In un ipotetico vocabolario della palla arancio il playmaker potrebbe
essere definito come il "piccoletto" che porta la palla da una metà campo
all'altra, staziona fuori dalla linea dei tre punti e da lì coinvolge i compagni, tenta
qualche penetrazione e qualche tiro piedi per terra. Il pivot invece è
il "lungagnone" che domina il post basso con i suoi movimenti schiena a canestro
e prende una valanga di rimbalzi.
A Indianapolis diciamo che Mark Jackson e Rik Smits non sono così
d'accordo con la teoria di cui sopra. La dimostrazione a Philadelphia in gara 6 tra Sixers
e Pacers.
Gli
ospiti hanno portato a casa partita e serie piegando la meravigliosa difesa di Lynch e
soci con un fantastico terzo quarto. Jackson, il piccoletto, ha portato Allen Iverson a
scuola in post basso e Smits, dall'alto dei suoi 224 centimetri, ha iniziato ad essere una
sentenza dai cinque metri, allontanando dal canestro quell'autentica belva delle zone
verniciate che risponde al nome di Theo Ratliff.
Se pensate che questo è stato un episodio isolato andate a chiedere notizie ai New
York Knicks. La nostra coppia di veterani ha creato non pochi problemi a signori difensori
come Ward e Ewing ed ha aiutato Miller e Rose a portare Indiana alla finale NBA contro i
Lakers.
Mark e Rik a prima vista sembrano due persone completamente diverse, ma osservandoli
meglio si vedono invece tante analogie nelle carriere di questi due fuoriclasse.
Jackson è nato
trentacinque anni fa tra i playground di New York ed è stato scelto proprio dalla squadra
della sua città (è stato poi scaricato da Riley dopo cinque stagioni). In campo regala
spettacolo con i suoi passaggi assolutamente geniali e
fa sentire la sue emozioni a compagni e avversari: l'emblema è la grande croce,
il gesto in risposta alla grande L di Larry Johnson.
Insieme a Payton è il miglior playmaker della lega spalle a canestro e solo Stockton
è in grado di condurre un attacco in modo altrettanto efficace. Con un tiro da fuori più
affidabile e una difesa più aggressiva sarebbe stato un All Star per dieci anni buoni.
Smits,
che invece alla partita delle stelle c'è stato, è nato in Olanda un anno dopo e ha
sempre giocato nei Pacers dopo essere le seconda scelta assoluta del draft del 1988. Pochi
lunghi hanno mani educate come le sue, e i suoi centimetri rendono immarcabile il tiro dai
cinque metri; i movimenti in zona verniciata sono difficilmente contenibili, anche se ti
chiami Mourning o Shaq.
Il limite del suo gioco è la scarsa fisicità (dovuta peraltro al fatto che si ritrova
i piedi di un sessantenne): anche nel pieno della carriera è sempre stato tra i peggiori
centri in rimbalzi e stoppate, non esattamente cosa vi aspettate dal vostro sette piedi.
Per entrambi il minutaggio nelle ultime stagioni è sceso, ma il contributo che danno
ai Pacers è ancora grandissimo: nessuna squadra NBA attacca bene come Indiana quando i
due sono sul terreno di gioco.
La loro intelligenza, il loro gioco particolare uniti a fuoriclasse come Miller e Rose
rende la vita impossibile alle difese avversarie che hanno sempre un paio di accoppiamenti
sfavorevoli.
In questi giorni sono riusciti a coronare il sogno di ogni giocatore con l'accesso alla
finale e sperano di infilarsi l'anello di campioni al dito. Sulla strada dei Pacers c'è
la squadra del prossimo millennio, i Lakers di Kobe e Shaq, attesi alla prima puntata
della futura dinastia.
Durante la serie il loro contributo ha fatto la differenza. Quando Smits è stato in
campo O'Neal ha avuto problemi in difesa e con i falli, mentre l'importanza di Jackson
paradossalmente la si è notata quando era in panchina, perché in quei momenti l'attacco
di Indiana perdeva fluidità e ritmo.
La serie è ora sul tre a due, a Los Angeles sono pronti per festeggiare, me se Jackson
mette un paio di conclusioni dalla distanza e Smits sta lontano da falli veniali per i
Lakers sarà dura e gli eredi degli Hoosiers potranno continuare a far vivere il sogno
dell'intero stato dell'Indiana. |