IL REGNO DI EMANDINI

 

Love story


di Emanuele Di Nicola

 

Mi trovo seduto qui, solo, isolato. Sono morto, questo è l’inferno. Me lo immaginavo molto diverso, ma non è poi così male; l’unico grande inferno è, o meglio era, la vita, l’insipida vita che conducevo.Ma adesso è finita. Vi racconterò come successe.

Era il mio primo giorno da disoccupato. Vivevo solo, con le ragazze sono sempre stato troppo timido. E avrei dovuto continuare ad esserlo, forse. Comunque, stavo dicendo; ero stato scalzato dal mio posto di impiegato statale per alcuni errori ma, soprattutto, perché avevo rifiutato le proposte del mio capoufficio. Non erano proposte di lavoro, ma di altro tipo: quel deficiente era omosessuale. La mattina vagai senza meta in un mondo di anime dannate, quando una lampadina si accese nel mio cervello. La sponda del fiume era delimitata da una sbarra di ferro. La scavalcai. Il Creatore stava per accogliermi nelle sue braccia divine, quando una mano mi si posò sulla spalla. Forse questo è solo un sogno, io mi sono suicidato quel giorno. Forse è solo il sogno di un morto…

Lei era una fata, come me le aveva sempre descritte la mamma: i capelli neri scendevano fino al seno perfetto, le gambe eleganti sembravano adottare in maniera istintiva un portamento aristocratico e dolcissimo. Mi stava sorridendo.

"Non è una bella giornata per guardare il fiume" disse, sempre col sorriso sulle labbra

Restai zitto, ma in una manciata di secondi la mia bocca si era allargata in un sorriso. Tutti i problemi, di fronte a quella venere, erano scomparsi

"Chi…sei?" chiesi flebilmente

"Sono un angelo. Un angelo del Signore"

Avevo sentito parlare di qualcosa del genere, quando mamma mi obbligava ad accompagnarla alla messa della domenica

"Ti…ti hanno mandato per me?" dissi, scavalcando la sbarra, questa volta dalla parte della vita

"Mi hanno mandato per curare i mali del mondo. Come ti chiami?"

"Omar. E tu?"

"Gli angeli non hanno un nome. Ma puoi chiamarmi Shirley"

Omar era appunto il mio insignificante pusillanime nome, ma in quel momento mi pareva avere un importanza vitale. Quante sciocchezze si fanno quando si è innamorati. Ma quella fu solo la prima.

"Perché non prendiamo qualcosa al bar?" consigliò con voce flautata. Era impossibile rifiutare.

Improvvisamente un povero disoccupato aspirante suicida si era illuminato d’immenso alla vista di una creatura divina. La amavo, e quella notte si consumò la mia "prima volta". Che poi sarebbe stata anche l’ultima, lo avrei saputo solamente dopo. La settimana successiva il mio capoufficio mi chiamò a casa, porgendomi le scuse, e proponendomi una promozione. In quel momento la mia mente fu invasa da un solo, ricorrente pensiero: il matrimonio. Con Shirley, l’angelo del Signore.

Il giorno del mio ritorno in ufficio da promosso sentivo una strana angoscia pervadermi l’animo. Ero improvvisamente diventato il superiore di una cinquantina di impiegati. Chiamai nel mio nuovo ufficio Jacobs, il mio migliore amico. Ci conoscevamo dalla scuola media ed avevamo ottenuto il posto insieme. Il destino si era divertito ad intrecciare le nostre strade.

Quel giorno Jacobs indossava una cravatta molto vivace che portava ormai da diversi anni. Sembrava felice.

"Buongiorno, signore" disse canzonandomi

"Abbia più rispetto per chi le è superiore e modifichi il suo registro espressivo, signor Markey"

Non gli avevo mai dato del lei e non lo avevo mai chiamato per cognome

"Cosa diavolo ti prende? Ho messo la mia cravatta preferita per festeggiare…"

"Lei è licenziato, signor Markey" dissi, e rimasi sorpreso dalle parole che mi uscivano dalla bocca "non posso accettare un simile comportamento e certi costumi nel mio ufficio. Butti la sua cravatta nella spazzatura e svuoti il suo armadio. Se ne vada, subito"

Il mio amico aveva sbarrato gli occhi sbigottito

"Stai scherzando, vero?"

