche sociali, sia da riconnettere anche se non

soprattutto, al potenziale di differenziazione dei sistemi locali. Tanto più si

afferma la possibilità di elaborare specifiche politiche sociali territoriali, pur

nel quadro comune nazionale, tanto maggiore, ritengo sarà la necessità di

chiamare i vari soggetti pubblici o privati, ad un coinvolgimento attivo nella

definizione delle scelte e nella gestione degli interventi. Ciò al fine di rafforzare

in primo luogo la legittimazione "comunitaria" delle scelte operate;

nonché per favorire il migliore impiego di tutte le risorse, umane, finanziarie ed organizzative, per il perseguimento degli obiettivi strategici definitivi.

Le innovazioni introdotte dal decreto 112, come ho cercato di affermare

all’inizio di queste considerazioni, vanno considerate, però, non certamente

esaustive di una disciplina legislativa che deve essere assicurata innanzitutto,

e finalmente, attraverso una apposita legge quadro delle politiche sociali.

Gli elementi di maggior interesse del decreto di conferimento delle

funzioni devono essere presi, pertanto, nella loro valenza anticipatoria di un

disegno che, ci si augura, possa giungere presto a compimento.

Walfare locale e partecipazione nelle proposte di legge quadro

Proprio nella prospettiva di una compiuta disciplina di settore, vanno

riscontrati, nelle proposte di legge quadro all’esame del Parlamento, ulteriori

elementi significativi con riferimento al modello relazionale dei soggetti pubblici

e privati nel campo dei servizi sociali.

Ai fini che qui interessano, dovendosi procedere per grandi semplificazioni,

e ferme restando le molte considerazioni, anche in chiave critica, che

potrebbero essere svolte, va innanzitutto preso atto che sia il Testo unico

elaborato dalla Commissione Affari Sociali della Camera, che il d.d.l. governativo

sul sistema integrato di interventi e servizi sociali, si muovono – nelle

grandi linee – nell’ottica dei ruoli che il decreto 112 ha definito per Stato,

regioni ed enti locali.

La definizione delle scelte fondamentali della politica sociale nazionale,

allo Stato; l’affermazione di una forte territorializzazione dei sistemi dei servizi

sociali in capo, principalmente, a regioni e comuni.

La proposta del Governo, in quanto presentata successivamente all’adozione

del decreto 112, tiene conto ovviamente delle innovazioni normative

da questo introdotte, mutuandone, laddove necessario, le stesse formulazioni.

Così, fatto un rinvio alla definizione delle attività sociali data dal decreto

legislativo di attuazione della legge 59/97, il d.d.l. 4931 afferma, all’art. 1,

che agli enti locali, alle regioni e allo Stato è affidata la programmazione e la

gestione della rete di interventi e servizi sociali. All’offerta dei servizi provvedono,

invece, soggetti pubblici e privati, organismi di utilità sociale non

lucrativi e quelli di cooperazione, associazioni di volontariato, fondazioni,

cooperative sociali, enti di patronato, quali soggetti attivi nella progettazione

e nella realizzazione degli interventi.

Tutti i soggetti appena evocati, sono chiamati, inoltre, insieme alle organizzazioni

sindacali, sociali e di tutela degli utenti, a concorrere al raggiungi- mento dei fini istituzionali della legge, nei modi e nelle forme da questa

stessa stabiliti.

Competenze e ruoli dei soggetti pubblici e privati vengono cosi a sovrapporsi,

su piani differenti di intervento (regolazione, programmazione,

progettazione, gestione) a seconda che si tratti di definire i rapporti tra enti

pubblici territoriali (Stato, regioni, enti locali), oppure le relazioni tra questi e

gli altri soggetti pubblici o privati della rete.

Una lettura analoga può essere proposta, per questi aspetti, anche con

riguardo al Testo unificato Signorino, che all’art. 1 definisce le linee portanti

della proposta legislativa, delineando il ruolo di Stato, regioni ed enti locali,

nonché quello della rete dei servizi.

Ora c’è da chiedersi se tutto il sistema poggi su un sistema relazionale

volto a garantire una maggiore efficienza nei servizi o se, come pure si

accennava, sia anche, se non soprattutto, un nuovo modello partecipativo

alla definizione e alla gestione delle politiche sociali.

La stessa relazione al d.d.l. del Governo, sembra esplicitare - anche se

solo parzialmente - una tale consapevolezza, quando afferma che, affermato

il ruolo regolatore dello Stato per garantire livelli omogenei di interventi e di

servizi nel Paese, la valorizzazione dei comuni - singoli o associati - risponde

allo scopo di razionalizzare la funzionalità e l’economicità dei servizi; ma,

allo stesso tempo, è il solo modo "per valorizzare, quali soggetti attivi nella

progettazione e nella realizzazione dell’offerta dei servizi, gli organismi non

lucrativi di utilità sociale, gli organismi di cooperazione, le fondazioni, le

cooperative sociali, gli enti di patronato, i soggetti privati e le associazioni di

volontariato. Infatti, soltanto i comuni, singoli o associati, sono in grado di

proporsi l’obiettivo, nell’ambito del modello di servizi a rete, di promuovere

le risorse delle collettività locali attraverso forme innovative di collaborazione

per la creazione e la gestione di interventi di autoaiuto e per favorire la

reciprocità nell’ambito della vita comunitaria".

La decisa localizzazione dell’intervento di politica sociale deve comportare,

cioè, la possibilità per tutti i soggetti operanti sul territorio di essere

compartecipi nella progettazione e realizzazione degli interventi.

