IL REGNO DI EMANDINI

IL MANIERO

 

I rami secchi scricchiolavano sotto i piedi. L’ispettore Jhon Marlon avrebbe voluto tanto rimanere nella sua casa ad ascoltare musica classica, invece che camminare di notte in aperta campagna, dove l’unica melodia che gli riempiva l’orecchio era quella prodotta dalle strazianti urla del vento. Quei gemiti e quei rantoli portavano alla mente urla di donne e bambini, immagini di morte e d’orrore. Il poliziotto scacciò dalla mente quei pensieri. Già da tempo aveva sacrificato il suo sonno; ogni volta che provava a chiudere gli occhi nel suo letto o sul divano gli si presentavano davanti fotogrammi di cadaveri su barelle di obitori, corpi privati delle loro membra, parenti in lacrime, assassini, mostri. E non erano incubi; erano molto peggio. Erano le sue proiezioni mentali. Erano iniziati da quando era andato a lavorare a Scotland Yard. Marlon aveva subito capito una cosa: non era assolutamente vero che dopo poco si faceva l’abitudine. Alla morte mai si sarebbe potuta fare l’abitudine.

Tornò alla realtà e tentò di coprirsi le orecchie col giaccone; di lì a poco si sarebbero trasformate in una coppia di geloni. Eppure la casa doveva essere da quelle parti; a meno che non fosse uno scherzo. No, non poteva essere uno scherzo. Aveva imparato a captare l’odore della morte nell’aria; in quella zona si faceva particolarmente spiccato. Qualcuno l’avrebbe chiamata sensazione, ma lui sapeva che non era così. L’unica persona di cui si fidava era sé stesso, ma aveva deciso di fidarsi fino in fondo.

Aveva registrato la telefonata; era sua abitudine, per precauzione. Non capitava di rado che qualche maniaco lo chiamasse rivendicando un suo crimine. Poi aveva risentito il nastro. Voce tipicamente femminile, di una settantenne o giù di lì, una persona anziana. Con tono fermo aveva annunciato di aver rinvenuto un cadavere. Poi aveva scandito l’indirizzo. Aperta campagna. Marlon aveva dovuto lasciare la macchina al parcheggio di un pub, da lì aveva proseguito a piedi tra fusti ed erbacce. Eppure sentiva che non era uno scherzo.

Guardò l’orologio nel buio: erano le tre passate. La telefonata era arrivata alle due meno dieci. Non si era spiegato perché era stato chiamato lui invece che la centrale. Solo dopo si era ricordato del concerto notturno. Scotland Yard aveva disposto di uno spiegamento di forze, ed il sovrintendente lo aveva avvertito che, in caso di emergenza, qualche chiamata sarebbe stata dirottata alla sua abitazione. Come lui, un’altra ventina di ispettori. Doveva essere una nottataccia.

Le sue riflessioni furono interrotte bruscamente. All’orizzonte si stagliava imponente la casa, che somigliava più ad un maniero che a una villetta di campagna. Stile gotico, forse. La luce all’interno era spenta. Controllò le indicazioni; l’indirizzo era quello. Salì le scalette e bussò alla porta dell’abitazione. Attese una manciata di secondi. Nessuna risposta. Riprovò. Niente.

Si mise seduto sulle scalette ad aspettare. Il maniero non poteva essere abbandonato. Eppure nessuno veniva ad aprire. La chiamata era giunta da lì. Dannazione. Non aveva un mandato. Se ci fosse stato un cadavere lì dentro? Non poteva entrare. Si che poteva. Un maledetto scherzo. O no?

Impugnò la pistola nella tasca per farsi coraggio. Il vento continuava ad ululare nella campagna. O forse era davvero un lupo. Marlon non avrebbe saputo dirlo. Si alzò lentamente. Rigirò per qualche secondo la pistola tra le mani, poi mirò e lasciò partire il colpo. La serratura saltò, mentre l’eco dello sparo si aggiungeva ai versi del vento e degli animali. Sentì abbaiare.

Intanto la porta era aperta. Spalancata. L’ispettore entrò, sempre con la sua .38 salda in pugno. In altre occasioni sarebbe parso ridicolo. Un’irruzione armata in un maniero presumibilmente abbandonato. Però stavolta no; aveva paura. Si meravigliò, ma era inconfondibile. Paura. Era la paura che gli attanagliava la gola in una morsa, e che gli faceva saldamente impugnare la pistola.