"Signor Markey, se non esce immediatamente dal mio ufficio e non segue le mie disposizioni sarò costretto a chiamare la sicurezza"

"Questo gioco è durato troppo" disse Jacobs

Senza esitazioni composi il numero di telefono della sicurezza. Dieci secondi dopo due uomini corpulenti cercavano di trascinare fuori il mio interlocutore, che intanto era in preda ad una crisi epilettica. Rimasi ad osservare la scena senza provare nessuna sensazione. L’indisciplina andava punita.

Quella sera quando tornai a casa trovai il mio angelo personale ad aspettarmi. Mi saltò letteralmente al collo.

"Com’è andato il primo giorno da grande capo?" chiese gioiosa

"Ho dovuto subito licenziare un impiegato. Un ignorante, te lo posso assicurare"

"Allora sarai stanco. Non mi porti a ballare stasera?"

"Certo angelo mio"

La mattina mentre facevo la doccia tenevo la radio accesa. E lì appresi la notizia. La voce di una signorina decisa e autoritaria annunciò che Jacobs Markey, trentadue anni, si era suicidato gettandosi nel fiume sotto gli occhi di tutti i passanti. Nessuno aveva avuto il tempo di intervenire, ed il suicida era rimasto impigliato ad uno scoglio, annegando. Non erano ancora chiari i motivi del gesto, pareva avesse avuto qualche problema con il suo capoufficio.

Per lui l’angelo non era arrivato. Non tutti sono così fortunati. Pazienza.

La domenica successiva Shirley non era ancora arrivata, quando bussarono alla porta. Un uomo elegante sorrideva con un aspirapolvere multifunzionale in mano.

"Prego, se vuole accomodarsi, le offrirò un caffè"

L’omuncolo era sorpreso. Non capitava di frequente ad un venditore ambulante di essere accolto così cortesemente in una casa. Quel giorno era stato baciato dalla sorte. O forse dalla morte?…

Seduto con la tazza in mano, cominciò ad elencare i pregi del suo prodotto, quando la notai. Protetta da una giacca nera, c’era la stessa cravatta di Jacobs. Andai in cucina ed estrassi un coltello dal cassetto.

"Ci vuole disciplina. La mancanza di costume è l’origine dei mali del mondo" dissi, quasi istintivamente

"La nostra aspirapolvere garantisce tutto questo, Omar. E il prezzo…"

Fu un colpo solo; gli cavai un occhio e cominciò ad urlare come un maiale al macello. Piangeva e sanguinava, mentre l’occhio mi lanciava uno sguardo colpevole dal pavimento. Intanto il venditore si era accasciato a terra, probabilmente svenuto. Con meticolosità estrassi le sue budella e le sparsi fino a sopra il soffitto. Accesi l’aspirapolvere e feci scomparire in meno di un minuto le interiora, che intanto cominciavano ad emanare un odore pestilenziale. Aveva ragione, quell’insignificante burattino; era davvero efficiente.

Quella sera preparai tutto minuziosamente. Il minestrone era già in tavola, quando arrivò il mio angelo personale. L’avevo invitata a cena.

"Ti scodello io, angelo" dissi. Ormai per me il suo nome era quello.

Inghiottì un paio di cucchiaiate, poi un’espressione di terrore si disegnò sul suo volto. In quel momento mi resi conto del mio grave errore: non avevo messo la cipolla nel minestrone. E pure ero sicuro di averla messa… dovevo essermi confuso. L’angelo intanto stava componendo un numero di telefono. Ecco dove avevo sbagliato: pensando di prendere la cipolla, avevo distrattamente afferrato qualcos’altro… me lo diceva mamma di stare attento quando facevo il minestrone…

Nel piatto di Shirley c’era un occhio umano.

Feci per toglierlo con il mio cucchiaio, quando degli uomini vestiti di blu mi circondarono.

 

Furono loro a uccidermi. Ora sto qui, nell’inferno, da solo con i miei fantasmi, in quest’angolo buio. Improvvisamente si apre una porta, due uomini blu entrano nella stanza insieme a un sacerdote.

"Vieni, figliolo" dice il prete "devi confessarti prima dell’esecuzione"

FINE

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