I potenziali confini di differenziazione di un c.d. welfare locale, che

poggiano su una nuova concezione di equità sociale, che consideri "le differenze

fra le persone tenuto conto del loro reddito, del sesso, dell’età e della

collocazione geografica" (relazione al d.d.l. 4931), postulano pertanto forme

nuove di collaborazione attiva dei vari soggetti. Gli strumenti della concertazione, tra maggiore

efficienza amministrativa e dinamiche decisionali focali.

È in questa prospettiva che possiamo riscontrare nelle due proposte in

esame, il ricorso agli strumenti della concertazione e della programmazione

negoziata per la definizione delle scelte principali della politica sociale.

Concertazione da perseguire anche attraverso, appunto, il ricorso a strumenti

introdotti recentemente dal legislatore per finalità propriamente connesse

agli obiettivi di sviluppo locale e che si fondano sul partenariato sociale.

II Testo unico Signorino invoca in più occasioni il ricorso ai patti territoriali

per la realizzazione della rete sociale: il Piano nazionale dei servizi di

protezione sociale indica gli indirizzi per lo sviluppo dei patti territoriali per

la costruzione di reti di sotidarietà sociale (art. 6, co. 3, lett. d)); le regioni

promuovono forme innovative e gestionali con particolare riferimento ai

patti territoriali per la costruzione di reti di solidarietà sociale (art. 7, co. 1,

lett. f)), che sono promosse dai comuni art. 9, co. 3, lett. b).

I patti territoriali come noto, sono stati introdotti dalla legge 662 del 1996

(comma 203, lett. d)), quali accordi, promossi da enti territoriali, parti sociali,

o da altri soggetti pubblici o privati, per l’attuazione di un programma di

interventi per lo sviluppo locale.

Affidare la realizzazione delle reti di solidarietà sociale ai patti territoriali

costituisce, in effetti, attraverso la traslazione dello strumento di programmazione

negoziata anche al settore delle politiche sociali, il modo forse più

nuovo per affermare l’esigenza di convogliare intorno a specifici obiettivi di

sviluppo locale tutte le energie disponibili sul territorio. E ciò a prescindere

dal fatto che i differenti soggetti promotori o sottoscrittori, abbiano natura

pubblica o privata, oppure siano a carattere imprenditoriale o no profit.

Oltre alla individuazione degli obiettivi principali da perseguire, il patto

dovrà definire gli impegni e gli obblighi di ciascuno dei soggetti sottoscrittori,

le attività e gli interventi da realizzare, il piano finanziario e i piani temporali

(v. Deliberazione CIPE del 21 marzo 1997).

II modello proposto dal Testo unificato della Camera, fondato sui patti,

trova inoltre ulteriore sviluppo nella medesima proposta legislativa nella

previsione di apposite conferenze dei servizi di protezione sociale, cui partecipano

anche i soggetti e gli organismi di utilità sociale, al fine di favorire

l’esame delle rispettive realtà territoriali e formulare proposte per l’aggiornamento

degli strumenti di programmazione regionale (art. 10, co. 3, lett. d).

Inoltre, il piano di zona per le attività di protezione sociale e sociosanitarie,

è definito attraverso accordi di programma (ex art 27, L. 142/1990) cui

possono partecipare anche gli organismi di utilità sociale presenti a livello locale, accreditati e non, in modo da assicurare l’adeguato coordinamento

delle risorse umane e finanziarie (art. 11).

Anche il d.d.l. del Governo si fonda, come si è accennato, su strumenti di

tipo collaborativo, anche se non fa esplicito riferimento ai patti territoriali per

la realizzazione delle reti di solidarietà. Nonostante che ne ponga in un certo

senso il presupposto necessario, prevedendo che la concertazione tra enti

locali, regioni e Stato, per la programmazione ed il reperimento delle risorse

economiche per realizzare la rete integrata di interventi sociali, avvenga anche

mediante il ricorso all’intesa istituzionale di programma, prevista sempre dalla

legge 662 del 1996 nell’ambito degli strumenti di programmazione negoziata.

L’intesa istituzionale costituisce, pertanto, nell’ottica della proposta governativa,

la forma privilegiata di concertazione, con riguardo in particolare ai rapporti

con le ASL e con le associazioni sindacali, gli organismi e i soggetti privati, che

partecipano con proprie risorse alla realizzazione della rete (art. 2).

Come si vede, la presenza in chiave pluralistica dei differenti soggetti

operanti nel campo dei servizi sociali costituisce una costante delle proposte

in esame, che trova il proprio campo di affermazione proprio nella ricerca di

quelle che anche il d.d.l. del Governo definisce come "sperimentazioni

innovative" per la concertazione delle risorse umane, economiche, finanziarie,

pubbliche e private, per la costruzione di reti integrate di interventi sociali.

Si tratta allora di prendere consapevolezza che una nuova stagione può

aprirsi nell’ambito delle politiche sociali del nostro paese, dove le potenziali

differenziazioni degli interventi sul territorio, sempre nei quadro di livelli

omogenei essenziali nazionali, devono fondarsi su patti locali tra i differenti

soggetti operanti nel campo sociale. Ciò non solo per assicurare maggiori

risorse finanziarie ed umane o per garantire una più elevata efficienza degli

interventi, ma per definire, in primo luogo, gli obiettivi prioritari da perseguire

in risposta alle specifiche esigenze di ciascuna comunità.

Guido Meloni

Università degli Studi

"Luis" di Roma

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