"Scotland Yard! C’è nessuno?" tuonò per esorcizzare la paura

Mosse lentamente tre passi all’interno dell’abitazione. Si trovava in un atrio spazioso dove spiccava un pendolo imponente e minaccioso. Provò ad accendere la luce. Ma non c’era luce. Lanciò un’altra occhiata all’orologio a muro. Poi controllò il suo. Incredibile, non poteva essere. Ripeté la stessa operazione altre due volte, poi ne ebbe la certezza. Il pendolo spaccava il secondo; quella casa non poteva essere disabitata.

Sempre con circospezione entrò in un’altra stanza, impugnando saldamente la .38. Era una sala da pranzo. Il tavolo lungo e ampio, le pareti decorate da ritratti indefiniti. Uno probabilmente raffigurava un cane di dimensioni equine, o forse un cavallo. Improvvisamente Marlon indietreggiò terrorizzato. Gli occhi dell’animale ritratto scintillavano brillanti nell’oscurità. Il soggetto del quadro cominciò lentamente a muoversi, a prendere vita, prima con una serie di movimenti lenti, poi, come se avesse individuato l’intruso, digrignando i denti e ruggendo. L’ispettore si convinse di essere in un sogno. Non poteva essere la realtà. Intanto i ruggiti crescevano di volume e di intensità, e il cane cominciò a sbavare furioso. Marlon prese la mira e chiuse gli occhi. Poi lasciò partire un colpo.

Riaprì gli occhi. Dovette sbattere le palpebre due o tre volte per abituarsi alla luce artificiale. Una voce famigliare lo raggiunse:

"Chi diavolo è lei?!? Cosa ci fa in casa mia?"

Marlon si girò sguainando per l’ennesima volta la sua arma

"Il cane si muoveva! Mi dica perché il cane si muoveva!" urlò inviperito

Vide in faccia per la prima volta la sua interlocutrice. Era una signora anziana, un cespuglio di capelli bianchi sulla testa. Aveva una vestaglia nera, era evidente che stava dormendo. La donna inaspettatamente si rilassò, e sprofondò a sedere in un divano scuro

"Ci dobbiamo essere sentiti per telefono, io e lei"

Marlon abbassò la rivoltella e parlò, il viso stravolto in una smorfia:

"Mi deve spiegare cosa diavolo sta succedendo. Mi ha svegliato nel cuore della notte dicendo di aver rinvenuto un cadavere, mi ha dato il suo indirizzo, sono arrivato a casa sua, peraltro dispersa tra i boschi, alle tre e mezza di notte e lei non mi apre, in più il cane del ritratto si muove e sta per attaccarmi…"

"Cosa diavolo va blaterando? Si sieda" ordinò perentoria la donna

"No! Adesso deve spiegarmi perché il cane si muoveva! Cosa è lei, un’illusionista? Una maga? Oppure una stre..." bloccò a metà la parola quando si girò per indicare il ritratto. Non c’era nessun quadro raffigurante un cane. Era sparito. Rimaneva però un foro evidente sul muro, provocato da una pallottola.

La padrona di casa disse languidamente:

"I fantasmi devono essersi divertiti con lei"

L’ispettore intanto si stava riprendendo. Respirò profondamente e ripose la pistola nella tasca. Poi sedette.

"Perché non mi ha aperto? Dov’è il cadavere, signora..."

"Mi chiamo Anita. Anita Hammer. Stavo dormendo, non l’ho sentita arrivare. Pensavo che ormai non arrivasse più. Mi ero rassegnata"

"Ma... e il cadavere?"

"Oh, è qui. Mi segua"

La donna sistemò la sua vestaglia, poi si frugò per alcuni secondi nelle tasche. Finalmente estrasse una chiave, e parlò:

"L’ho messo sotto chiave. E’ nel bagno"

L’ispettore aveva la mente in subbuglio. Un cadavere nel bagno? Quella donna era una psicopatica. Forse anche un’assassina. Poteva essere pericolosa. E poi il quadro... era sicuro d’averlo visto. Un’allucinazione… o no? Un dito gelido gli percorse la schiena. Portò la mano alla pistola

Anita stava facendo girare la chiave

"Si tappi il naso. L’odore non è gradevole" avvertì senza scomporsi

Marlon si portò un fazzoletto alle narici con la mano sinistra. La destra era salda sulla .38. Entrò nel bagno. Era nella vasca.

Doveva avere una cinquantina d’anni. O forse sessanta, o forse quaranta. Non era facile stabilirlo. Quasi tutti gli strati di pelle avevano abbandonato la loro essenza corporea. Avanzato stato di decomposizione, avrebbe detto un medico legale. Il corpo era completamente nudo nella vasca ormai prosciugata. La morte lo aveva colto mentre stava facendo il bagno.

Dopo averlo fissato per qualche secondo, Marlon disse:

"Il cadavere è decomposto. Quest’uomo è morto da settimane. Perché ha chiamato la polizia soltanto oggi?"

"Sono stata fuori da mia sorella fino a stasera. Tornata a casa, l’ho trovato così. Non lo conoscevo. Ho contattato subito Scotland Yard"

"E lei vuole farmi credere che era andata a dormire con un uomo morto nel bagno?" chiese sarcasticamente Marlon

La donna non rispose niente

"L’ha ucciso lei?" chiese l’ispettore

Anita si passò lentamente una mano tra i capelli, sempre senza parlare

"Devo portarla in centrale"

"Mi vuole arrestare?" la padrona di casa si era come risvegliata "con quali prove? Non sa chi era questo poveretto né come è morto"

"Scommetto che invece lei lo sa, vero?" ribatté prontamente il poliziotto

La figura si aggiustò nuovamente la vestaglia. Poi parlò:

"Non chiama la Scientifica? Non chiama il medico legale? Non fa portare il cadavere all’obitorio?"

"C’è tempo" rispose Marlon senza scomporsi "prima voglio scoprire chi era e perché l’ha ucciso"

Improvvisamente un ruggito disumano riempì la casa. L’ispettore si girò. A pochi metri da lui c’era il cane gigantesco visto nel quadro. Era uscito. Aveva preso vita. Sembrava ancora più grande, almeno due metri. Ancora più simile ad un cavallo. Gli occhi erano due biglie infuocate, la bocca colava bava fin sul pavimento. L’investigatore non fece in tempo a premere il grilletto che il mostro gli fu addosso, azzannandolo al braccio destro. La .38 scivolò gli scivolò via dalla mano. Poi percepì le fauci sul suo corpo. Sentiva l’alito nauseabondo della bestia. Lo stava mordendo alla gola. Un fiotto di sangue gli fece annebbiare la vista. E seppe che stava morendo.

 

Aprì finalmente gli occhi quando sentì una folata di vento sulla faccia. Ci vollero diversi secondi per capire dove si trovava; era sdraiato su un divano scuro in una casa che non conosceva. Poi ad un tratto ricordò tutti gli avvenimenti della sera prima. Guardò l’orologio. Erano le dieci del mattino. Si alzò a sedere toccandosi la gola. Era stato sgozzato. Neanche una goccia di sangue. Si controllò ad un enorme specchio a muro. Vestiti stropicciati, ma neanche una ferita. Incredibile.

Poi si diresse verso il bagno, ma si bloccò alla porta. Il tanfo gli chiudeva il naso. Non ci volle molto per realizzare che il cadavere decomposto era ancora nella posizione del giorno precedente. Allora guardò il quadro. Rimase a fissarlo per un paio di minuti. Era sbigottito.

Al cane equino della sera prima nel ritratto si era affiancata una figura femminile. Teneva una mano sull’animale, e sfoggiava un sorriso luminoso. Marlon si avvicinò per vedere meglio. Lesse il nome sulla cornice, e dovette rivederlo molte altre volte per rendersi conto.

Una targhetta d’oro recitava: "Anita Hammer, 1912-1986"

Quando si fu ripreso, frugò a lungo in tutti i cassetti della casa. Finché trovo un portafogli con una carta d’identità. Finalmente seppe il nome del morto. Insieme al suo, quello dei suoi genitori.

Individuò un telefono e compose il numero di Scotland Yard. Dalla voce burbera riconobbe l’ispettore Carrella

"Diavolo, Jhon! Perché non sei in centrale?" tuonò l’interlocutore

"Prima rispondimi tu. Mi è stata inviata una chiamata ieri notte?"

"No, non abbiamo buttato giù dal letto nessuno. Ce la siamo cavata da soli. Un inferno quel concerto…"

"Come pensavo. Mi ha chiamato qualcun altro"

"Chi?"

"Una storia incredibile: un fantasma mi ha segnalato il cadavere di suo figlio per consentirgli la sepoltura adeguata. Probabilmente è morto d’infarto, o chissà cos’altro… nessuno l’avrebbe mai trovato, in questo maniero smarrito tra i boschi…"

"Ma cosa vai farneticando?!"

"Niente, niente. Mandami una pattuglia. E pure un’ambulanza. Aspetta che ti do l’indirizzo…"

un racconto partorito dal malsano cervello di Emandini

 

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